«Dialogo sull’antifascismo il Pci e l’Italia repubblicana», per Editori Riuniti. Una conversazione che apre mille interrogativi e intreccia i fili di quarant'anni di storia».
il manifesto, 27 dicembre 2013
Nel 1994, Vittorio Foa e Aldo Natoli, due delle figure più alte della storia della sinistra in Italia, si sedettero davanti a un registratore e cominciarono a raccontare – o meglio, Vittorio Foa invitò Natoli a raccontare, accompagnandolo con il contrappunto di domande e commenti mai intrusivi, sempre riflessivi, in un intreccio dialogico di condivisione e di diversità. Avevano rispettivamente 84 e 81 anni, da tempo avevano riorientato l’impegno politico di una vita verso la ricerca storica e la riflessione politica, con esiti memorabili, dalla Gerusalemme rimandata di Foa all’Antigone e il prigioniero di Natoli; ma la conversazione fra i due non è una semplice rivisitazione del passato, bensì un ragionamento a tutto campo che illumina le contraddizioni del presente.
Come ogni storia orale che si rispetti, infatti, anche questa conversazione è un documento sul passato, ma è soprattutto un documento del presente: il racconto — Vittorio Foa / Aldo Natoli, Dialogo sull’antifascismo il Pci e l’Italia repubblicana (Editori Riuniti, pp. 303, euro 23) — comincia con l’infanzia messinese di Aldo Natoli, e ne percorre tutta la vita fino al momento del colloquio, finendo per farci capire molte cose sulla crisi morale prima che politica, che la sinistra attraversava allora e che è andata peggiorando fino ad oggi.
Abbiamo vissuto un buon quarto di secolo ormai assillati da leader che, dopo una vita passata fra una carica di partito e l’altra, ci spiegavano che non erano mai stati comunisti e che quella era una storia di orrori che non li riguardava. Ci sono voluti dei non comunisti come Vittorio Foa (e penso anche a certe cose di Bobbio dopo l’89) per restituire a questa storia l’ascolto e il rispetto senza i quali non capiamo non solo la sinistra, ma tutta l’Italia moderna. E ci vogliono comunisti come Aldo Natoli, che questa storia l’hanno vissuta fino in fondo con partecipazione critica e appassionata, per restituircene il senso soprattutto morale. Ascoltare queste pagine (arricchite da accurate note e profili biografici dei curatori, Anna Foa e Claudio Natoli) riempie di orgoglio perché abbiamo avuto fra noi compagni di questa grandezza, di smarrimento (che cosa resta senza di loro?), di rimpianto per non averli ascoltati abbastanza, di pena per averli lasciati soli.
Come ogni serio lavoro di memoria, questa intervista intreccia due punti di vista –l’intervistato e l’intervistatore – e due momenti del tempo: il punto di vista «di allora» e il punto di vista di «adesso». Per esempio. Parlando dell’8 settembre, Foa domanda: «Come alcune cose le vedevamo allora e come è cambiata la nostra testa dopo quaranta anni di pace?». Quello che mi colpisce è in primo luogo l’uso del plurale: Foa si mette dentro questa storia che in modi insieme simili e diversi è anche la sua. Come sempre nella grammatica dell’intervista, è ciò che i due dialoganti hanno in comune che rende l’intervista possibile e comprensibile, ma è la differenza che esiste fra loro che la rende interessante.
E poi, attraverso il dialogo con Natoli, Foa cerca di capire non solo come «è cambiata la testa» del suo interlocutore, ma anche come è cambiata la sua: le domande che l’intervistatore rivolge al suo interlocutore le rivolge, inevitabilmente, anche a se stesso. Natoli, a sua volta, coglie l’opportunità – direi quasi, come in tante delle interviste migliori, raccoglie la sfida – per ripensarsi. Non intende buttare a mare questa storia, non solo sua, ma non fa apologia né di se stesso né del partito. Ogni volta, davanti a un interlocutore che lo rispetta e lo ascolta, si rimette in discussione, spiega le sue incertezze, i dubbi, gli errori.
Ne viene fuori, fra l’altro, una storia della sinistra molto più articolata, molto più sfumata e mobile di quanto non ce l’abbiano raccontata tante volte. Per esempio: a proposito del patto Hitler-Stalin del 1939, Natoli ricorda di averlo inizialmente sostenuto come una necessità inevitabile – ma ricorda anche le discussioni drammatiche che portarono a scissioni e scontri nel gruppo romano, finendo per lasciarlo isolato e in minoranza, «in una situazione che in qualche modo confinava con la disperazione»; e racconta di avere cambiato posizione dopo la spartizione della Polonia e dopo che l’Internazionale arrivò a dire che i nazisti non erano il nemico principale. Foa, a sua volta ripensando al se stesso di allora, insiste sulla dimensione della soggettività, che è poi alla radice della scelte politiche: «L’impressione che ho avuto io è che i comunisti, cioè voi, pur approvando il Patto, non ostentavate questa approvazione, cioè che l’antifascismo, profondo, era dominante nel vostro ambito. Mi sbagliavo o ero nel giusto, secondo te?». Qui mi colpisce, intanto, il «voi comunisti» – più tardi, parlando della Resistenza, diventa, come abbiamo visto «noi». C’è in questo uso dei pronomi tutta la complicata storia dei rapporti interni alla sinistra, che nell’intervista si esplicita poi nel racconto sul ’48 e il Fronte popolare. Ma c’è anche la traccia di una differenza che si fa comunque ascolto e rimane rispetto: invece di accusare i comunisti di complicità con Hitler, Foa (allora azionista, poi socialista) scava sotto la superficie e ascolta da compagno. E Natoli: «Io questo lo sentivo profondamente. Per cui dentro di me ero convinto che gli accordi del Patto non dovevano ripercuotersi sugli orientamenti non solo teorici ma anche pratici del movimento comunista internazionale», cioè sull’antifascismo.
La stessa complessità, lo stesso scavo nelle ragioni e torti di allora, accompagna tutto il racconto di Natoli, dalla svolta di Salerno all’Ungheria, senza nascondere il suo consenso di volta in volta alle scelte del partito, eppure dando conto di come questo consenso si faceva sempre più faticoso e la sua relazione col partito sempre meno agevole. Non ci sono epifanie, svolte brusche: è un processo graduale di cambiamento, e non è neppure un processo lineare – per esempio, Natoli non esita a ricordare di avere difeso il golpe comunista a Praga nel 1948: «In quel momento non è che lo vedessi in modo critico, lo vedevo in senso positivo, a quel tempo io ero assolutamente ligio a quel quadro strategico». Lo spiega col clima di guerra fredda, con il montare dell’anticomunismo, cioè ci fa capire le ragioni di un errore; ma non per questo nega di avere avuto torto. Ma poi si trova a condurre la sua battaglia più memorabile, quella contro il «sacco di Roma» negli anni ’50, praticamente da solo, tra il disinteresse della dirigenza nazionale; o prende gradualmente le distanze da una linea del partito che non coglieva le capacità di rinnovamento del capitalismo e viveva nell’illusione di una suo imminente crollo. E, naturalmente, l’Ungheria, quando la distanza comincia a farsi incolmabile.
Seguono gli anni delle battaglie interne al partito, Ingrao, Amendola, la scoperta del Vietnam come modello anche di autonomia politica rispetto all’Urss e alla Cina, l’incontro con la Cina. E di nuovo il dialogo con Foa, la condivisione e le differenza. Foa ricorda che «la Rivoluzione culturale, per noi, anche per me, solo in parte, è parsa una bandiera» (e di nuovo il «noi», ma articolato in un «me»); e Natoli conclude che «la Rivoluzione culturale come tale finisce alla fine del 1968 con l’intervento dell’esercito… Alla fine del 1968 il movimento di base, che era la caratteristica fondamentale della Rivoluzione culturale, viene represso con l’esercito». Ma la Cina resta uno dei suoi interessi principali anche dopo le sconfitte, i cambiamenti, le delusioni: «non sono riuscito a distaccarmene». E poi la nascita del Manifesto – rivista, gruppo politico, giornale – speranze, crisi, condivisioni, dissensi, separazioni….
I due interlocutori di questo libro sono stati anche protagonisti della storia di questo giornale. Faremmo bene a ricordarcene