Volendo riassumere in una battuta la situazione del paese che emerge dal rapporto del Censis, si potrebbe dire che esso è afflitto da una crescente insicurezza socio-economica. Discutere se questa sia autentica oppure illusoria non ha molto senso. Se le persone sono giunte a sentirsi insicure, guardano con pessimismo al futuro prossimo, non hanno fiducia nella classe politica che in quel futuro dovrebbe guidarle, si ha un bel sventolare sotto i loro occhi tutte le statistiche disponibili per dimostrare che stanno meglio come non mai in passato - un caso che forse non si attaglia al nostro paese - ma il loro senso d’insicurezza non si ridurrà d’una virgola. Gli stati d’animo collettivi hanno la stessa durezza della materia; se si vuole modificarli, non conviene ignorare questa loro proprietà.
Bisogna provare a trasformarli, a lavorarli, con utensili politici adeguati. Di certo non nasce dal nulla, l’insicurezza socio-economica. Vi contribuiscono fattori particolari e condizioni storiche. I primi sono avvertiti da tutti, e a mano a mano che si concatenano destano inquietudini crescenti. Ci sono i figli che non trovano lavoro, o trovano soltanto occupazioni saltuarie e malpagate. La fabbrica che da mezzo secolo dava lavoro in città e che improvvisamente chiude, licenziando qualche centinaio di lavoratori, perché qualcuno che sta a Trömso o a Boca Raton così ha deciso. I piccoli negozi che spariscono, inghiottiti dai supermercati, che però dopo qualche tempo chiudono anche loro perché il volume d’affari non regge: lasciando nel paese un deserto. Gli amici Rossi che avevano investito i loro risparmi in obbligazioni ed hanno perso tutto. L’innovazione tecnologica in fabbrica o in ufficio che da un giorno all’altro ti mette davanti alla necessità di cercare un altro lavoro o di passare le notti per aggiornarti. Gli immigrati che certo sono utili però non si sa mai. La famiglia dove tutti i membri sono stressati, a cominciare dalla donna che fa tre lavori in uno, col risultato che a forza di discutere ad un certo punto ciascuno se ne va per conto suo e da una famiglia di quattro persone vengono fuori altrettante famiglie con un solo membro. Ciascuno più libero, ma di certo più insicuro. Si moltiplichino per alcuni milioni simili esperienze, che molti fanno di persona, altri sentono raccontare da parenti e amici, altri ancora vedono in tv, e l’insicurezza diffusa degli italiani comincia a trovare qualche spiegazione.
A determinare la quale concorrono peraltro nel profondo anche fattori storici. Coloro che hanno oggi trent’anni o più sono vissuti in un’epoca, l’hanno respirata, nella quale coesistevano due grandi sistemi di sicurezza sociale, anche se non si poteva godere dei benefici di entrambi. Uno era quello inventato dai conservatori inglesi durante la guerra, quindi perfezionato e sviluppato sul continente dal capitalismo renano, dai nostri governi a maggioranza democristiana, dal dirigismo dei francesi che supera indenne ogni cambio di orientamento politico. L’altro sistema era quello offerto a est dai paesi del socialismo reale, sperimentato direttamente da pochissimi, mitizzato e vagheggiato da molti perché lo si credeva più esteso, più protettivo, in una parola erogatore di maggiori sicurezze alle classi sociali che in precedenza ne avevano avute ben poche.
Da una dozzina d’anni e più il sistema di sicurezze che prometteva il socialismo reale è scomparso, insieme con i regimi che lo sostenevano. Il sistema europeo, il modello europeo di sicurezza socio-economica, è palesemente sotto attacco da parte di quasi tutti i governi Ue. Con metodo, con rigorosa perseveranza, in ciascun paese della Ue un giorno se ne smonta un pezzo, l’indomani si riduce il perimetro delle sue prestazioni, quindi si privatizzano le sue funzioni adducendo cause ora reali ora pretestuose. A volte per motivi legittimi, altre volte per motivi che è bene il pubblico ignori. Come poteva mai illudersi, la politica, che la repentina scomparsa di un sistema di sicurezza sociale pur solo immaginato, ma concretamente esistente per oltre quarant’anni appena al di là dei confini dell’Europa disegnati dalla guerra, e il correlativo sgretolamento - per ora parziale, ma nelle intenzioni totale - del sistema occidentale, non incidesse in profondità nell’animo delle persone, stratificando in esso ispidi sedimenti d’insicurezza sociale ed economica?
Naturalmente tutto ciò, i fattori storici e quelli contingenti e quotidiani, significa che non siamo soli. L’insicurezza socio-economica che il Censis ha rilevato in Italia attanaglia anche i tedeschi come i francesi, i britannici come gli olandesi o gli svizzeri. La letteratura sulla globalizzazione dell’insicurezza socio-economica è amplissima. Peraltro sulla politica questo tema non pare aver avuto finora alcuna presa, in nessun paese. Non senza ragione, poiché una politica che ponesse al proprio centro il compito di produrre più sicurezza socio-economica in tempi che di giorno in giorno sembrano alla maggior parte delle persone sempre meno sicuri, dovrebbe fare i conti con il fatto che essendo globale il problema, anche i tentativi di soluzione dovrebbero essere faticosamente cercati a livello globale. Al minimo a livello europeo. Magari prima che tale forma di insicurezza ricominci a svolgere il ruolo cui ha sempre adempiuto da un secolo e passa a questa parte. Quello di cattiva consigliera.