Ritornano le Edizioni di Comunità che ripropongono il pensiero del fondatore, Adriano Olivetti. Un uomo di un'altra stagione dell'urbanistica (e dell'industria) italiane Ieri per domani. La Repubblica, 21 dicembre 2012 (m.p.g.)
Quando Beniamino de’ Liguori è nato, nel 1981, suo nonno Adriano Olivetti era morto da oltre vent’anni. Bambino, sua madre e sua nonna gli parlavano di lui. Se poi camminava per le strade di Ivrea, ogni edificio gli rimandava brani di una storia industriale e culturale che, una volta all’università, avrebbe preso a studiare fino alla tesi di laurea. Una storia non comune, intanto per l’intreccio dei due elementi - industria e cultura. E poi per le missioni che a entrambe l’ingegnere di Ivrea attribuiva. Ora Beniamino a trentun anni prova a riportare in vita uno dei lasciti di suo nonno, le Edizioni di Comunità.
È uscito un primo volumetto, Ai lavoratori si intitola. Tremila copie di tiratura, già una ristampa di altre duemila. Raccoglie due discorsi di Olivetti, uno pronunciato nel 1954 a Ivrea, l’altro del 1955 quando fu inaugurata la fabbrica di Pozzuoli, lo stabilimento progettato da Luigi Cosenza e affacciato verso il mare, con i giardini che Pietro Porcinai disegnò quasi abbracciassero una residenza estiva. Erano parole per i propri dipendenti «quanto mai attuali e però ignorate dai contemporanei», scrive Luciano Gallino nell’Introduzione. Nella stessa collana, Humana Civilitas (il motto che sovrastava la campana nel logo delle vecchie Edizioni di Comunità, nate nel 1946), compariranno altri discorsi olivettiani, il primo dei quali, Democrazia senza partiti, sarà accompagnato da un saggio di Stefano Rodotà. Seguiranno le opere di Olivetti (La città dell’uomo, L’ordine politico delle comunità), e in febbraio un’antologia di discorsi e di scritti anche inediti (Il mondo che nasce, a cura di Alberto Saibene: da questa anticipiamo il brano che compare qui accanto). E quindi, nella collana Nostalgia del futuro avranno posto alcuni classici ormai introvabili del catalogo storico delle Edizioni di Comunità, più, assicura Beniamino de’ Liguori, saggi nuovi, prevalentemente traduzioni.
Un’avventura. Una sfida. Forse un azzardo. Comunque niente celebrazioni. Anzi, ripetendo Gallino, idee attuali, ma inascoltate. La missione sociale dell’impresa. Il bisogno di fare comunità. Il territorio pianificato. La cultura fuori dai suoi recinti. Tutto sarà sulle spalle di una struttura ridotta all’osso, praticamente il solo Beniamino de’ Liguori, con l’appoggio della Fondazione Adriano Olivetti e una essenziale rete di collaborazioni, rigorosamente all’unisono generazionale. E anche spiazzante rispetto a come ci si può ingannevolmente immaginare l’eredità olivettiana. Distribuzione capillare, rapporto diretto con i librai – catene e indipendenti – ma soprattutto con il gruppo di Becco Giallo, l’editore padovano di graphic novel, fumetti di impegno civile sul Tav, su Enrico Mattei e Paolo Borsellino, e su Olivetti stesso, il cui autore, Marco Peroni, ha in carico proprio le relazioni delle Edizioni di Comunità con le librerie.
Laureato in storia contemporanea, un anno negli Stati Uniti, due nella casa editrice per bambini Gallucci, recuperato il marchio di Comunità dalla Mondadori, Beniamino nel 2010 si è messo all’opera. «La forza di questo progetto è Adriano Olivetti liberato dalla membrana mitica che lo avvolge», spiega. «Vorremmo che in libreria questi volumi fossero assimilati alle novità, colpissero la sensibilità di un lettore attirato tanto dalla sua figura, ma anche dall’idea di una società diversa ».
È stato difficile tenere non certo separate, ma almeno distinte, la storia di Olivetti nonno e quella di Olivetti imprenditore, innovatore, animatore culturale, «ma, per carità, non visionario né utopista ». Beniamino racconta di aver sempre sentito in modo disordinato di trovarsi dentro una storia familiare molto inconsueta, anche per le contraddizioni che esprimeva. «Un ambiente iper privilegiato, ma non fuori dalla realtà. Un grande potere economico e sociale, ma altrettanta semplicità, a cominciare dalle case che abitavamo». Per alcuni tratti della propria giovinezza, il nonno gli appariva «come un ingombro». Pesava «l’aspetto luttuoso di una storia industriale, successiva alla morte di Adriano, in cui gravava il senso di esproprio vissuto in tutta la famiglia, ma anche fra gli abitanti di Ivrea, i quali si ritrovavano senza più la fabbrica che aveva dominato la propria vita e il proprio paesaggio ». Sentimenti complessi, conflittuali. «L’idea di ingombro è svanita quando ho capito che Adriano Olivetti racchiudeva in sé questioni universali, non più solo mie: la giustizia, ma anche l’efficacia produttiva, il territorio, la solidarietà. Scriveva Thomas Bernhard che gli incontri con i grandi uomini sono incontri che annientano oppure salvano».
La vicinanza ad Adriano Olivetti «produce un’irresistibile voglia di conoscere la sua storia e ritrarre la sua enigmatica personalità da più punti di vista, quasi ci fosse un richiamo oscuro a privilegiare la ricerca degli aspetti difficilmente accessibili, quelli meno ordinari e forse, in fondo, più attraenti con il solo rigore analitico. Come fosse una necessità irrinunciabile, perlomeno per la generazione alla quale appartengo ». E così nasce la voglia di mettere a disposizione di tutti la fonte originale di quel singolare magnetismo. «I lettori giovani sono forse quelli più capaci di sentire Olivetti nelle sue note autentiche. E ne abbiamo prova dai commenti che raccogliamo sul web e su Facebook».
Alle Edizioni di Comunità Olivetti teneva moltissimo. Erano il contenitore in cui convivevano molti segmenti della sua personalità e dei suoi interessi che altrimenti, a guardarli oggi, potrebbero disperdersi in rivoli inafferrabili. Lì trovavano una sede il progetto comunitario, l’idea di fabbrica che esprimesse valori per un territorio e non solo dividendi per gli azionisti e poi l’intreccio di discipline che altrove e non in Italia davano conoscenze nuove per un mondo nuovo - la sociologia, l’urbanistica. «Nacquero in un momento di profondo turbamento morale e di grandi speranze», dice Beniamino de’ Liguori, «ma gli obiettivi che si proponevano sono tuttora incompiuti».
Quando Beniamino cominciò ad avere coscienza di chi fosse suo nonno, questi gli apparve come una figura incombente. «Emanava un’ombra lunga, ma l’unico modo per neutralizzare l’ombra e guardare la persona nella sua interezza era quella di affrontarla faccia a faccia. Ho capito che in quella persona erano raffigurate le mie ambizioni e che così avrei fatto anche i conti con la mia storia».