Hanno già iniziato le regioni. No al nucleare, dicono quasi tutti i governatori. Dice no Nichi Vendola, governatore della Puglia di Sinistra e Libertà. E dice no anche Ugo Cappellacci, neoeletto governatore della Sardegna che è del Pdl, il partito di Silvio Berlusconi. Per qualcuno è un’opposizione di principio. Per qualche altro è un no frutto di un attenta valutazione tra costi e benefici. Per qualche altro ancora è semplicemente la sindrome NIMBY: non nel mio giardino. Per tutti parla Vasco Errani (Emilia-Romagna), presidente dei presidenti di regione: «Il governo ha imboccato la strada sbagliata».
È la riproposizione del modello autoritario di gestione delle scelte tecniche e scientifiche, utilizzate con apparente (solo apparente) successo da Guido Bertolaso per gestire l’emergenza rifiuti in Campania o l’emergenza terremoto in Abruzzo. Ma è un metodo che non sempre funziona. Questa è la lezione che è venuta da Scanzano Jonico, nel 2003, quando la protesta popolare costrinse il governo - il secondo governo Berlusconi - a ritirare l’atto unilaterale con cui aveva scelto (male peraltro) il sito di profondità per stoccare le scorie nucleari dell’intero Paese. Cosicché è facile prevedere che il no dei governatori alle nuove centrali nucleari sarà fatto proprio dalle popolazioni, se il quarto governo Berlusconi dovesse continuare a procedere in maniera unilaterale e scegliere d’imperio i siti per le centrali nucleari che intende costruire e per le scorie che quelle centrali produrranno.
Qui non discutiamo la scelta di merito:nucleare sì o nucleare no. Questo nucleare di terza generazione e d’importazione francese, o il nucleare di quarta generazione, realizzato con una filiera di conoscenza tutta italiana. Discutiamo del metodo: la politica nucleare di un Paese libero non può essere imposta per coercizione, ma deve essere fondata sulla convinzione. Dopo una grande (non necessariamente lunga, ma reale) discussione, cui possano partecipare i tecnici, le istanze democratiche e l’intera popolazione. Come avviene in tutta Europa e in ogni Paese che riconosce i nuovi diritti della “cittadinanza scientifica”. Non è solo una questione di prassi democratica ma di efficienza della decisione. In una società complessa e in una moderna democrazia tutti coloro che hanno una posta in gioco (i sociologi li chiamano stakeholders) vogliono dire la loro sulle scelte rilevanti. E se non hanno una camera dove parlare ed essere ascoltati cercano di esercitare con tutti i mezzi leciti il loro potere, più o meno grande di veto. L’Italia può anche decidere di ritornare sui suoi passi e scegliere (anche) l’opzione nucleare per modificare l’antico paradigma energetico fondato sui combustibili fossili, superare col minor danno possibile il «picco del petrolio» e contrastare i cambiamenti climatici. Ma solo se la scelta è condivisa, non se è imposta. Solo se è negoziata con le popolazioni e gli enti locali, dopo aver deciso con prassi trasparente e scientificamente fondata i tempi e i luoghi degli interventi. Non è possibile, in una società complessa e in un Paese democratico, somministrare, con atto d’imperio, «il trattamento nucleare obbligatorio».