L’Istat pubblica i risultati “in via provvisoria”, ma in forma talmente definita per i numeri (le tabelle denominate Prospetti) e, al contrario, ambigua per le definizioni, che la cautela nell’interpretazione – già qui perorata da Vezio De Lucia – diventa un obbligo. Ad ogni modo, consultare la fonte diretta è meglio che affidarsi a quanto giornali e altri siti diversi da quello dell’istituto statistico hanno pubblicato. Ne ho ricavato le osservazioni seguenti (ed eviterò di citare numeri in apparenza veritieri perché precisati all’unità, li arrotonderò al migliaio).
Le famiglie residenti sarebbero 24.512.000 e le abitazioni occupate appunto da residenti 23.998.000. L’avanzo, se così possiamo chiamarlo, di 514.000 famiglie rispetto agli alloggi, indica un probabile aggravamento della coabitazione, che riguarderebbe almeno un milione di famiglie, giacché l’avanzo di dieci anni prima era sensibilmente minore, 388.000 (scrive De Lucia: “…rilanciare l’urgenza di una politica abitativa dai forti connotati sociali). Le abitazioni in totale sono aumentate del 5,8 per cento (da 27.292.000 a 28.864.000) ma quelle occupate da residenti lo sono del 10,83; il paragone con l’aumento delle famiglie residenti, 12,4 per cento, confermerebbe l’ipotesi circa la coabitazione.
Il moderato aumento delle abitazioni totali sarebbe dovuto alla diminuzione delle ”altre abitazioni” che, esempio massimo di doppiezza, mischiano quelle non occupate (cioè vuote o seconde case) a quelle occupate da non residenti. Così uno dei fenomeni più gravi, l’enorme spreco degli alloggi vuoti, in buona parte seconde case, potrebbe essere da altri visto come parziale contenitore di abitanti non censiti per lo più stranieri; il cui numero, se così fosse, a mio parere non potrebbe che incidere marginalmente. I 3.770.000 stranieri rilevati dall’Istat sono stranieri residenti, quindi censiti in abitazioni occupate da famiglie residenti, probabilmente partecipi non secondarie dei casi di coabitazione.
Comunque, accettando le quantità presentate nel prospetto 14, risalta la diminuzione degli alloggi che preferisco unificare sotto la dizione “non occupati”: da 5.639.000 a 4.865.000 (dal 21 al 17 per cento del totale). Le 774.000 unità in meno dal 2001, calo di misura mai verificatasi nei precedenti periodi intercensuari dal dopoguerra, spiegherebbero la decelerazione dell’aumento delle abitazioni in complesso. Non arrischio alcuna motivazione (crisi economica, crisi del mercato edilizio, restrizione dei prestiti…). Sono però convinto che la vecchia affermazione di Pier Luigi Cervellati, “abbiamo prodotto troppe case, abbiamo prodotto le case che non servono”, rimanga valida. Le case che non servono hanno accresciuto fortemente il potenziale distruttivo già detenuto da quelle ritenute necessarie: le une e le altre hanno invaso il paese in maniera anarchica, smaccatamente liberistica in “assenza di una corretta pianificazione urbanistica e territoriale, causa della devastazione del territorio e del crescente disagio dei suoi abitanti” (Salzano, in Postilla all’articolo di De Lucia sopra citato). Sul problema del conteggio delle abitazioni non occupate i miei dubbi superano quelli inerenti ad altri soggetti. In una lettera a eddyburg del 13 marzo scrivevo che nel 2005 il Coordinamento europeo per l’alloggio sociale indicava nel 24 per cento la quota di alloggi vuoti in Italia. Sarebbero bastati cinque o sei anni per attenuare in misura rilevante un fenomeno che ha segnato malamente il nostro paese più di ogni altro in Europa, per oltre mezzo secolo?
Ultima annotazione rivolta al censimento degli edifici, settore per il quale l’Istat sembra voler impedirci di avvicinare una plausibile verità degli accadimenti, essenziale per valutare il reale consumo di suolo, la “cementificazione” – come usa dire – del paese, non bastando evidentemente per questo scopo il computo delle abitazioni. “Per ciascun comune, nelle sezioni di centro e nucleo abitato sono stati censiti tutti gli edifici presenti, mentre nelle sezioni classificate come ‘case sparse’ e ‘località produttive’ la rilevazione è limitata ai soli edifici residenziali”: questo l’incomprensibile criterio adottato dall’istituto. Sono sparite dal resoconto proprio le costruzioni più ingombranti e, lo sappiamo, poco o niente controllate dai Comuni dal punto di vista urbanistico e edilizio: quell’enorme massa di capannoni, centri commerciali, eccetera che non è di sicuro distribuita ”nelle sezioni di centro e nucleo abitato” e che invece ha ricoperto persino le campagne dell’agricoltura alimentare oltre agli spazi liberi fra le case sparse. Il territorio di intere regioni è stato sconvolto dai nuovi mostri; è successo non solo nel sempre nominato Veneto (la sua classe dirigente e i consenzienti ceti subalterni…) come caso limite della distruzione del proprio paesaggio, ma dappertutto secondo una scala di disvalori urbanistici e paesistici non sempre consequenziale a quella dello sviluppo economico.
Concludendo sul bilancio statistico degli edifici: il censimento del mero numero già dichiarato parziale dall’Istat è da contestare. Un aumento dell'11 per cento comprensivo di un 4,3 per cento relativo agli edifici residenziali (Prospetto 15), dato ripreso piattamente da alcuni giornali, descrive una condizione del consumo di suolo lontanissima da quella che solo un’indagine anche dei manufatti prima esclusi, secondo la loro tipologia e la superficie di territorio occupato, potrà certificare.
Milano, 7 maggio 2012