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Luisiana Gaita
Eni, comunità nigeriana fa causa al gruppo per l’inquinamento del delta del Niger: “Ci risarcisca con 2 milioni di euro”
5 Maggio 2017
2015-EsodoXXI
Qualche episodio dei guasti provocati dalle aziende del "capitalismo avanzato" italiano nello sfruttamento delle risorse dell'Africa viene al pettine dei tribunali. Chissà come andrà a finire.
Qualche episodio dei guasti provocati dalle aziende del "capitalismo avanzato" italiano nello sfruttamento delle risorse dell'Africa viene al pettine dei tribunali. Chissà come andrà a finire.

il Fatto quotidiano online, 4 maggio 2016

Sono passati sette anni da quando, il 5 aprile del 2010, una conduttura petrolifera di proprietà della Nigerian Agip Oil Company Limited, la controllata di Eni in Nigeria, esplose a circa 250 metri da un torrente, nella zona settentrionale dei territori della comunità Ikebiri, nello Stato di Bayelsa. Gli sversamenti inquinarono il fiume e gli stagni, danneggiando sia la fauna ittica che la vegetazione e compromettendo le fonti di sostentamento di interi villaggi basate soprattutto sulla pesca, e poi sulla raccolta di frutti e sulla coltivazione. Ora il capo della comunità, Francis Timi Ododo, a nome delle popolazioni che vivono in quell’area, ha avviato una causa legale nei confronti della multinazionale italiana Eni. Procedimento nel quale sarà supportata dalle sezioni europea e nigeriana di Friends of the Earth. La comunità chiede due milioni di euro a titolo di risarcimento, ma soprattutto la bonifica dell’area devastata dall’incidente. Bonifica che, secondo la Naoc, è già stata eseguita. E in tribunale sarà Davide contro Golia. Oggi è stato notificato l’atto di citazione nei confronti dell’Eni, nei prossimi giorni toccherà alla sua controllata, mentre il procedimento legale avrà luogo presso il Tribunale di Milano. In Italia a rappresentare gli interessi della comunità è l’avvocato Luca Saltalamacchia, mentre in Nigeria è il legale Chima Williams. “Si tratta di un caso senza precedenti in Italia – sostiene Friends of the Earth – e, se la comunità dovesse vincere la causa, sarebbe la prima volta che una compagnia italiana viene condannata dalla giustizia del suo Paese per un disastro ambientale causato in una nazione straniera”.

L’incidente del 2010 – La comunità Ikebiri è composta da diversi villaggi situati sul delta del Niger, dove le popolazioni si dedicano alla produzione dell’olio di palma, alla costruzione di canoe, alla pesca, all’agricoltura. “Ricostruire i fatti non è stato semplice – spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Saltalamacchia – ma lo abbiamo fatto anche attraverso i documenti della stessa Naoc”. Il 5 aprile 2010 la comunità di Ikebiri scoprì l’esistenza della fuoriuscita di petrolio. Nella zona, Naoc possiede sette pozzi petroliferi e otto condutture, con diverse linee di flusso. La compagnia fu immediatamente allertata. “I loro tecnici – continua il legale – intervennero l’11 aprile insieme a unità armate”. In seguito a quel controllo, al quale fu ammessa la presenza di un delegato della comunità, fu la stessa Naoc a redarre un report, ammettendo che l’incidente era stato causato da “difetti della tubatura” e annotando: “La riparazione è stata completata. Le aree impattate dovrebbero essere bonificate il più presto possibile”. Quello che avvenne in seguito è tuttora poco chiaro.

Le prime operazioni – “L’area fu chiusa – spiega Saltalamacchia – e la controllata di Eni ha sempre dichiarato di aver proceduto nei giorni a seguire a una bonifica, ma di tale operazione non è mai stata mostrata una documentazione, anche se richiesta più volte”. Quello che la comunità sa, invece, è che nei giorni successivi a quel primo intervento sul posto all’area fu dato fuoco. Nessuno della comunità ha potuto vedere la zona in quel frangente, in quanto sarebbe stato molto pericoloso avvicinarsi. “Da un lato ci chiediamo come mai non è mai stata fornita documentazione rispetto alla bonifica che Naoc dice di aver eseguito – aggiunge il legale – dall’altro, allargando lo sguardo a quanto avviene nella zona del Delta del Niger, in un report è stata la stessa Onu a lanciare l’allarme riguardo alla pratica dei certificati di avvenuta bonifica ‘regalati’ dalle agenzie governative. Non è questo il caso, ma il sospetto è che la bonifica non sia avvenuta e si sia solo cercato di trovare un intervento tampone, magari proprio incendiando il sito”. Un’accusa che la Naoc ha sempre rigettato al mittente.

Il sito inquinato – Naoc sostiene che gli sversamenti abbiano interessato un’area di circa 9 ettari, ma secondo la comunità la contaminazione ha interessato prima una zona contenuta, di circa 17,9 ettari, allargandosi poi proprio per mancanza di una bonifica. A supportare questa tesi ci sarebbero i risultati di alcune analisi chimiche fatte eseguire a novembre 2015 sui luoghi dell’incidente. I risultati? “Dimostrano che il sito è inquinato in più punti, non solo nelle immediate vicinanze dell’area interessata”, aggiunge l’avvocato Saltalamacchia. A causa delle piogge, il petrolio fuoriuscito venne trasportato ad oltre due chilometri di distanza. “Ancora oggi all’interno di questo perimetro – spiega il legale – il terreno risulta pesantemente inquinato. La verità è che servirebbe una vera bonifica, operazione complessa quanto costosa, anche più di un eventuale risarcimento”. Potenzialmente l’area inquinata potrebbe essere ampia 400 ettari, eppure Naoc sostiene di aver correttamente bonificato il sito. Dalla comunità, i residenti raccontano un’altra storia. Come quella di Emilia Matthew. “In questi anni è successo – spiega – che molti di noi si siano ammalati. La pesca, che da sempre ha rappresentato la nostra fonte di sostentamento, è ora assolutamente a rischio. I pesci che vivevano nei laghetti e negli acquitrini sono stati tutti uccisi dal petrolio. Anche le nostre coltivazioni, che comprendono le piante medicinali che noi stessi usiamo per curarci, sono state contaminate dal petrolio”.

I tentativi di accordo andati in fumo – Diversi i tentativi di mediazione messi in atto dalla comunità per ottenere un risarcimento, ma soprattutto la bonifica dei luoghi. Subito dopo l’incidente la comunità Ikebiri contattò Eni, chiedendo di essere risarcita per quanto accaduto e ottenendo un pagamento di due milioni di naira (equivalenti a circa 6mila euro attuali e 10mila nel 2010). “Al di là di questa cifra – sottolinea Friends of the Earth – versata, peraltro, solo a titolo di ‘materiale di primo soccorso’, non vi è stato alcun tipo di risarcimento”. Un’offerta iniziale di 4,5 milioni di naira (equivalenti a 13mila euro attuali e 22mila del 2010) è stata rifiutata dalla comunità, che l’ha giudicata insufficiente. Attraverso il suo legale italiano, la comunità ha cercato più volte di giungere a un accordo transattivo sia con Eni che con Naoc, ma non si è arrivati a nulla di concreto. “Secondo gli standard applicati nel passato dalle corti nigeriane e tenuto conto del tempo trascorso dal 2010 a oggi – spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Saltalamacchia – un risarcimento congruo dovrebbe ammontare a poco più di 700 milioni di naira, pari a circa due milioni di euro”. In quelle aree dopo questo tipo di incidenti la maggior parte delle comunità accettano risarcimenti anche irrisori, lasciando che il sito rimanga inquinato. “In questo caso – spiega il legale – la comunità è intenzionata ad andare avanti e far valere i propri diritti”.

Delta del Niger quinto al mondo per tasso di inquinamento – Il delta del Niger è il quinto luogo con il più alto tasso di inquinamento petrolifero al mondo. È come se, dagli anni Cinquanta al 2006, si fossero verificati in questo luogo cinquanta disastri della portata del naufragio della petroliera Exxon Valdez, che nel 1989 sversò nei mari dell’Alaska 40,9 milioni di litri di petrolio. Gli sversamenti continuano ancora oggi, al ritmo di più di uno al giorno. Lo Stato di Bayelsa, dove ha sede la comunità Ikebiri, è considerato uno dei più inquinati di tutto il Paese. L’Eni è consapevole di tali problematiche, tanto che si è dotata di una serie di strumenti di due diligence da applicare alla propria attività, anche in Nigeria, dichiarando che tali strumenti sono vincolanti anche per la Naoc. “Esistono decine e decine di risoluzione delle Nazioni Unite e regolamenti europei – aggiunge Saltalamacchia – che parlano della tutela dei diritti umani, dei risarcimenti, delle responsabilità, ma gli Stati non li rispettano come dovrebbero. Questa è una controversia storica per l’Italia”.

Il cane a sei zampe, interpellato da ilfattoquotidiano.it, ha fatto sapere che “NAOC, una delle società controllate di Eni che opera in Nigeria, ha sempre operato in modo responsabile sul territorio. In relazione all’oil spill che avrebbe interessato la comunità Ikebiri nel 2010 – è il commento della società petrolifera – NAOC ha avviato un dialogo costruttivo con gli esponenti della comunità Ikebiri, ed è intervenuta in modo tempestivo ed efficace per bonificare i siti interessati, che sono stati oggetto di ispezione da parte delle autorità competenti nigeriane con esito positivo. Tuttavia – ha specificato Eni – alcuni membri della comunità Ikebiri avevano già promosso un procedimento giudiziario presso la corte competente nigeriana nell’ambito del quale NAOC, in quanto titolare delle attività, sta fornendo tutti i chiarimenti necessari in ordine alla risoluzione della controversia. Eni è stata informata dell’inizio di procedimenti giudiziari in Italia in merito a tali vicende. Il Department Petroleum Resources (equivalente di UNMIG in Italia) – ha concluso la società – ha validato, insieme al NOSDRA (National Oil Spill Detection and Response Agency) che fa capo al Ministero dell’Ambiente nigeriano, la nostra posizione nelle Joint Investigation Visit effettuate”.

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