È piuttosto ovvio che una buona gestione delle risorse territoriali, “correntemente” attenta alla sedimentazione storica delle conoscenze locali, e parallelamente a innovazione e aggiornamento tecnico e organizzativo, sia un fattore chiave: nella prevenzione dei rischi, e una rapida reazione/ripresa. In sintesi si tratta di “migliorare l’urbanistica per ottenere il migliore equilibrio fra le necessità della popolazione e lo sviluppo economico, e i vincoli imposti dal rischio sismico” [1].
Dunque alcuni aspetti connessi al rischio sismico trovano spazio nella pianificazione “normale” alle varie scale territoriali, con specifico (e forse più conveniente) apporto rispetto alle misure, più note e discusse anche dalla stampa a larga diffusione, che riguardano i vari adeguamenti tecnici, edilizi, infrastrutturali. Esistono insomma numerosi aspetti specifici che caratterizzano normalmente l’approccio disciplinare della pianificazione del territorio e che emergono poi essenziali proprio nei momenti critici: costruzione di un’idea generale e condivisa di spazio, identità sedimentata, sviluppo socioeconomico.
L’area vasta
È alla scala intercomunale/regionale che si trova anche dal punto di vista del piano un preventivo coordinamento fra aree con potenziali danni a costruzioni e infrastrutture, e altre apparentemente “risparmiate”, ma che in quanto inserite nel medesimo sistema integrato anche a brevissimo termine potrebbero subire contraccolpi e generare nuove emergenze. Dunque è implicito nell’approccio del piano il suo ruolo di contenitore anche per interventi di ricostruzione, ripresa, e successiva gestione “ordinaria” del territorio, unendo ad esempio i problemi dei centri antichi e delle aree montane più colpite e a rischio di isolamento, o quelli delle emergenze storiche e monumentali ad alta visibilità anche simbolica ( si pensi ai danni socioeconomici per attività legate al turismo, spesso essenziali per vaste zone), al tessuto funzionale che garantisce vitalità al tutto, e ad altri elementi altrettanto strategici. Uno schema apparentemente oneroso (è la critica più frequente, anche oltre la solita insofferenza al cosiddetto big government) ma che a differenza di qualunque serie di interventi puntuali e/o di settore è fatto per garantire coesione del tessuto sociale e delle attività economiche. A partire dalla possibilità in caso di emergenza di individuare prontamente una “struttura territoriale minima” che riduca quanto più possibile i rischi di abbandono, impedisca processi di disgregazione della complessità e relativa resilienza.
È poi, evidentemente, alla scala del territorio vasto che si applicano i criteri di classificazione per le aree a sismicità elevata, media, bassa [2].
Ancora a questa dimensione il piano può e deve strutturare, anche secondo le classificazioni di rischio, l’organizzazione di spazi e servizi atti a garantire una immediata reazione, come nel caso italiano i centri della protezione civile e strutture connesse, secondo un criterio che poi si articolerà sia nei sistemi locali di scala inferiore che nelle relazioni orizzontali, ad esempio: con mappe del rischio su dimensioni comunali o di maggior dettaglio, aree attrezzate, punti/edifici strategici , aree di emergenza anche in relazione alle densità demografiche [3]. Il tutto nel quadro di un’idea strategica di sviluppo “con riguardo alla difesa dell’ambiente, alla riproduzione delle risorse ambientali, … alla messa in sicurezza delle città storiche, come contributo ad una qualità ambientale globale dei sistemi insediativi” [4].
La pianificazione territoriale diventa così contenitore ideale dei piani per il rischio, e dovrebbe da sola sottolineare l’inadeguatezza del solo intervento emergenziale: i contesti territoriali sono sempre e comunque complessi, specie con la “stratificazione storica che caratterizza il sistema insediativo del nostro paese” [5].
Il comune
La comunità locale è per definizione la scala conforme di qualunque interazione al minimo livello di complessità fra la rete sociale e quella ambientale, anche nella nostra società tecnologica evoluta, ed è anche quella da cui immediatamente muovono (in senso ascendente o discendente) le reazioni all’evento sismico: verifica dei danni, misure per soccorsi e ricostruzione, ripristino di un flusso organico continuo fra emergenza e vita quotidiana. È a questa dimensione che si può favorire e pianificare la permanenza, sviluppo, costruzione di una vera e propria “struttura urbana antisismica”, ovvero quanto rafforza resistenza e reattività all’evento, ma al tempo stesso ha caratteri specificamente di intervento urbanistico, ovvero non ricade negli abituali controlli e coordinamento delle costruzioni e relativi standards di sicurezza[6].
In quasi tutti i contesti, e specie in quelli misti e montani italiani a rischio sismico, un territorio comunale si caratterizza per la compresenza di vari tipi di insediamento: relativamente compatto ad esempio nel centro storico del capoluogo e le sue prime espansioni periferiche, poi le fasce lineari irraggiate lungo le principali arterie interurbane, poi nuclei minori di varie dimensioni e/o insediamento diffuso, più o meno legato alla rete agricola, naturale, paesistica, con vari equilibri nella distribuzione della popolazione e delle attività. Fra gli scopi del piano urbanistico comunale, scopi del resto esplicitamente ricorrenti – sino alla banalità – in qualunque relazione o articolato di norme tecniche, quello di ridefinire l’equilibrio funzionale fra le parti, ad esempio riqualificando la rete delle comunicazioni, o creando nuove centralità, o integrando elementi decentrati, naturali e di paesaggio entro la trama insediativa.
Ottimo esempio in questo senso, le Norme Tecniche del piano regolatore di Foligno, il centro principale colpito dagli eventi sismici di fine anni ’90, che definiscono (art. 6) lo “spazio urbano” come polarizzato, coordinato, connesso dai sistemi della mobilità, verde, servizi e attrezzature. E poi la rete di servizi e attrezzature (art. 25) a sottendere coesione ed equilibrio, coi suoi spazi per istruzione, cultura, sanità, impianti, ivi comprese sedi Protezione Civile e aree di emergenza [7]. Aree queste “finalizzate a soddisfare le esigenze di insediamenti temporanei in caso di calamità naturali” ma che naturalmente “Nelle more, possono essere utilizzate per attività sociali, ricreative e sportive all’aria aperta” [8].
Salta agli occhi come quel “ Nelle more...”, rappresenti proprio uno dei possibili traits-d’union fra un approccio di emergenza e uno di urbanistica corrente, dove l’emergenza/permanenza si traduce nel sommarsi di zone sicure, dimensioni adeguate, buona viabilità e accessibilità. Infine immediata disponibilità, ovvero sostanziale funzione di spazio pubblico, che nel caso di evento sismico si traduce nel luogo deputato alla funzione collettiva principale: di “attesa”, accoglienza, ricovero per la popolazione colpita.
[1] Cfr. ad esempio, California Seismic Safety Commission, Earthquake Loss Reduction Plan 2002-2006, cap. Land Use Element, dove per esteso si afferma che “Efficient use of land is one of the most critical issues in effective loss reduction and recovery from the disastrous effects of earthquakes. Because the risk of loss from earthquakes increases as the population increases, several areas of concern emerge in respect of land use: 1) generally, seismic hazard knowledge is neither adequately incorporated nor consistently applied in land use decision making; 2) acceptable levels of seismic performance in new developments are not clearly understood; 3 environments review procedures are not adequately addressing seismic hazards; [...] Objective: to improve land use panning to achieve optimum balance between the needs for the state’s population and economic growth and the constraints imposed by seismic hazards”.
[2] Nel caso umbro, su cui si basano sostanzialmente le presenti note, Cfr. Fabrizio Bramerini, La Legge 741/81 nella normativa regionale, in Walter Fabietti (a cura di), Vulnerabilità e trasformazione dello spazio urbano, Alinea, Firenze 1999; Cfr. Norme Tecniche del Piano Urbanistico Territoriale dell’Umbria (BUR n. 31, 31 maggio 2000), Art. 50, Criteri per la tutela e l’uso del territorio esposto a rischio sismico.
[3]La Relazione del Piano Urbanistico Territoriale umbro recita a questo proposito: “il modello proponibile … quello di una localizzazione diffusa delle aree da predisporre per l’emergenza. ... per una ripresa sostenibile che tragga dai caratteri del luogo … le ragioni di un nuovo equilibrio”.
[4] Ivi, cap. Opzioni ed Obiettivi del PUT/Beni ambientali e culturali/Centri storici.
[5] Gianluigi Nigro, Pianificazione territoriale ed urbana e riduzione del rischio sismico, in Regione dell’Umbria, Manuale per la riabilitazione e ricostruzione postsismica degli edifici, a cura di Francesco Gurrieri, Tipografia del Genio Civile, Roma 1999, p. 432.
[6] Si tratta in sostanza di uno schema generale insediativo in grado di meglio resistere e reagire alle scosse telluriche, perfezionato attraverso modelli specifici con la denominazione di “struttura urbana minima”.
[7] Comune di Foligno, PRG ’97, Norme Tecniche di Attuazione, aprile 2003.
[8] Ivi.