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Massimo Adinolfi
Emergenza antropologica
23 Dicembre 2012
de homine
Una riflessione difficile ma necessaria se è vero che le radici della crisi affondano in terreni profondi. A proposito di un “manifesto" di Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca, e della discussione che ha suscitato.
Una riflessione difficile ma necessaria se è vero che le radici della crisi affondano in terreni profondi. A proposito di un “manifesto" di Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca, e della discussione che ha suscitato.

L’Unità online, 22 dicembre 2012

La crisi della democrazia ha la sua radice più profonda in una vera e propria «emergenza antropologica». È dunque dal paradigma antropologico che bisogna prendere le mosse, per ripensare compiti e finalità della politica. Cercare soluzioni alla crisi attuale, che non è soltanto crisi economica e sociale ma crisi di senso, significa cercare di costruire una «nuova alleanza» fra credenti e non credenti, in vista di un «umanesimo condiviso». È una consapevolezza che nutre l’azione della Chiesa italiana, intenta a ridisegnare la propria presenza pubblica nella vita nazionale, ma anche il percorso del partito democratico, la cui identità prova a definirsi nella confluenza di cultura d’ispirazione religiosa e cultura laica, e che giustifica la ricerca comune di una nuova laicità all’altezza delle sfide del nostro tempo.

Questa è la cornice, assai impegnativa, tracciata dalla lettera aperta apparsa poco più di un anno fa su Avvenire e sull’Unità, a firma di quattro studiosi di provenienza marxista: Barcellona, Sorbi, Tronti, Vacca, per i quali si è già trovata l’etichetta di marxisti ratzingeriani. A distanza di un anno, la lettera è divenuta un libro, che raccoglie solo parte (significativa) delle reazioni vivaci suscitate dal documento. Il segno complessivo è di interesse e partecipazione, anche se non mancano obiezioni e esigenze di approfondimento: Emma Fattorini, ad esempio, lamenta la scarsa attenzione dedicata alla questione femminile; Pasquale Serra chiede se non si corra il rischio di far coincidere il religioso con la funzione politica della Chiesa; Luca e Paolo Tanduo avanzano invece dubbi sulla capacità del Pd di ospitare un dialogo su temi bioetici e valori non negoziabili, mentre Claudio Sardo sottolinea la distanza alla quale deve tuttavia mantenersi la mediazione politica rispetto ai valori.

I quattro autori, d’altra parte, non hanno scelto il terreno più facile su cui incontrare le posizioni della Chiesa cattolica. Benché la questione antropologica investa anche il piano dei diritti sociali declinanti e dei modelli economici dominanti, non è su questo versante che viene condotto il confronto. I temi su cui la lettera chiama a riflettere sono infatti (proposti con le stesse parole di Benedetto XVI) da un lato la critica del relativismo, cifra dominante del nostro tempo, dall’altro la difesa dei valori non negoziabili, bussola che il papa chiede di adottare per tutte le questioni che attengono alla difesa della vita, dal concepimento fino alla morte naturale.

È giusta questa strada? Forse sì, se si tratta di correggere la «deriva» individualistico-radicale e la «torsione nichilistica» dei processi di secolarizzazione: non è un caso che si avverta così tanto, in queste pagine, la presenza di Augusto Del Noce, che tempo fa indicò nel relativismo soggettivista e nichilista l’approdo autodistruttivo (per lui inevitabile) del progressismo di sinistra. Forse no, però, se questa correzione viene proposta solo come un argine, come una reazione e non come una costruzione comune, affidata alla responsabilità degli uomini.

A proposito di responsabilità, il libro offre già in premessa un terreno di verifica: “una vita che nasce – vi leggiamo – rappresenta un valore in sé fin dal suo concepimento per la responsabilità che conferisce a ciascun individuo adulto di accoglierla, tutelarla, educarla e seguirla con amore e con cura fino alla sua fine”. Riprenda o no posizioni del magistero della Chiesa, l’affermazione richiede un impegno concettuale non piccolo: stanno infatti insieme, l’uno a fianco all’altro, l’essere «in sé» e l’essere «per-altro» (cioè per la responsabilità) del valore: perché non sia una contraddizione, ci vuole una filosofia a dimostrarlo. E ci vogliono indicatori di direzione: il valore vale perché investito dalla responsabilità che si accende per esso, o la responsabilità consegue soltanto al valore? Mentre quest’ultima affermazione suonerebbe dogmatica, e avrebbe bisogno di tutto un sistema di pensiero a sostegno, la seconda farebbe invece maggiore affidamento all’azione umana, e darebbe molto più spazio e fiducia all’idea, proposta dagli autori (e di grande spessore), di una «società educante».

Certo, una simile società non potrebbe non avere in vista la verità, e dovrebbe quindi accogliere la critica del relativismo, ben distinto dal pluralismo, condivisa dagli autori e in tutti gli interventi raccolti nel libro. Ma la verità, a sua volta, va forse concepita come un abito, o un ethos, piuttosto che come una proposizione o un dogma (immediatamente traducibile in obbligo giuridico): si può dare torto a Kelsen, che giudicava indissolubile il nesso fra democrazia e relativismo, perché la democrazia può avere rapporto con la verità. Ma quale verità? Anche in questo caso due son le strade, una guarda avanti e l’altra indietro: si tratta di un’arcigna verità che precede e fonda, o di una verità che accompagna e segue, che sta tra le mani degli uomini e che è perciò ancora da fondare, ancora a venire?

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