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Paolo Legrenzi
Elogio della frugalità
21 Febbraio 2014
Libri segnalati
Un’anticipazione del nuovo libro (F

rugalità, Il Mulino pp. 144, euro 12) l'autore, con la sua consueta lucidità e chiarezza, aiuta a riflettere sulla natura di una parola che ha risvolti psicologici ed economici, ed è parente stretta di parole. Sarebbe utile, seguendo un analogo schema, interrogarsi su parole la cui deformazione ha assunto un ruolo centrale nel discorso politico attuale, come “austerità". La Repubblica, 21 febbraio 2014

Giulio Nascimbeni, sul Corriere della Sera dell’ 8 maggio 1994, raccontava di una crociata avviata dal mensile Il Migliore, diretto da Sergio Claudio Perroni. Si trattava di salvare parole «che rischiano di diventare arcaiche e quindi svanire». Una di queste parole era frugale, una parola con una lunga storia. Compare nella prima metà del Trecento in un testo di Giovanni Cassiano dove si parla di «virtù frugali». Oggi, grazie all’uso del motore di ricerca Google Trend, potete scrivere «frugalità, abbondanza» e accorgervi che la crociata di Perroni non ha sortito grandi effetti. La vittoria dell’abbondanza sulla frugalità è schiacciante. Se però consultate i due termini inglesi « frugality, abundance », scoprite che il primo termine riaffiora grazie ad articoli come quello di Arthur Frommer sul Francisco Chronicle del 20 luglio 2009, dal titolo: Frugality Now Fashionable - And Necessary. Quando si parla di frugalità, di che cosa stiamo esattamente parlando?

1. La frugalità non è la povertà. È una scelta, non una costrizione. Se si sembra frugali perché si è poveri, in realtà non si è frugali. Oggi, in Italia i poveri sono circa cinque milioni. Si tratta di persone che l’Istat, nel suo rapporto, classifica come «poveri assoluti». Si potrebbe pensare che, in una società ricca, gli «assolutamente poveri» diminuiscano. E invece aumentano. Dal 5,7 per cento delle famiglie assolutamente povere del 2011 siamo passati all’8 per cento delle famiglie del 2012.

2. La frugalità non è neppure l’avarizia. L’avarizia, come la povertà, non è una vera e propria scelta: alla povertà siamo costretti dalle circostanze esterne, all’avarizia dalle nostre ossessioni mentali. Da questo punto di vista il prototipo dell’avarizia è la figura tragica di Mazzarò, il protagonista della novella La roba di Giovanni Verga (1883). Vi si narra di Mazzarò che, partendo da zero, col passare del tempo, accumula una fortuna appropriandosi delle terre di un barone: «Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba alla sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la piaggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule - egli solo non si logorava pensando alla sua roba [...] quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba». Mazzarò diventa vecchio. Pensa che sia «un’ingiustizia di Dio» dover lasciare la roba dopo essersi logorata la vita per accumularla: «Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: — Roba mia, vientene con me!». Non sempre l’avarizia è un’ossessione che arriva a coinvolgere l’aldilà, più spesso è una passione terrena, solitaria e triste. Comunque è ben lontana dalla frugalità, almeno nelle forme in cui l’avarizia si manifestava ai tempi di Verga.

3. La frugalità non è nemmeno una decisione di risparmio. A questo proposito, vorrei raccontare quella che credevo fosse una semplice leggenda familiare, tramandata da mio «nonno Tano».

Il «nonno Tano» (in realtà era il mio bisnonno Gaetano Rossi, e morì l’8 giugno del 1947) mi è rimasto impresso perché ero l’unico nipote ammesso nella sua camera e, quando lo vidi morire, credevo si trattasse di un sonno prolungato. Il papà di Gaetano, Alessandro, industriale tessile, aveva una nuora, Maria, madre dei suoi nipoti prediletti. Maria gli chiede di acquistare un carrettino per far giocare i nipoti: lei aveva già comprato un pony a Verona. Ecco la risposta di Alessandro: «Duolmi, o mia carissima, di non poter aderire alla tua richiesta: non comprerò la charrette, e non approvo l’acquisto del cavallino. Con lo stesso corriere, insieme alla tua letterina, m’è pervenuta la relazione settimanale di Fochesato (direttore del lanificio) il quale mi avverte doversi licenziare due operai recentemente assunti in prova, perché il loro rendimento non corrisponde al salario che per conto loro inciderebbe sul bilancio dell’opificio. Considera, figliola carissima, che prezzo di poney e charrette corrisponde al salario dei due che devonsi licenziare ». In questa risposta c’è l’essenza della frugalità, che è una scelta di stile e di buon gusto. A differenza delle decisioni collegate al risparmio, e finalizzate all’acquisto di beni, o a sconfiggere l’incertezza del futuro, la frugalità non ha altro scopo se non se stessa. Una volta, chi faceva scelte frugali spesso non si accorgeva di farle, semplicemente perché gli sembravano ovvie: si viveva così. A quei tempi, la frugalità si palesava solo se trascurata, come nel caso di Maria, che vi è costretta da un’imposizione di Alessandro, il suocero. Maria avrebbe dovuto rendersi conto che non è di buon gusto fare un regalo che costa come lo stipendio di due operai, per giunta da licenziare a beneficio della produttività dell’opificio.

Questo episodio chiarisce bene il rapporto che c’era un tempo tra frugalità e risparmio. Sembrano due concetti imparentati ma, a ben vedere, ciò che li avvicina è soltanto il non consumo opulento, il rifiuto del superfluo. Il risparmio ci rende robusti, meno vulnerabili, perché la riserva costituita dal risparmio ci permette di affrontare avversità future, oggi non prevedibili. Inoltre il risparmio lascia un margine di manovra nelle scelte di vita, una sorta di cuscino di sicurezza. La frugalità, invece, produce risparmi solo come effetto collaterale: l’abitudine al poco è una difesa preventiva che ci rende invulnerabili ai rovesci della sorte. Utilizzo qui un’opposizione approfondita da Nassim Taleb nel suo ultimo saggio.

Taleb distingue tra robustezza e antifragilità: la seconda implica il sapersela cavare in ambienti ostili, l’aver bisogno di poco, e non solo in termini materiali. Per Taleb la distinzione tra robusto, fragile e antifragile si applica a molti ambiti della vita: «Quel che s’impara in modo esplicito a scuola è fragile, le conoscenze tacite che discendono dalla vita pratica sono robuste, ma è solo l’insieme di scuola e di pratica che è antifragile». La frugalità è un concetto darwiniano, nel senso che ci rende più adattabili a scenari in rapido mutamento. La robustezza economica, invece, è più ostaggio degli eventi, e ci difende solo dalle avversità finanziarie, non da quelle della vita. La frugalità è un sapere tacito, che s’impara da piccoli in famiglia, non un sapere che s’impara a scuola. Mazzarò è una persona fragile, la possibilità della morte lo coglie impreparato. In lui i consumi ridotti non sono la via per raggiungere un obiettivo, la ricchezza è fine a se stessa. Alessandro Rossi è invece antifragile. Per uno dei più ricchi industriali di allora, il costo di un pony e di un carrettino sarebbe stato irrilevante rispetto all’entità dei suoi averi, in termini cioè di robustezza economica. E tuttavia quello che desiderava la nuora era cosa da non farsi

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