Nel corso delle ultime settimane sono apparsi in Italia due libri che portano nei propri titoli la parola “margine”. Si tratta di Al margine, di Francesco Magris (Bompiani) e di Margini d’Italia, di David Forgacs ( Laterza). Naturalmente si tratta di una combinazione. Ma anche le combinazioni, se guardate bene, possono riserbare delle sorprese.
In virtù di una cultura poliedrica Magris può, nella sua elaborazione, fornire dati e riprove da letterati e artisti di ogni tempo e paese (il libro si apre nel nome del «grande poeta gradese» Biagio Marin, ma va avanti con quelli di Saba, Hawthorne, Pirandello, Carver, Kafka, Robert Walser, Bukowski), oppure discutere le impostazioni economiche della scuola marginalista e concludere con una riflessione su pregi e limiti della democrazia occidentale. Non si andrebbe troppo lontani dal vero, segnalando la straordinaria rilevanza che, nell’ottica di Magris, occupa il punto di vista della sua città di origine, Trieste; la «frontiera» per eccellenza (ovvero il «margine estremo», anche nel senso letterale del termine) nell’immaginario italiano degli ultimi due secoli, forse proprio oggi drammaticamente rilanciata dalla sua contiguità con il potenziale inferno balcanico.
Forgacs ne descrive cinque fondamentali esempi: le Periferie urbane; le Colonie (Forgacs ha fatto un lungo soggiorno in Abissinia per documentarsi); il Sud; i Manicomi; i Campi nomadi. Se si esclude l’ultimo capitolo, forse più marginale rispetto agli altri, si tratta di un lavoro di solidissimo impianto, ed esiti inequivocabili, che apre orizzonti sul modo di «essere italiani» meno scontati di quanto si potrebbe pensare.
Per uno come me, vedersi messo sotto gli occhi un quadro così preciso di ciò che ha significato per Roma e la (un tempo) leggendaria «campagna romana» la realizzazione, a varie tappe e per il corso di più di un secolo, dei mostruosi quartieri popolari a Sud e a Est della città (poi anche, inesorabilmente, a Nord e a Ovest), ha consentito di ripercorrere con evidenza assoluta le tappe di una storia individuale e collettiva, le cui ultime battute sono sotto gli occhi di tutti (io non ho dubbi che anche i processi corruttivi nascano, come nel nostro caso, da una lunga, lunghissima storia).
Dunque, i due libri, nonostante le loro incancellabili diversità, ci mettono di fronte alle prospettive inedite che «guardare ai margini» (l’espressione è di Forgacs) consente di acquisire e che, restando cocciutamente al centro, non riusciremmo mai neanche a intuire da lontano. La bibliografia su «margine» e «marginalità» è sterminata, e i due autori ce ne danno più di un esempio. Difficile aggiungere qualcosa. E tuttavia: la dinamica che questa suggestiva alternanza fra centro e periferia, fra periferia e centro, suggerisce, è in molte situazioni un criterio ermeneutico pressoché permanente. Ossia: in molti casi, invece di «leggerla », una volta che sia stata interpretata e sistemata nei libri, essa è un dato del nostro vissuto, un’esperienza senza la quale non potremmo capire non solo quanto ci è accaduto intorno ma neanche ciò che è accaduto dentro di noi. Faccio un solo esempio, ma rilevante: l’Italia. L’Italia vive da qualche anno un processo di marginalizzazione crescente. Cioè: sta scivolando al margine (e finora su quel margine non ha trovato la carica diversamente positiva che, ad esempio, nelle prospettive di Magris si potrebbe costruire anche «al margine»).
Se ho qualcosa da rimproverare ai due autori è di non aver inserito nelle loro potenziali tabelle di valutazione (forse qualche accenno solo nel capitolo Margine, povertà e dissenso del libro di Magris) il più gigantesco processo di marginalizzazione che abbia riguardato l’Italia nel corso degli ultimi cinquant’anni, e cioè quello sperimentato e vissuto dalla sua classe operaia, processo perseguito con implacabile perseveranza e in taluni casi una dose molto elevata di ferocia: dall’innegabile centralità degli anni Sessanta – fatta di forza e presenza politica e sociale – alla condizione appartata e spesso subalterna, in continua discussione e ridiscussione, di oggi.
È un esempio di cosa significhi stare dentro il flusso delle scelte e degli eventi, e spesso rendersene poco conto, o niente. La mia opinione è che la crescente marginalizzazione della classe operaia – che, in altri termini, giustifica e incrementa la crescente marginalizzazione del lavoro in quanto tale, nei suoi vari aspetti, sia economici sia culturali – determini e spieghi la crescente marginalizzazione dell’Italia rispetto al resto del mondo. Ma è ovvio che di questo si dovrebbe discutere.
Mi piacerebbe davvero discuterne, se avessi la forza di farlo. Soprattutto su due questioni: l'una teorica, l'altra pratica. (1) Se non ci si rinchiude in una logica capitalistica è giusto ridurre il concetto di "lavoro" a quello di "lavoro operaio"?. A me sembra di no. Se avessi ragione occorrerebbe poi domandarsi: (2) Se la crescente marginalizzazione della classe operaia fosse inarrestabile, non esistono altri "margini" suscettibili (ove acquistino coscienza di sé) di svolgere nel XXI secolo il ruolo svolto nei secoli precedenti dalla classe operaia? (e.s.)