INTERNATIONAL CENTRE FOR REGIONAL REGENERATION AND DEVELOPMENT STUDIES (ICRRDS) - University of Durham, England: PRIVATIZZAZIONE DELLA CITTÀ? LA SPINTA VERSO UNO SVILUPPO URBANO ESTERNO E LE COMUNITÀ RECINTATE IN GRAN BRETAGNA– Rapporto finale per la Vicepresidenza del Consiglio, Gordon McLeod, ottobre 2004: Titolo originale: PRIVATIZING THE CITY? THE TENTATIVE PUSH TOWARDS EDGE URBAN DEVELOPMENTS AND GATED COMMUNITIES IN THE UNITED KINGDOM – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
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La crescita delle Edge Cities
Chiunque capitasse nella “ downtown” di una grande città in Europa o negli USA potrebbe facilmente essere incline ad escludere in modo netto qualunque ipotesi che l’economia delle città possa essere in qualche modo in “crisi” o in “difficoltà”. Perché quando si entra in un classico centro città ci si ritrova invariabilmente abbagliati da un impressionante schieramento di torri luccicanti che sovrastano un caleidoscopio paesaggio di glamour imprenditoriale, cospicui consumi, cultura dell’incontro nei caffè e vita di strada elegante, in tutto in stretta prossimità con qualche edificio residenziale antico elegantemente restaurato. In effetti, e come aveva supposto anni fa il geografo Neil Smith, “gli spazi della inner city improvvisamente riprendono valore, diventano perversamente profittevoli”. In tutto il mondo, sembra che le opportunità di edificazione stiano aumentando vertiginosamente nelle aree centrali, con costruttori e grandi imprenditori, spesso sostenuti da sostanziosi pacchetti di sussidi statali e investimenti pubblici in loco, che agiscono a massimizzare i guadagni. Per un’ampia varietà di motivi, i centri città offrono parecchio “tiro” in termini di attrazione di attività, investimenti, tempo libero, elementi residenziali e culturali.
Anche riconoscendo tutto ciò, le antiche opinioni riguardo al centro città come “il” motore propulsivo dell’economia metropolitana e regionale potrebbero dover essere riviste. Perché negli ultimi vent’anni circa, le difficoltà protratte nel tempo connesse agli alti affitti e alla bonifica delle aree nei centri hanno in qualche modo incoraggiato la formazione di una serie di spazi economici basati sulla strada e ad alta tecnologia, autoproclamatisi autosufficienti, o Edge Cities. Tali spazi appaiono sempre più caratterizzati da una composizione diffusa di insediamento a servizi e industria leggera, spesso collocato nei nodi delle principali autostrade o grandi arterie, o in adiacenza ad aeroporti internazionali. Il primo e principale analista di questo fenomeno è Joel Garreau. Nelle sue osservazioni introduttive a Edge City: Life on the New Frontier (1991), Garreau si spinge sino a sostenere che:
Noi americani stiamo attraversando la più radicale trasformazione da un secolo a questa parte nel modo di costruire il nostro mondo, e molti di noi non lo sanno neppure. Da una costa all’altra, ogni metropoli in crescita lo sta facendo, e sbocciano nuovi tipi di spazi: Edge Cities. […] La maggioranza delle persone passa l’intera esistenza dentro o attorno a queste Edge Cities, eppure a malapena le riconosciamo per quello che sono. Accade perché non sembrano per niente le vecchie downtowns; non corrispondono a nessuno dei nostri preconcetti su cosa costituisce una città. Le nuove Edge Cities non sono tenute insieme da locomotive o metropolitane, ma dalle freeways, dalle linee aeree, e dai percorsi dello jogging. Il loro monumento caratteristico non è un eroe in una statua equestre in piazza, ma un atrio che racchiude alberi perennemente verdi nel cuore degli uffici centrali di un’impresa, i centri per la forma fisica, le piazze coperte per lo shopping. I nostri nuovi centri urbani non sono contrassegnati dalle mansarde dei vecchi ricchi urbani, o dai quartieri popolari dei vecchi poveri urbani, ma dalla celebrata casa unifamiliare con il prato tutt’attorno. Perché l’ascesa di Edge City riflette lo spostarsi delle nostre attività – dei nostri strumenti di creazione della ricchezza, vera essenza della nostra urbanistica – verso l’esterno, dove abbiamo abitato e fatto shopping per due generazioni.La sorpresa è che questi luoghi, questi nuovi curiosi centri urbani, erano villaggi, o campi di granturco, solo trent’anni fa.
Garreau fissa criteri piuttosto definiti per individuare una edge city. Ovvero: 1) almeno 500.000 metri quadrati di spazio disponibile per uffici – il cosiddetto “posto di lavoro della Information Age”; 2) 60.000 mq o più di spazio commerciale; 3) più posti di lavoro che stanze da letto; 4) la caratteristica di luogo identificabile; 5) il non essere stato niente di simile a una città prima di trent’anni fa. Probabilmente l’assioma chiave è che la edge city rappresenta un nodo di lavoro, commercio e tempo libero relativamente autosufficiente il quale, almeno in potenza, permette a milioni di americani di vivere, produrre e consumare nello stesso spazio: concetto che inequivocabilmente si differenzia dal suburbio tradizionalmente residenziale, e quindi lo rende almeno funzionalmente una città.
Gli Stati Uniti al momento vantano ben oltre 200 edge cities – più di quattro volte la quantità delle vecchie downtowns di dimensioni comparabili – ed esse contengono due terzi degli spazi ad ufficio a livello nazionale; una quota che supera il 70% in città come Atlanta, Dallas o Detroit. Uno degli esempi classici di agglomerazione edge city è la Orange County, a sud di Los Angeles. Nei tardi anni ’80 la regione si era imposta come trentesima economia a livello mondiale, con la gran maggioranza degli abitanti impiegata localmente, anziché pendolare verso la regione di Los Angeles come si era verificato in precedenza. Comunque, le edge cities non sono riserva esclusiva della cosiddetta “ sunbelt” USA che si estende dalla Florida alla California meridionale. Perché se ne trovano sempre più nelle aree metropolitane della cosiddetta “ rustbelt” americana dalla costa orientale, come Filadelfia, al Midwest, come Pittsburgh in Pennsylvania o Cleveland, Ohio. In più, nelle mega-città del sud-est Asia come Giacarta, Manila o Singapore, il movimento dai centri urbani verso le fasce più esterne ha di fatto rovesciato la città. Ovunque sembra che “ [le] nuove periferie siano diventate gli spazi di proiezione [...] dell’investimento e dell’accumulazione”.
Come possiamo spiegarci questa significativa ascesa delle edge cities?
Dal punto di vista degli affari, almeno, sembra che imprese ambiziose e progetti imprenditoriali abbiano scelto di collocarsi in questi spazi perché sono attratte da un “ambiente favorevole all’attività economica” e dall’offerta di una forza lavoro ben formata, che può spostarsi in modi efficaci dal suburbio adiacente. Lo stesso Joel Garreau aggiunge che queste zone economiche sono libere dalla “fuliggine” e dalla percepibili inerzia politica e sociale spesso associate a fasi precedenti di investimento industriale. In altre parole, le edge cities presentano una superficie sgombra, che consente a investitori e famiglie di esplorare nuovi modi di creazione della ricchezza, di vivere e lavorare. In più, e in contrasto con l’affollato e disordinato paesaggio, con l’atmosfera difficile e ansiosa che spesso si ritiene permei la inner city, ad esempio non si trovano vagabondi “che dormono fuori dai centri commerciali”, e i poveri, i disoccupati, le sezioni a redditi inferiori delle minoranze razziali, sono opportunamente occultate alla vista. In un’epoca in cui il governo urbano sembra impegnato in una competizione senza fine ad attirare investimenti di impresa, questi ambienti incontaminati possono essere visti come un’opzione attraente.
Ma, anche dal punto di vista dell0’iniziativa imprenditoriale, le edge cities non sono del tutto prive di complicazioni. La loro rapida crescita ha significato che la congestione da traffico rallenti la mobilità, con tempi di pendolarismo e livelli di inquinamento atmosferico che ora rivaleggiano con quelli dei centri città tradizionali. Ad esempio, nella regione di Atlanta, la costruzione di strade è stata bloccata dalla Agenzia di Protezione dell’Ambiente a causa del deterioramento nella qualità dell’aria, mentre la media degli spostamenti pendolari è ora di oltre 70 chilometri, 25 in più che a Los Angeles. Inoltre, le abitazioni stanno diventando estremamente costose mentre sono sempre più difficili da reperire lavoratori a basso reddito: e non sorprende, visto che le edge cities sono spesso malamente servite dal trasporto pubblico, e che le amministrazioni sono in ritardo nell’offerta di infrastrutture e servizi base. E un articolo sulla rivista Wired (1999) sostiene che per le imprese “ trovare uffici in quello che sarebbe altrimenti un centro commerciale vuoto lungo la strada, a chilometri di distanza dal centro urbano, non funziona più”.
I critici sottolineano anche il ruolo delle edge cities nell’accentuare l’iniquità sociale. I pochi afro-americani o latino-americani che abitano nei quartieri di edge city sono segregati per razza e reddito, e questi emergenti luoghi post-urbani sono costellati da comunità recintate ad alta sicurezza, governi ombra, limitazioni progettate per innalzare i valori immobiliari. Anche Garreau è obbligato a riconoscere che le edge cities spesso mancano di anima, di senso comunitario e storia: la loro vivibilità è messa in forse dalla penuria di “cultura alta”, vita di strada, diversità sociale che di solito si associano alla vita urbana civile. In effetti “la cosa più vicina a uno spazio pubblico che si può trovare – un posto dove chiunque può andare – è il piazzale del parcheggio”.
Negli anni più recenti, il fenomeno della edge city ha ricevuto attenzione pubblica da parte del mondo politico europeo, non ultima la Commissione Europea, come documentato dallo studio su quanto è stato definito European Edge Cities Network. È una rete originariamente proposta dal Croydon Borough Council già nel 1995 a seguito di una riunione a livello europeo di amministratori locali. Il network conta dieci municipalità partecipanti nell’Unione Europea. Significativo come lo studio citato sottolinei i caratteri diversi che può assumere il fenomeno della edge city nei differenti contesti politici nazionali e sovranazionali. Per esempio, l’emergere di Croydon come distretto finanziario a sud di Londra, ha meno a che fare con i liberi spostamenti dell’imprenditorialità indipendente, che con la cornice di pianificazione a Londra del periodo post-1960, in particolare nel decentramento delle attività economiche verso questa particolare località. Forse ancora più rivelatore, il fatto che l’amministrazione di Croydon usi l’etichetta di “ edge city” a sostenere la convinzione locale sul diritto della circoscrizione a diventare città: ma presumibilmente si tratterebbe del senso tradizionale della parola.
In più, a differenza delle classiche edge cities che costellano la regione sunbelt degli USA, caratterizzate da un ambiente politicamente immaturo, le entità simili nella rete della Unione Europea sembrano possedere culture politiche dinamiche, proprie storie e pratiche di decisione amministrativa. Il tutto porta gli studiosi a concludere che le edge cities di stile USA non hanno un esatto corrispondente in Europa. Si adotta invece il termine “ edge urban municipalities”, a cogliere l’esperienza europea. Questo lavoro offre quindi alcuni spunti di cautela, su quanto l’urbanizzazione edge “di frontiera” rappresenti un fenomeno globalmente contagioso dello sviluppo capitalistico nei primi anni del Ventunesimo Secolo.[...]
Nota: vista la relativa difficoltà di reperire i materiali sul ricchissimo e articolato sito della Vicepresidenza del Consiglio britannica, il PDF originale integrale di questo studio (con la bibliografia, e la parte parallela sulle gated communities) è scaricabile direttamente da Eddyburg con link qui sotto (f.b.)