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Giovanni Sartori
È una proposta indecente
12 Dicembre 2005
Articoli del 2004
Il famoso politologo conservature critica la distorsione costituzionale proposta dal cavaler B. e dai suoi funzionari, su l'Unità del 19 giugno 2004

È una proposta indecente

di Giovanni Sartori

Le Costituzioni non sono né di destra né di sinistra. Pertanto l’elettore di destra non si deve sentire obbligato a sostenere il progetto di revisione della costituzione proposto dal governo Berlusconi, così come l’elettore di sinistra non si deve sentire obbligato a combatterlo. Una Costituzione è la casa di tutti, e tutti la dovrebbero accettare se abitabile (se migliora quella che c’era), o respingere se inabitabile (se la peggiora). E dunque la domanda è se la Costituzione già approvata in prima lettura al Senato sia buona o cattiva, funzionale o disfunzionale.

A questa domanda ho già risposto nello scritto «Una Costituzione incostituzionale?» pubblicato in appendice alla 5 edizione del volume «Ingegneria Costituzionale Comparata». L’interrogativo è retorico. La mia risposta non è soltanto che si tratta di una cattiva Costituzione, ma addirittura di una Costituzione incostituzionale. Possibile? La dizione può sembrare contraddittoria o comunque paradossale. Ma nell’ottica del costituzionalismo non lo è.

È vero che molti giuspositivisti guardano soltanto alla effettività di una Costituzione e si dissociano dal costituzionalismo reso «impuro» dal suo contenuto assiologico. Certo, il costituzionalismo è assiologico. Però è anche teleologico; accantonare la teleologia è più difficile che rifiutare l’assiologia. Il diritto ha uno scopo? Ha una ragion d’essere? A cosa serve? Nemmeno il giuspositivista si può sottrarre a queste domande. Alle stessa stregua è tenuto a chiedersi quale sia il telos delle Costituzioni. Domanda alla quale il costituzionalismo dà una risposta unanime. La parola Costituzione viene riesumata sul finire del 700 per disegnare una nuova realtà: la creazione di un sistema di governo «limitato» , di un sistema di «garanzia della libertà» (come scriveva Benjamin Constant). Al tempo di Cromwell non si diceva ancora «Costituzione»; si diceva covenant, pact, frame, fundamental law. E quando questi termini vennero riassorbiti nella parola Costituzione, la parola non denotava una qualsiasi organigramma di esercizio del potere; designava soltanto la sua forma garantistica. E dunque una Costituzione che non garantisce la libertà può essere detta incostituzionale.

Ciò posto, dobbiamo essere in chiaro a quale pubblico ci rivolgiamo: se a quello degli specialisti (i costituzionalisti), a quello dei parlamentari, oppure al più largo pubblico dell’opinione pubblica. In questo mio intervento io guardo, soprattutto, all’opinione pubblica, e così vado a distinguere tra opposizione ed oppositori. La prima è l’opposizione istituzionale, l’opposizione gestita nelle sedi istituzionali (nel Palazzo) dai partiti di opposizione: oggi l’opposizione di sinistra. Gli oppositori sono invece tutti i cittadini (tra i quali il sottoscritto, che certo non ha titolo per parlare in nome dell’opposizione), ovunque si trovino lungo l’asse destra-sinistra, che si oppongono, o potrebbero opporsi, al cambiamento costituzionale in corso. E in questa chiave il problema è di come l’opposizione istituzionale possa sensibilizzare e mobilitare l’universo (anche di destra) degli oppositori possibili.

Così vengo al punto. La controproposta dell’opposizione si riassume nella «bozza Amato». È una controproposta che va bene? Forse sì per gli interna corporis del Palazzo: concilia le varie anime del centrosinistra, dialoga con la maggioranza offrendole aperture, smussa i punti spinosi. Ma non bene, mi permetto di osservare, per gli oppositori in cerca di autore, in cerca di bandiera. Se l’interlocutore è l’opinione pubblica, allora una proposta «terzista» è controproducente, fa più male che bene. Una battaglia non si combatte con i «ni»; si combatte con i no. E a un progetto che snatura il costituzionalismo si deve rispondere con un rifiuto chiaro e netto.

L’obiezione è che non basta dire no. Io rettificherei così: non basta dire no e basta. Vale a dire che ci occorre un no sostenuto da una alternativa. Quale? È noto che in passato io ho sostenuto il semipresidenzialismo di tipo francese. Ma oggi non ci possiamo permettere di offrire all’opinione pubblica una formula complicata che non può capire. Aggiungi che sul semipresidenzialismo non siamo mai stati tutti d’accordo, e quindi che ci torneremo a dividere. L’unica alternativa a tutti nota è quella del sistema parlamentare. Non sarà la nostra prima preferenza. Ma siamo nella peste, e perciò dobbiamo rinunciare alle prime preferenze che ci dividono per ripiegare su una seconda preferenza, un second best, che ci può unire, e che può essere rivenduta (migliorata) all’opinione del Paese.

Dico di proposito «rivendere», per dire, che dobbiamo risalire una china, che dobbiamo rivalutare un sistema politico che abbiamo troppo svalutato. Perché mai, chiediamoci, il sistema parlamentare resta il sistema praticato (con una sola eccezione, la Francia) in tutta l’Europa occidentale? Perché solo noi ne chiediamo il superamento e il ripudio? Se rivisitiamo le critiche che hanno bersagliato la nostra prima Repubblica, le colpe che le vengono attribuite sono solo marginalmente colpe costituzionali, colpe della Costituzione del 1948. Occorre ristabilire questa verità. Ripeto: se quasi tutta l’Europa occidentale resta fedele al modello parlamentare, perché noi no? Perché noi siamo passati a un sistema elettorale maggioritario? È una vulgata di moda. Ma è una sciocchezza. L’Inghilterra è ferreamente maggioritaria e ferreamente parlamentare.

Comunque sia, non abbiamo altra alternativa. Beninteso, la formula parlamentare va ripresentata con miglioramenti (in chiave di governabilità) che il grosso dei costituzionalisti propone da tempo: voto di sfiducia costruttivo, fiducia votata soltanto al primo ministro (che così diventa un primus super pares), più un sistema elettorale idoneo. Con il che tornare a difendere un difendibilissimo sistema parlamentare sarebbe intelligente e possibile. Ma qui ci imbattiamo in uno strano incaglio: la strana dottrina (ignota in tutto il mondo) del ribaltone.

Questa strana dottrina fece presa nel 1994 per sostenere la richiesta di Berlusconi, dopo lo sgambetto di Bossi, di nuove elezioni. Dopodiché dilagò anche nella sinistra, sempre pronta a proporre e a sposare cattive cause. Tanto è vero che la ritroviamo nella bozza Amato, dove si legge che «per garantire il rispetto della volontà popolare degli elettori... è giusto che non siano legittimati i cosiddetti ribaltoni». Amato soggiunge che «in caso di sfiducia, e su proposta (del premier) vi sarà lo scioglimento del Parlamento, a meno che una mozione costruttiva votata dalla maggioranza iniziale, comunque autosufficiente, anche se integrata o eventualmente ridotta, non proponga un diverso candidato».

Amato è davvero il nostro dottor sottile. Qui si destreggia per salvare capra e cavoli. Da un lato nega l’elezione diretta («si conviene che si debba rendere noto... il nome del candidato alla guida del governo, senza tuttavia farne oggetto di separata menzione sulla scheda elettorale»), ma poi ne accetta, anche se in modo attenuato, l’implicazione che la maggioranza iniziale non può essere cambiata. Insomma, l’elezione diretta non c’è, ma è come se ci fosse. Per me è troppa bravura. E, bravura a parte, l’argomentare resta viziato da questa contraddizione: che se il nome del candidato sulla scheda non c’è, allora non si può invocare «il rispetto della volontà popolare degli elettori», visto che questa volontà non è stata espressa dal loro voto.

Il punto importante è però un altro. È che non possiamo sostenere il sistema parlamentare, e al tempo stesso sostenere il divieto di ribaltone. Perché quel divieto distrugge, inceppandola, l’essenza stessa di un sistema di governo caratterizzato dalla flessibilità. Non è più tempo di tatticismi. La dottrina del ribaltone non esiste nel costituzionalismo europeo ed è assurdo che diventi, da noi, una ossessione dominante della nostra riforma costituzionale. O la rifiutiamo senza quisquiliare, oppure chi si oppone al premierato assoluto resta senza retroterra, senza controproposta di ricambio. Perché, ripeto, non si può difendere un sistema parlamentare e negare a quel sistema il diritto di cambiare maggioranza.

Vengo ai rispettivi punti forti e punti deboli del dibattito tra i due schieramenti. Il punto di maggior forza dei difensori del «Silvierato» (il premierato disegnato su misura per Berlusconi) è di ricordare che tutte le cattive idee che l’opposizione sta attaccando oggi, sono state partorite in passato dalla sinistra (a cominciare dal premierato elettivo, lanciato da D’Alema). Purtroppo è largamente così. E la sinistra lo deve ammettere: abbiamo sbagliato e abbiamo cambiato idea (dopotutto Berlusconi le idee le cambia tutto il tempo). Nascondere i propri errori fa cattiva impressione, è cattiva politica.

La maggioranza dispone di un secondo argomento: che il suo premierato non è assoluto, perché sarà fronteggiato dal contropotere di un Senato «forte». Ma se sarà così, allora il nuovo sistema diventa più disfunzionale e assurdo che mai. Disfunzionale perché il contenzioso con il Senato diventerebbe davvero paralizzante. Ma sarà davvero così? Il Senato paralizzante non appartiene al disegno di Lorenzago; risulta da concessioni ottenute dall’opposizione. Non è detto, pertanto, che in itinere quelle concessioni non vengano rinnegate. Quanto più verranno esibite come bloccanti, e tanto più rischiano il veto di Berlusconi. Un’altra possibilità è che i «saggi» berlusconiani escogitino un sistema elettorale che produca anche al Senato federale una maggioranza schiacciante e fedele. Ma in ogni caso una rotella che non gira, ingigantita e fuori posto, non dovrebbe soddisfare nessuno, nemmeno l’opposizione. Un motore costruito per grippare non è un motore «costituzionale»; è soltanto un cattivo motore.

E l’opposizione? Il suo punto di forza dovrebbe essere di denunciare con forza che il «Silvierato» è in grado di conquistare e di occupare tutte le posizioni di potere del sistema politico. La bozza Amato non denunzia niente con forza; il che indebolisce la natura inderogabile delle «garanzie democratiche» che Amato delinea nel suo testo: alzare il quorum per l’elezione del capo dello Stato, dei presidenti delle Camere, e per l’approvazione delle regole del gioco. Sia chiaro: il mio lamento sulla forza argomentativa non toglie che questa parte del testo Amato sia ottima. Sorprende soltanto una omissione: che il Nostro non sembra avvertire che anche la Corte Costituzionale è conquistabile, e che la difesa della sua autonomia non può essere assicurata da quorum (che assicurano soltanto che la minoranza ottenga la debita fetta di lottizzazione) ma invece da una radicale depoliticizzazione delle procedure di nomina e anche dei corpi nominati. Perché un organo giurisdizionale di ultima istanza non deve essere fabbricato dalle parti sulle quali è tenuto a giudicare.

Mi fermo a questo punto. Come già avvertito in premessa, io non mi immedesimo con l’opposizione istituzionale; sono un oppositore quidam de populo, reso tale (e il caso si ripete, direi, per il grosso dei costituzionalisti) da una cattiva Costituzione. È anche di tutta evidenza che qui non torno a spiegare, nel merito, perché la Costituzione che ci viene proposta sia cattiva (l’ho fatto nell’altro testo che ho citato). Qui mi interessa la strategia atta a trasformare una minoranza istituzionale perdente (nei numeri parlamentari) in un universo di oppositori vincenti (al referendum; ma meglio se già prima). E in questa ottica mi appare sbagliata e controproducente la strategia (o mancanza di strategia) sinora perseguita dall’opposizione. Chi negozia resta coinvolto; e chi risulta coinvolto non è più in grado di combattere una battaglia frontale. Che invece è necessaria. Perché ci viene proposta una Costituzione viziata nell’impianto, viziata ab imis.

Come dicevo, le Costituzioni non sono né di destra né di sinistra. Pertanto il criterio per approvare o disapprovare una riforma costituzionale non deve essere di appartenenza ideologica. Se lo sarà, peccato. E sarà un danno per tutti.

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