Quando giochiamo “con” le parole, le parole “ci” giocano. Ecco fatto, basta saltabeccare fra transitivo e intransitivo e siamo già piombati a piè pari nel mondo parallelo di Stefano Bartezzaghi, linguista sorridente: un mondo alla Lewis Carroll dove, dietro lo specchio, le cose (le parole) sembrano ancora ma non sono più proprio così. Dove le parole, che crediamo di pescare inerti e servizievoli dal sacco del nostro lessico, ne fuggono via per vivere avventure fantastiche, a noi del tutto ignote e spesso inaccessibili: «Difficile capire quando le parole giocano e quando fanno sul serio...».
Bartezzaghi somiglia a un giocoliere che, dopo aver finito di far volteggiare in aria clavette e cerchi, li pesa, li misura e li dispone in ordine per scoprirne segrete virtù e poteri. Si potrebbe dire che questo suo Parole in gioco (Bompiani, pagg. 257, euro 17) sia un Trattato di Ludosemiologia Generale, ma sarebbe una parzialità, perché quando parli di parole lo fai con le parole e questo vortice ti travolge, le parole non stanno immobili in grassetto nelle pagine dei dizionari, le parole sono dispettose, appunto, ci giocano, ci mettono in gioco. Giocano a nostro dispetto, giocano senza di noi, «le parole hanno i loro giochi», che a volte possiamo solo osservare dall’esterno.
Quando Bartezzaghi ci informa che “attore” è l’anagramma di “teatro”, quell’affinità folgorante e misteriosa non l’ha inventata lui, l’ha solo scoperta, era già lì, predisposta da chissà quale intelligenza extraumana del linguaggio. Perfino un po’ inquietante, diciamolo. Che cosa fanno le parole quando noi non le parliamo?
C’è un’altra vita del linguaggio, ignota a noi pervicacemente convinti della trasparenza utilitaria del lessico, persuasi che le parole servano solo per dire quella cosa lì. Che è vero, e lo fanno benissimo, solo che, una volta messe al mondo, le parole si ritagliano un’altra esistenza, opaca al senso transitivo e referenziale a cui vorremmo inchiodarle, e intrecciano tra loro relazioni irragionevoli e meravigliose, per chi riesca ad abbandonarsi al loro gioco.
Come i bambini, grandi inventori di lingue esoteriche, iniziatiche, comprensibili solo al gruppo e addirittura solo all’amico del cuore: alcune son diventate celebri, il farfallino che mette una zeppa dopo ogni sillaba ( parola diventa pafarofolafa), il francese verlan che ribalta le parole come calzini ( l’envers), il javanais, il largonji, il loucherbem (e perché no lo schtroumpf, la lingua dei puffi che incuriosì Umberto Eco). Lingue irriverenti, insolenti e beffarde, tutto il contrario del pur benintenzionato esperanto che invece voleva infilare le parole nell’uniforme militare della regolarità assoluta.
Come i bambini fanno i poeti: che delle parole curano la manutenzione, ripassandole a volte nell’officina del nonsenso («Ma se son prive di qualunque nesso / perché le scrive / quel fesso?», Aldo Palazzeschi), come meccanici che fanno girare i motori a vuoto sul ponte mobile per capire come funzionano, e perché li trovano belli così.
I giochi di parole, come le barzellette, sembrano non essere stati inventati da nessuno, come se appartenessero a un fondo antropologico, addirittura preesistente alla comunicazione: il neonato gioca felice con la lallazione,
ma- ma, ba- ba, sono quei poveri illusi dei genitori che pensano stia chiamando loro (per non deluderli, il bimbo li accontenterà). Nella civiltà del logos invece i giochi verbali sopravvivono acquattati nella fessura saussuriana tra langue e parole, tra comunicazione sociale ed espressione personale. Semiologo per formazione, enigmista per tradizione familiare, Bartezzaghi li va a cercare lì dentro, come uno speleologo, e con molto rispetto li analizza e mette in ordine. Si ha gioco, spiega, «quando l’artificio tende a saturare il testo», quando il discorso de re diventa meno interessante del de dicto, il cosa dico meno appassionantedel come lo dico; allora è il trionfo dell’ambarabacicicocò.
Dopo averlo ben servito, il gioco quindi fa un passo oltre il linguaggio poetico, che pure delle parole eleva il significante allo stesso livello del significato, verso il detournamento assoluto, il divertimento selvaggio delle assonanze, delle combinazioni, dell’artificio. Questo accade, a un primo livello, nel play libero e senza scopo: ma gli uomini ci hanno preso gusto, a giocare o a farsi giocare dalle parole, e ne hanno estratto spesso un game, un gioco competitivo, una sfida formalizzata in regole e con una posta in gioco, non foss’altro che la soddisfazione di controllare la soluzione nell’ultima pagina della Setti-mana enigmistica e scoprire che ci hai preso, che “sale d’aspetto” è il crittogramma di zucchero, e “mezzo minuto di raccoglimento” quello di cucchiaino.
Il gioco di parole è dunque il meritato sonno del significato? La rivincita dell’ottuso sull’ovvio, per dirla come Barthes? «Il gioco di parole non ha nulla da affermare», sostiene Bartezzaghi e poi un po’ si ricrede. Perché, come accade ai lapsus freudiani, nelle acrobazie del lessico si nasconde a volte un cortocircuito di senso: quando Marcello Marchesi scrive est modulus in rebus ci regala la migliore sintesi del concetto di burocrazia. Ma qui rischiamo di cadere di nuovo nella ricerca dell’utilità delle parole: mentre dovremmo ammettere che la pura e semplice arguzia delle assonanze e dei r ha una funzione etica, e che in fondo, nel vocabolario, ogni rivelazione è già la rilevazione di una rivoluzione.