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Giorgio Ruffolo
È la decomposizione il rischio per l’Italia
3 Settembre 2008
Articoli del 2008
Questioni attuali alla luce di una efficacia sintesi della storia dei millenni trascorsi. La Repubblica, 3 settembre, con postilla

Provo a raccontare in forma di parabola la storia di un grande Paese che abita una penisola troppo lunga. Così la definirono gli arabi, l’Italia, quando tentarono invano di impossessarsene. Un Paese la cui storia fu spezzata in due. Anzi, in tre. Nell’antichità c’erano a Nord i Celti. A Sud i Greci. Al Centro gli Etruschi. I romani lo unificarono per la prima volta, ma immergendolo in un grande impero. Poi l’impero si sfasciò e quel paese tornò a spezzarsi. In due. Anzi, in tre. A Sud, sempre i Greci. A Nord i Longobardi. Al Centro, la Chiesa. Per quattro o cinque secoli, il Nord fu politicamente unito sotto il segno dell’impero: dai longobardi, e poi dai franchi e poi dai tedeschi. A Sud invece si frammentò subito tra colonie greche, ducati longobardi e repubbliche autonome, continuamente percorso da eserciti imperiali e da orde saracene.

Poi, all’inizio del secondo millennio, la scena si rovesciò. Il Sud (con la Sicilia) fu conquistato dai normanni e ricomposto in un solo potente Regno. Il Nord cominciò a decomporsi politicamente in liberi Comuni e Repubbliche. Continuarono dunque, Nord e Sud, a procedere per strade opposte. Ci fu un momento, quando gli svevi, e il loro imperatore, Federico II, subentrarono ai normanni, in cui la potenza del Sud avrebbe potuto congiungersi con la ricchezza del Nord. Solo il grande Federico poteva farlo. Ma a tutto pensava meno che ad allearsi con loro. E loro con lui. Si combatterono, anzi, ferocemente.

Così, dopo Federico, il grande Regno di Sicilia si ridusse progressivamente al reame di Napoli. Le repubbliche del Nord fiorirono, ma fermandosi politicamente a livello di potenze regionali. Così l’Italia cadde sotto il dominio straniero. E per quasi tre secoli subì l’onta e l’impronta della servitù. Ma ancora una volta, diverso fu il destino del Nord da quello del Sud. Nel Nord l’eredità politica dei Comuni consentì la formazione di una borghesia colta, civicamente educata, che tuttavia non fu mai capace di guidare, tutt’al più solo di assecondare un vasto movimento di liberazione. Nel Sud, tra la prepotenza dei baroni e la disperazione dei contadini non si formò mai una vera borghesia, ma quella caricatura di borghesia che si chiama mafia. Maturava dunque al Nord una borghesia politicamente irresponsabile, al Sud una pseudo-borghesia economicamente parassitaria. Quando finalmente venne il momento dell’unità, ambedue lasciarono le strutture dello Stato nelle mani di una burocrazia cui il Sud forniva i quadri e la monarchia sabauda l’impronta autoritaria.

Ma allora, è giusto domandarsi, come, da chi e perché si compie, malgrado tutto, nei tempi moderni, l’unità d’Italia? La risposta è stata data tante volte. Essa è frutto dell’azione di minoranze. Come sempre, si potrebbe dire. Sì, ma nel caso dell’Italia, di minoranze particolarmente minoritarie, nel senso che non rappresentano culturalmente le correnti pesanti di questo Paese: non ne sono il "campione". Certo, esse non sorgono dal vuoto. La civiltà italiana, la nazione italiana, benché priva di Stato, è una realtà storica. Lo è la lingua. La letteratura. L’arte. La musica. Ma è la spuma di una cultura, non il fondo. Questa si esprime nei grandi episodi della vita politica italiana moderna: il risorgimento, il fascismo, la repubblica. Quello resta torpido, servile, ribelle.

Il Risorgimento è un’antologia di slanci generosi. Forse il meno noto e il più emblematico è quella rivoluzione napoletana del 1799 che rivelò la tragica frattura tra l’idealismo patriottico dei giacobini e la ripulsa reazionaria dei lazzaroni mobilitati dai preti. Spento il genio di Cavour, contestato l’eroismo di Garibaldi, il risorgimento decade consumandosi nella grigia mediocrità della monarchia sabauda. Incapace di realizzare l’unità del Sud e del Nord quella monarchia la sforza con la violenza in una brutale repressione delle plebi meridionali. Il fascismo non è all’origine un movimento reazionario. Anch’esso espressione di minoranze intellettuali, è una rivoluzione piccolo borghese intrisa di violenza di classe e satura di letteratura retorica. Esso trascina una borghesia pavida e un proletariato sconfitto all’avventura e alla catastrofe.

La Repubblica. Nata dal riscatto vitale della Resistenza, espressione di minoranze intrepide, trae il suo vigore da due grandi forze popolari in conflitto: quella democristiana e quella comunista. Queste hanno il merito, eccezionale nella storia d’Italia, di trascendere i termini di quel conflitto dando al Paese una Costituzione socialmente avanzatissima, e di respingere i conati separatisti. La Democrazia cristiana riesce a tenere a bada le pretese clericali e a controllare il qualunquismo eversivo delle maggioranze silenziose. Il partito comunista, a frenare gli impulsi insurrezionali deviando la sua grande forza verso un disegno storico di alleanza con il mondo cattolico. A questo disegno ideologico esso sacrifica però le concrete possibilità aperte al riformismo liberale e solcialdemocratico che si afferma negli altri Paesi d’Europa.

Preservata l’unità politica del Paese, la repubblica dei partiti si rivela incapace di rifondarla su una vera unità nazionale, affrontando e risolvendo il vero nodo che impedisce la formazione di uno Stato moderno: la questione meridionale, ovvero l’impasse di una penisola troppo lunga. Questo è il vero fallimento della Repubblica. La grande insurrezione che segue, contro la corruzione politica, inizialmente motivata da un autentico sdegno civile, ha aperto le porte ad una gigantesca jacquerie. Quel terremoto ha travolto i partiti, strutture portanti della Repubblica, senza rigenerare il paesaggio politico. Ha scatenato invece una possente rebelion de las masas scatenata contro i partiti, contro lo Stato, contro la politica. L’essenza di questa deriva è il privatismo, la riduzione di ogni aspirazione a interesse privato, l’insensibilità per valori politici che lo trascendono, l’insofferenza di ogni regola che si imponga alle pretese del "particulare". Il privatismo è l’essenza del populismo. Le formazioni collettive cui da luogo non sono strutture; sono mucchi di granelli di sabbia esposti al vento di correnti emotive, di suggestioni demagogiche e mediatiche. Emerge una società informe, senza identità. Una società in senso proprio privata: di sé stessa.

Mai come oggi l’Italia è apparsa così fragile. E la sua unità così in pericolo. I pericoli di secessione non sono svaniti. Dopo il Nord la febbre leghista può investire il Sud promuovendo progetti separatisti come quelli che la Mafia elaborò nel pieno della tremenda crisi del 1992, quando si tramava la fondazione di uno Stato del Sud, una sorta di Singapore mediterranea, ultramercatistica e autoritaria. Porto franco, capitale di tutti i capitali del mondo. Il pericolo non è un nuovo fascismo. È la decomposizione nazionale e sociale. Mazzini aveva detto: l’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà. Questa profezia rischia di avverarsi al suo livello più basso.

Compito storico della Sinistra avrebbe potuto essere quello di ricomporre l’unità nazionale in un progetto di società che affronti i grandi problemi dello sviluppo economico, dell’equilibrio ambientale e del benessere sociale. E di fondare su questo il grande disegno federativo unitario indicato da Carlo Cattaneo, non lo pseudo federalismo separatista implicito nei progetti leghisti. Ma la Sinistra italiana è priva di un progetto. Essa è dilaniata tra due tendenze: alla contestazione e alla mimesi della destra, ambedue subalterne. Il sociologo Durkheim avrebbe detto che il suo linguaggio non è quello della conversazione, ma quello del pettegolezzo. Un progetto non può desumersi dal chiacchiericcio dell’attualità, ma solo dalla consapevolezza della storia di questo Paese: grande ma troppo lungo. Un progetto che permetta finalmente di accorciarlo un po’. Non sto proponendo un corso di storia. Se mai, di geografia.

Postilla

Non vorremmo che l’insistere di Ruffolo sulla eccessiva lunghezza della Penisola venisse inteso come un invito ad accorciare la distanza fisica realizzando nuove vie di comunicazione.

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