L’ABC DELLA DEMOCRAZIA
COMINCIANO a fare una certa impressione, i terremoti che il presidente Ciampi provoca ormai sistematicamente con gli appelli contenuti nei suoi discorsi o nelle sue risposte ai giornalisti. Sono appelli a principi fondamentali del convivere civile, che in una democrazia sviluppata vanno generalmente da sé. I Capi di Stato o i monarchi li evocano di tanto in tanto perché così ordinano la tradizione, l’etichetta, e il prestigio connesso alla natura morale del loro magistero. In alcuni momenti difficili questi appelli si fanno più intensi, ma i momenti sono scelti con sobria sapienza e senso del risparmio verbale. Invece in Italia è oggi tutto diverso: ogni giorno, ogni ora il Capo dello Stato è chiamato a recitare il decalogo che fonda la democrazia, come se si trovasse di fronte a edifici in rovina. Deve ricordare a tutti che «in democrazia è indispensabile il rispetto reciproco», che «la collaborazione non esclude ma richiede un dibattito forte e schietto», che stampa e televisione devono essere libere di criticare, che i giudici obbediscono solo alla legge. E ancora: che le contrapposizioni sono lecite ma non devono superare il limite del rispetto dovuto alle «opinioni altrui: anche le opinioni diverse, profondamente diverse dalle nostre». Che le opposizioni e minoranze devono avere un ruolo riconosciuto, e uno statuto. Queste cose, in una democrazia sviluppata, fanno parte degli esordi: sono lo strato primitivo della sua geologia. Sono spiegate nelle sue scuole elementari, nei suoi giardini di infanzia. Non si rompe il giocattolo del vicino perché è più bello. Non si sputa né sul compagno né sulla maestra né sul bidello. Non si ruba e non si traduce l’invidia in odio. Imparate una volta, queste regole diventano leggi che si conoscono a memoria. Ciampi non ha dunque torto, quando al giornalista accalorato replica: «Ma quale terremoto? Io cerco solo di portare un po’ di tranquillità».
Eppure ogni volta è scossa tellurica, quando il Presidente evoca le norme imprescindibili della disputa politica, e prima o poi verrà il momento di domandarsi perché. Perché questa singolare sensazione di trovarsi in un paese dove tutto ogni volta deve ricominciare da zero, come nelle nazioni appena uscite da guerre, carestie o dispotismi. Un paese che non vive nella sua tangibile realtà e nella sua storia effettiva, ma nel «come se». Come se fosse una dittatura, come se la Costituzione dovesse essere redatta per la prima volta dopo decenni di regime, come se le sue istituzioni giacessero, a pezzi, sotto bombardamenti. Di questi tempi abbiamo sentito parlare spesso di paesi simili: sono paesi come l’Iraq o la Russia, nei quali occorre ricostruire non solo la nazione e lo Stato ma la rule of law, l’imperio della legge. Nel linguaggio degli specialisti quest’opera di civilizzazione si chiama nation-building, riedificazione della nazione: in Italia siamo ancora a questo livello. Stiamo facendo nation-building, non diversamente dall’Iraq, e come il Presidente Karzai in Afghanistan Ciampi deve intervenire ogni giorno, per mettere pace tra i clan ed evitare che la società politica torni alla guerra permanente che caratterizza il primevo stato di natura. Tra le varie ragioni di questo primitivismo politico, e del suo abnorme dilatarsi odierno, vorremmo citarne solo due. Primo: l’assenza o la carenza di un controllo sociale che selezioni e vagli in modo continuo i comportamenti: nel mondo delle istituzioni come in quello economico e scientifico. Un homo novus della politica come Berlusconi ha potuto compiere la sua ascesa senza che fossero prima vagliati la sua correttezza, il suo passato di cittadino e imprenditore, la sua effettiva indipendenza. Il processo contro la presunta sua corruzione dei giudici, risalente ai tempi in cui non era un politico ma un privato cittadino, avrebbe dovuto svolgersi prima che accedesse alle massime cariche dello Stato e non dopo, come si è unanimemente accettato che avvenisse. Lo stesso si può dire per l’esame critico del conflitto d’interessi. Mancato all’inizio, il controllo sociale occorre adesso esercitarlo in vivo. L’intero ceto politico - e non solo il Quirinale - è chiamato a riportare ordine nel rapporto fra legge e cosa pubblica: sono chiamati gli oppositori ma anche gli alleati riformisti di Berlusconi, la stampa, la televisione. Altrimenti si accetta che la democrazia venga corrotta da dentro, sia riportata al grado zero, e si avalla la norma secondo cui un uomo privato può usarla piuttosto che servirla, una volta abbattute le prime barriere del controllo sociale e ottenuta l’acclamazione delle urne. Quando Berlusconi si scaglia contro i giudici e li definisce golpisti e criminali, o quando accusa la stampa di tendergli «agguati», egli fa propria una concezione della democrazia che non conviene a nessuno, neppure a lui: se consiste solo nel verdetto degli elettori - verdetto che prevale su ogni altra cosa, compresi tribunali e imperio della legge - la democrazia può divenire facilmente dittatura della maggioranza. Qualsiasi controllo è inviso, tra due scadenze elettorali, se mette in causa quel primitivo verdetto di cui non si vuol vedere l’insufficienza. In particolare, sono invisi i controlli che più impauriscono i governi autoritari: la magistratura e l’informazione. La giustizia e il pluralismo d’opinione non sono più valori esterni al potere contingente, che perdurano anche quando i governi cambiano: sono oggetti di rissa politica, dunque sono valori mutevoli, sporadici, e mercanteggiabili. La seconda ragione è la tendenza, vigorosa in Italia, alla smemoratezza politica. Qui si dimentica, ogni mattina, quel che si è detto la sera prima. Qui il logos comincia ogni giorno da capo, senza rapporto con la realtà e la storia ma con un rapporto tanto più forte con le convenienze del momento. Anche questo è caratteristico del nation-building successivo alle guerre o alle tirannidi. Nei giorni scorsi, ad esempio, si è parlato molto di immunità per le cariche dello Stato o i parlamentari. Si è parlato dei danni inferti da Mani Pulite negli anni Novanta, degli eccessi di una parte della magistratura e dell’uso che la sinistra ha fatto di Tangentopoli. Si è parlato assai di meno di come la destra formatasi attorno a Berlusconi preparò oltre dieci anni fa il terreno per la rivoluzione giudiziaria italiana, di come la Lega e Alleanza Nazionale si trovarono allora ad attaccare, con virulenza estrema, chiunque criticasse il pool di Milano o consigliasse il ritorno alla protezione immunitaria delle cariche dello Stato. C’è qualcosa di indecente, in quest’oblio sistematico di sé e di quel che si è detto pochi mesi o anni prima. Qualcosa che corrompe le menti di un’intera classe dirigente (politici e imprenditori, giornalisti e studiosi). Qui in Italia non si riscrivono solo la storia e le colpe passate. Qui si riscrive sfacciatamente la storia nel momento stesso in cui essa si fa. I moderati di destra, le persone indipendenti nel governo e nel parlamento non possono a lungo mortificarsi, in questo degrado del senso della verità. Se vogliono avere attorno a sé cittadini non primitivi, dovranno ritrovare un loro rapporto civile con la giustizia, la storia e la stessa verità. Il male che affligge l’Italia non è solo la corruzione sanzionabile nelle aule giudiziarie. E’ la corruzione dei cervelli, è il guasto arrecato alla facoltà di ragionare, giudicare, ricordare. Magistrati e giornalisti non osano più parlare a chiare lettere, e lasciano questo compito ai giornali stranieri. All’Economist che giudica Berlusconi inadatto a guidare la presidenza dell’Unione Europa. Alla Frankfurter Allgemeine, che paragona la paura suscitata nei nostri governanti da magistratura e stampa alla paura provata dai dittatori. La corruzione dell’intelligenza e la primitivizzazione della politica conducono a guasti che sono poi difficili da sanare: al tumulto disordinato, o a un’obbedienza cieca verso il capo che svaluta la virtù stessa dell’obbedire e servire. I tedeschi danno a questa falsa docilità il nome di vorauseilende Gehorsamkeit: l’obbedienza che si affretta a precedere l’immaginato ordine del capo. La nostra televisione pubblica già si affretta - più ancora di quella posseduta in prima persona da Berlusconi - offrendo impropriamente la propria arena a imputati politici alle prese con la giustizia ordinaria: a Previti prima e a Berlusconi poi, rispettivamente a Porta a Porta e a Excalibur. La democrazia è in pericolo quando l’autocensura interviene prima ancora della censura. Quando è costretta ad accordarsi intorno a leggi dell’immunità che si rivelano necessarie per proteggere molto più le maggioranze che le minoranze. Quando le maggioranze fingono di essere opposizioni, e i regimi si difendono dall’accusa di prepotenza lamentandosi di essere essi stessi vittime di un regime. Tutti noi - cittadini e giornalisti, politici e magistrati italiani - siamo a questo grado zero della cultura politica. Ed è difficile non provare una certa vergogna, quando Ciampi ci ricorda l’abbiccì della civiltà e ci tratta, di fatto, non già come adulti ma come scolari di un ineducabile, screanzato, vociferante giardino d’infanzia.
MA L’ITALIA CONTA DI PIU’
di SERGIO ROMANO
Berlusconi e Prodi sono nemici politici. Si sono battuti nel 1996 e potrebbero affrontarsi nuovamente nelle prossime elezioni. Sono diversi per cultura, formazione, stile personale. Ed è probabile che i loro rapporti siano ispirati a reciproca antipatia. Ma hanno contribuito insieme all’unico vero mutamento emerso dalla crisi degli anni Novanta. Se Berlusconi non avesse raggruppato intorno a un partito nuovo le forze del centrodestra e se Prodi non avesse fatto altrettanto nel centrosinistra creando l’Ulivo, gli italiani sarebbero ancora costretti a mettere nell’urna una procura in bianco. Se possiamo scegliere da chi essere governati, lo dobbiamo a questa coppia di eterni duellanti. Ma il duello, con gioia di chi vorrebbe tornare al vecchio trasformismo nazionale, rischia di mandare all’aria il bipolarismo. I primi errori, nell’ultimo round, sono stati commessi da Berlusconi. Quando è apparso di fronte al tribunale di Milano, il premier ha creduto che la condizione di imputato gli desse il diritto di chiamare in causa l’ex presidente dell’Iri. Ma l’insinuazione colpiva il presidente della Commissione e pregiudicava i rapporti istituzionali che i due dovranno avere nel semestre italiano. Il presidente del Consiglio credeva di difendersi e ha fornito armi ai suoi critici. Lo abbiamo constatato quando un settimanale inglese, che Berlusconi aveva querelato per un precedente articolo, lo ha definito unfit (inadatto) a presiedere l’Europa. Non basta. Avant’ieri, con l’intervista in tv ad Antonio Socci, il presidente del Consiglio ha commesso un altro errore. Poteva parlare «a reti unificate», come Scalfaro nel ’93. Poteva indirizzarsi al Paese come Chirac all’epoca degli scandali in cui fu coinvolto. Poteva persino servirsi di una spalla amica, come faceva il generale de Gaulle. Ma non doveva, mi sembra, occupare buona parte di un talk show della tv di Stato senza accettare le regole del confronto.
Prodi, dal canto suo, ha rotto il riserbo che si era imposto. Incoraggiato forse dalle critiche dell’ Economist e dalla gaffe televisiva del suo avversario, ha approfittato di un convegno a Siena per leggere una fulminante dichiarazione contro Berlusconi. Non si è reso conto che il presidente della Commissione è, a tempo pieno, un uomo dell’Europa e, benché attaccato, dovrebbe astenersi da dichiarazioni sulla situazione politica del suo Paese. Ha dimenticato che anche lui, per ragioni diverse, è poco amato dalla stampa britannica e che qualche giornalista potrebbe definirlo unfit a presiedere la Commissione.
Gli effetti di questa baruffa cadranno tutti sulle nostre spalle. Berlusconi e Prodi avranno rapporti freddi, formali, inconcludenti. Gli interessi nazionali ne saranno danneggiati. L’Italia verrà definita ancora una volta pasticciona, rissosa, ingovernabile. La presidenza italiana del semestre sarà priva di credibilità internazionale. E i nemici del bipolarismo ne approfitteranno per sostenere che è meglio tornare al vecchio proporzionalismo, quando i governi venivano cambiati, mediamente, ogni anno. Chi riuscirà a difenderci da questo insensato duello? Non lo chiediamo al capo dello Stato che continuerà a instillare un po’ di buon senso nella testa della classe politica. Lo chiediamo agli esponenti più intelligenti della maggioranza e ai veri amici di Prodi. Cerchino di ricordare ai duellanti che l’Italia conta più delle loro beghe.