Comincio dal «visto»: Assalto al cielo, il film sul ’68 di Francesco Munzi, presentato fuori concorso al festival di Venezia e su cui ha scritto Silvana Silvestri. Sono andata a vederlo perché Munzi è un bravissimo regista, ha fatto bei film, specie l’ultimo, Anime nere. Insomma: una garanzia preziosa visto che la materia è stata fino ad oggi quanto mai maltrattata.
Penso all’orrenda celebrazione ufficiale del quarantesimo, otto anni fa, quando il movimento che pur con tutti i suoi errori e difetti ha segnato un cambiamento d’epoca è stato generalmente ridotto a «sesso droga e rock and roll».
Non mi sono sbagliata: il film è rispettoso della serietà dell’impegno e della passione politica che hanno animato una consistente parte della generazione arrivata alla maturità quasi mezzo secolo fa e le immagini - moltissime custodite dall’Archivio del movimento operaio e democratico, ma quasi mai arrivate ad un pubblico largo - sono bellissime. Inedita e straziante l’intervista ai genitori del brigatista Walter Alasia. E però. Munzi dice a Montini su Repubblica: «Non volevo che quel movimento restasse ostaggio della memoria di quelli che l’hanno vissuto», che fossero loro gli «unici titolati a parlarne». «Ho esposto i fatti - continua - perché i giovani sappiano dove stava andando l’Italia».
Il film glielo ha davvero fatto capire? Munzi stesso, che nel ’68 non era neppure nato, si è fatto un’idea di cosa è stato? Su questo ho molti dubbi e anche qualche preoccupazione. È vero che ognuno di noi - come giustamente scrive Silvana - avrà una diversa lettura del film a seconda della propria personale esperienza di quegli anni. Il ’68 - che in realtà in Italia durò dieci anni – ha del resto avuto molte anime ed è difficile ridurlo ad una unica espressione. Ma io credo che un dialogo con chi invece all’epoca era già nato non sarebbe operazione oziosa, perché dai frammenti di assemblee infuocate e di manifestazioni violente - che certo ci sono state - non si ricava il senso più profondo, e in questo senso comune, di quella sollevazione generazionale. Che non fu una reazione disperata e puramente utopica, ma la presa di coscienza - maturata dopo il ricco decennio dello sviluppo neocapitalista - dei limiti di un modello di modernizzazione che, se chiuso entro l’orizzonte capitalista, si sarebbe rovesciato in barbarie. Fu, insomma, una precoce critica della modernizzazione in un’epoca in cui buona parte della sinistra tradizionale partecipava al balletto Excelsior.
Fu, certo, anche un movimento antiautoritario, ma la sua specifica caratteristica, fu di aver capito che la libertà non è individuale ma fonda le sue vere radici nei rapporti sociali di produzione (fu questa la frase più popolare di Marcuse). Di qui la ricerca di un rapporto con la classe operaia, che, è vero, produsse anche scontri e incomprensioni, ma fu vitale per determinare un mutamento della lotta nella fabbrica, inizialmente indotto da minoranze, poi contagioso e infatti alla fine veicolato dallo stesso sindacato, che ne garantì l’estensione. Fu merito della Cgil e della Fim-Cisl aprirsi al movimento, sia pure non senza scontri durissimi, al movimento, cosa che non avvenne che in Italia. Gli anni ’70 furono infatti ricchi di conquiste e non solo di disastri.
Poi abbiamo perso. Non solo per i nostri errori, ma anche per quelli di una sinistra tradizionale che stentò a capire. E iniziò una tragica involuzione. Il sistema operò, come così spesso nella storia, una rivoluzione passiva: assunse le istanze libertarie individuali che non mettevano in discussione il potere, e espulse quanto invece dava fastidio. Se insisto a difendere il nucleo comune e vero della memoria sessantottina non è per autodifesa, ma proprio per stabilire un dialogo critico (e autocritico) con quelli nati nei ’90.
Per quanto ho letto invece, mi riferisco all’articolo di Yanis Varoufakis sul manifesto di martedì 6. Sono contenta, perché chiarisce nuovamente e con più chiarezza di quanto aveva fatto in una assemblea a Roma qualche mese fa di essere contrario ad abbandonare il campo di battaglia europeo e a ripiegare su impossibili soluzioni nazionali. Così come auspica il gruppo che fa capo a Lexit, la sinistra pronta ad abbandonare l’Unione europea. I miei dubbi nascono dalla strategia proposta: se vogliamo restituire sovranità al popolo europeo e togliere il diritto di deliberare ai poteri extrapolitici, estranei al sistema democratico, cui il liberismo l’ha affidato, basta la ribellione? Ribellarsi è giusto e utile, ma non mi pare che reinventare «i disubbidienti» sia sufficiente, né qui e tanto meno in Europa. Proprio perché il demos europeo va costruito, decisivo è costruire quegli organismi intermedi che collegano i cittadini con le istituzioni e che possono incidere sulle decisioni riappropriandosi del diritto a deliberare che gli è stato espropriato. Voglio dire costruire un vero sindacato europeo dotato dei diritti di cui è dotato a livello nazionale; reti fra le città per progetti comuni che ripensino il modo di vivere (quanta ispirazione dalla bellissima Biennale di architettura di quest’anno, intitolata significativamente «Siamo al fronte»); rete di organismi consolidati che comincino a gestire direttamente pezzi della società; media comuni sì da evitare la frammentazione dell’opinione pubblica europea su cui gioca il potere. Anche partiti europei veri.
Ma allora non basta disubbidire, occorre invenzione, progetto, organizzazione, egemonia. Senza casematte, ci diceva Gramsci, il campo di battaglia è pericoloso.