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Nando Della Chiesa
Dove abita la società civile
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Se la Piazza e il Palazzo lavorassero insieme, come l'altro ieri è accaduto...Da l’Unità del 23 agosto 2005

Ma davvero è stato il Generale Agosto a sconfiggere l’appello di Paolo Flores d’Arcais e di altri intellettuali a candidare alle primarie un esponente della «stagione dei movimenti»? E davvero di quella stagione non è rimasto quasi più niente, poche gocce di benzina e basta per un centrosinistra destinato a vivere ormai di apparati di partito? Antonio Padellaro ha già dato la risposta fondamentale: il popolo protagonista di quella stagione ha scelto di votare Romano Prodi.

Ma è utile aggiungere qualche altra nota su passato e presente per dare un senso più preciso agli scenari attuali; e per aiutarci a non consegnare né a Berlusconi né alle oligarchie di partito l’immagine di un’Unione senza ossigeno civile.

Torniamo dunque per un attimo all’origine: all’urlo di Moretti, ossia al canonico punto di svolta (e di lancio) di quella stagione. Quella sera di febbraio del 2002 a Piazza Navona le migliaia di persone presenti non erano venute a sentire il regista, il cui intervento fu in realtà uno spettacolare fuori programma. Avevano invece raccolto l’invito alla mobilitazione per una «legge uguale per tutti» di quaranta parlamentari dell’Ulivo. I quali da mesi percepivano il rischio di farsi risucchiare da quello che Gramsci chiamava il «cretinismo parlamentare», ossia la conta imbelle di maggioranze e minoranze mentre la democrazia viene spolpata. Una risposta all’altezza della prima sequenza di leggi della vergogna, così si pensava, sarebbe stata possibile solo con il sostegno di un movimento di popolo. Era il ritorno sulla piazza (come a Firenze e Milano nelle stesse settimane) dopo una lunga stagione di latitanza. Per quei tempi fu un successo, che si avvalse anche dell’aiuto organizzativo di una sezione Ds del centro di Roma. Sul palco venne dato ampio spazio agli esponenti della società civile. Chiuse Moretti con la sua frase iconoclasta («Con questi dirigenti non vinceremo mai»). E suscitò un’ovazione ed effetti tonificanti. Ma resta il dato di fatto: sin dall’inizio parlamentari e società civile procedettero appaiati (nelle loro espressioni più vitali) nell’impegno per difendere le ragioni della democrazia e della decenza istituzionale.

La stessa manifestazione di piazza San Giovanni nacque sull’onda di una forte mobilitazione intorno al Senato (anche allora era agosto...) in cui, dopo un’occupazione notturna dell’aula della commissione Giustizia, si realizzò una indimenticabile fusione tra rappresentanti delle istituzioni e movimento. Di più: l’appuntamento del 14 settembre vide un impegno diretto di tutta l’opposizione (che saggiamente rinunciò a promuoverlo in proprio per facilitare una partecipazione dei cittadini trasversale agli schieramenti politici).

Come dimenticarlo? Per preparare la manifestazione in molte città vennero messe a disposizione le sedi politiche, le feste de l’Unità brulicavano di banchetti per l’organizzazione del viaggio a Roma, non ci fu associazione vicina a questo o quel partito che non si sentisse direttamente impegnata a portare almeno «un pullman a Roma». Non ci fu insomma, quella volta, la nascita di un popolo alla ricerca di una nuova rappresentanza politica. Semplicemente, da un lato si mobilitò un’Italia più incline all’associazionismo civile; dall’altro si espresse al meglio la nuova natura dei partiti, assai più fluidi e sciolti di una volta. Più disposti a «stare nei movimenti» in virtù di una somma di convinzioni individuali e in virtù di direttive centrali.

Non fu l’unico grandioso momento di quella stagione. Il sabato primaverile dei tre milioni di Cofferati, il febbraio successivo con altri tre milioni per la pace, segnarono un ciclo di partecipazione senza precedenti nella storia d’Italia, con cifre da fare impallidire il pur mitico Sessantotto.

Poteva durare all’infinito? Certamente no. I grandi movimenti si formano per combinazioni chimiche irripetibili allestite dalla Storia (da noi, pare, a cicli quasi decennali: ’68-’72, ’77, ’90-’93, 2002-’03). Questo spiega perché, fuori da quelle combinazioni chimiche, una nuova san Giovanni oggi non sia pensabile neanche per la SalvaPreviti, che pure è dieci volte peggio della Cirami. E perché oggi, diciamo dal lodo Schifani in poi, si lamentino vuoti politici su una sponda o sull’altra.

Talvolta con i cittadini più attivi che si sentono privi di una adeguata rappresentanza politica. Altre volte con i parlamentari più sensibili che si percepiscono, nei vuoti di attenzione dell’opinione pubblica, alla stregua di liberi professionisti dell’opposizione. E tuttavia sarebbe sbagliato non cogliere il dato di fondo di questa quiete apparente dell’agosto 2005. Essa in fondo si è prodotta anche perché, da quel 2002, il centrosinistra ha infilato una vittoria elettorale dopo l’altra così che oggi il popolo dei movimenti guarda soprattutto a come potrà, dopo quella dura fase di resistenza, portare al governo i propri valori.

Certo, se qualcuno scommise, dopo il Palavobis, all’interno e all’esterno dei movimenti, sulla frana dei partiti del centrosinistra e dei suoi gruppi dirigenti anziché su un rapporto dialettico tra partiti e movimenti, puntò cioè su un processo di sostituzione affinché su un processo di scambio e osmosi, allora la delusione è legittima. Perché quei famosi dirigenti, nonostante tutto, anche grazie alla (provvidenziale) spinta critica dei movimenti, hanno vinto per ora tutte le prove. Non solo, ma proprio uno dei protagonisti del Palavobis, Roberto Zaccaria, è stato recentemente eletto a Milano nel collegio di Bossi a testimonianza che il rapporto dialettico c’è stato e ha funzionato anche a distanza di tempo.

Ma se la delusione nasce dall’atteggiamento attuale verso le primarie, essa davvero non appare giustificata. Per il semplice e solare fatto che quel popolo dei movimenti che per decine di manifestazioni ci ha chiesto unità (e rispetto per il patrimonio di entusiasmo che ci offriva) ha già deciso di votare Romano Prodi. Perché lo considera il punto di unità più avanzato possibile e dunque, anche per questo, il candidato che offre più possibilità di vittoria. E perché vuole, con il proprio voto alle primarie, metterlo al riparo da eventuali, sempre possibili, «congiure di palazzo» o pretestuose divisioni una volta che dovesse andare al governo.

Quanto alla presenza, nella competizione di ottobre, di esponenti della «stagione dei movimenti», essa, per onore di cronaca, ci sarà comunque. Ivan Scalfarotto (e gliel’ho detto con sincera chiarezza) non avrà il mio voto. Ma è indubbio che con «adottiamo la Costituzione» è stato attivo in tutta l’esperienza milanese nei momenti dell’onda alta e ha poi continuato a Londra con «Libertà e Giustizia»; non avrà notorietà o influenza mediatica, ma mi sembra onesto riconoscergli i titoli acquisiti sul campo, fra cui quello di averci messo almeno la faccia direttamente.

Su un punto decisivo Flores ha però ragione. Ed è che occorre fare di tutto perché gli elettori del centrosinistra sentano che il loro voto non servirà solo a battere Berlusconi. Che sentano che «vale la pena» votare per l’Unione. È questa una preoccupazione condivisa da molti, anche nei partiti, se è vero che iniziano a essere un po’ troppe, sia in sede locale sia in sede nazionale, le docce fredde che arrivano addosso a chi non aspetta altro che una svolta nei valori e nei metodi della politica. Che le primarie siano dunque il luogo giusto per dire che il popolo del centrosinistra c’è, partecipa ed è attento. Dopo sarà più facile, o meno problematico, ottenere che le scelte delle candidature esprimano una domanda di cambiamento.

Dopo sarà più facile, o meno problematico, avere un governo in cui possa riconoscersi il popolo che in quel cruciale 2002-2003 ha chiesto a voce più alta un’Italia civile, libera e pulita.

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