La Stampa
Le false favole europee
di Barbara Spineli
Quasi tutte le parole che descrivono la bancarotta del referendum irlandese sull'Europa suonano false e fanno pensare a quel che Macbeth dice del mondo, quando viene a sapere che la sposa è morta: come la vita, anche le parole sono «una favola narrata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla».
Non significa nulla lamentare con enfasi la democrazia assente nell'Europa, la sua lontananza dai popoli, perché l'Unione non è uno Stato pienamente funzionante, con cui i popoli sono in vero rapporto dialettico. È un edificio ancora da fabbricare o comunque completare, anche se le nostre società sono già europeizzate e le leggi nazionali soggiacciono in larga misura a quelle comunitarie. Il Trattato di Lisbona non è d'impedimento alla democrazia e anzi l'accentua notevolmente, coinvolgendo più che in passato il parlamento europeo e anche i parlamenti nazionali. Gli avversari odierni del trattato, come quelli che osteggiarono la costituzione nel 2005, lo sanno alla perfezione ed è contro questi miglioramenti che si battono. Si battono contro l'accresciuto potere di decisione affidato al parlamento europeo in 40 nuove politiche, e perfino contro la maggiore influenza dei deputati nazionali. Lottano contro la votazione diretta dei futuri presidenti della Commissione: pur proponendoli, gli Stati devono, secondo il trattato, tener conto degli equilibri creatisi nelle elezioni europee.
E’ una favola che non significa nulla dire che l'Europa viene regolarmente bocciata perché non ha peso su questioni cittadine vitali. Il trattato di Lisbona è colmo di difetti (ha cancellato la parola costituzione e i simboli di un soggetto politico nuovo) ma i progressi non sono trascurabili: il trattato unifica le politiche di sicurezza, immigrazione, terrorismo. In questi come in altri ambiti sostituisce all'unanimità il voto a maggioranza, il che vuol semplicemente dire che comuni politiche europee divengono realizzabili, come già accade nell'agricoltura, nel commercio, nella moneta. I propagandisti del No mentono sapendolo: denunciano un'Europa assente su immigrati o sicurezza, e uccidono la possibile sua presenza. Questo vuol dire che non vogliono affatto quello che pretendono. Vogliono preservare un potere, anche se ormai irrilevante. Come gli uomini impagliati di Eliot, hanno le mascelle spezzate di regni perduti: regni che si spengono «non già con uno schianto ma con un lamento».
È una favola che non significa nulla ripetere, come automi addestrati, che l'Europa è incapace di comunicazione. Della comunicazione sono responsabili i comunicatori, i destinatari della comunicazione, e chi è in mezzo: i media. I referendum falliti segnalano che la catena non ha funzionato, che nelle mani del popolo è stato messo quel che politici e media non sanno maneggiare. Il giorno prima del voto irlandese, Rai 1 neppure nominava un referendum che riguardava 490 milioni di europei. Il giorno dopo era perentoriamente sapiente su quel che aveva ignorato. Molto spesso i plebisciti danno risposte a domande che nel quesito referendario neppure son formulate: è il motivo per cui democrazie memori di referendum liberticidi, come la Germania, li vietano.
Non meno insignificante è la favola sull'identità europea inesistente: narrata da chi, dell'Unione, non scorge il nuovo, inedito incrociarsi tra locale, nazionale, soprannazionale. Tra costoro Marcello Pera: interrogato da Giacomo Galeazzi su La Stampa, piange l'Europa atea «giustamente punita». L'Europa è fatta di molte identità, lo dimostra proprio il referendum. In Irlanda hanno votato contro cattolici spaventati da aborto e eutanasia, ma anche anticapitalisti non religiosi. L'Europa sarà sempre più meticcia: l'intera sua storia è un Bildungsroman, un romanzo di formazione che ci educa al coesistere di più appartenenze (etniche, culturali, religiose). Obama somiglia a tale romanzo più di quanto gli somigli Pera.
È insignificante poi la favola che indica colpe e difetti delle istituzioni soprannazionali di Bruxelles. Nel trionfo dei No non c'è un responsabile ma ce ne sono tanti, e Bruxelles è il meno colpevole. Responsabili sono Stati, partner europei e atlantici, classi dirigenti, elettori. Questi ultimi non vanno vituperati ma giudicarli non è blasfemo.
Non significa nulla infine parlare di rottura e chiusura di un'epoca eroica. L'epoca eroica dell'Unione non è conclusa, i compiti oggi non sono meno grandi di quelli del dopoguerra. Ieri era questione di pace e guerra, dopo due smisurati conflitti. Oggi è questione del peso di questo continente nel mondo, della penuria planetaria di cibo ed energia, della catastrofe climatica, del conflitto fra culture. Ancora non è stata escogitata sul pianeta una costruzione politica capace di superare le inadeguatezze dei vecchi piccoli Stati-nazione, e l'invenzione dell'Europa resta un unicum esemplare.
Non è dunque l'Europa federale che naufraga periodicamente ma l'Europa dei falsi Stati sovrani: a Parigi, L’Aja, Dublino. Rischia il naufragio anche a Roma, dove un cruciale partito governativo, la Lega, imita il No irlandese (anche se i partiti principali a Dublino erano per la ratifica). La divisione sull'Europa è ben più grave dei contrasti su Afghanistan e Usa nel governo Prodi, non fosse altro perché la disapprovazione di Bush è diffusa in America e nel mondo: l'elogio del «clima più costruttivo» fatto dal Quirinale suona come una critica gratuita a Prodi. I giornali che hanno dilatato per due anni tali contrasti hanno appena accennato all'offensiva leghista contro l'Europa.
Una cosa poco promettente è che gli europei sembrano non imparare dalle crisi, nonostante quel che si dice su disastri e colpe felici. I disastri sono istruttivi solo per uomini con forte senso del futuro, del bene comune. Jean Monnet ad esempio diceva che «le crisi sono grandi opportunità»: di rompere col passato, di tentare il nuovo («Nulla è pericoloso come la vittoria», ripeteva). Alla Francia il referendum non ha insegnato molto. Pochi giorni prima del referendum, il ministro degli Esteri Kouchner ha vilipeso, sprezzante, gli irlandesi. Ha facilitato il No: per incompetenza, ignoranza, megalomania francese, come quando Chirac insultò gli europei orientali nel 2003. Comunicare bene e astutamente vuol dire parlar chiaro, ma non a vanvera.
In realtà non siamo di fronte a una storia eroica che finisce ma a una grande illusione che continua. L'illusione che gli Stati-nazione possano farcela da soli, in un mondo dove ciascuno dipende dal vicino e dal lontano. L'illusione che sia sovranità autentica, quella che Stati promettono di custodire. Tale sovranità non esiste, l'Irlanda lo conferma. Il militante più potente dei No è un ricchissimo industriale, Declan Ganley, che s'è preparato dal 2007 fondando l'associazione Libertas. Libertas riceve finanziamenti ingenti da neo-conservatori Usa e dal Foreign Policy Research Institute di cui Ganley - presidente di una ditta Usa specializzata in contratti bellici privati - è membro da anni: lo ha ricordato venerdì in un convegno parigino l'europeista liberal-democratico inglese Andrew Duff. Così come la natura, anche l'Unione ha orrore del vuoto. Quando non siamo noi a farla, è fatta da altri: in particolare, da chi teme l'Europa-potenza e vuol estrometterla.
Eppure di tutte queste parole false sono tanti a bearsi, compiacendosi del nulla. Chi resiste come Giorgio Napolitano o la Commissione o Sarkozy e la Merkel dice che un'avanguardia deve insistere, e pragmaticamente proseguire le ratifiche. Saggio consiglio, ma tutt'altro che pragmatico. Qui urge ancora un po' d'eroismo. I più determinati oggi non sono gli eroi ma i rinunciatari, i pavidi, gli uomini impagliati di Eliot: «La sanguigna marea s'innalza e ovunque / annega la cerimonia dell'innocenza; / i migliori mancano d'ogni convincimento, / mentre i peggiori son colmi d'appassionata intensità».
il manifesto
La sordità di chi vuol «tirare dritto»
di Luciana Castellina
«Tireremo dritto». Questa, esattamente come tre anni fa - quando a bocciare la Costituzione furono francesi e olandesi - la risposta che i leaders di tutta Europa (italiani inclusi) hanno dato al nuovo «no» degli irlandesi. Che si sono pronunciati così nonostante sia stato loro sottoposto un testo meno ambizioso, frettolosamente arrangiato a Lisbona, nella speranza di far creder agli scettici che si trattasse di una minestra diversa da quella rifiutata.
Andranno dunque avanti come stabilito, insensibili al non trascurabile particolare che la ratifica del Trattato è sì stata approvata da 18 stati membri, ma sempre e solo dai rispettivi parlamenti e generalmente senza che i cittadini ne sapessero poco più che niente, mentre questa Unione Europea non passa l'esame proprio ogni volta che a votare è direttamente il popolo via referendum.
Come tre anni fa, anche questa volta, i renitenti sono stati accusati di tradimento e di ignoranza: come non capire l'afflato ideale di quei 418 articoli fitti di indicazioni sulla circolazione di merci servizi e capitali?
Per gli irlandesi, poi, c'è un'aggravante: sono anche ingrati. Hanno mangiato a ufo tutti questi anni, ottenendo più vantaggi da Bruxelles di chiunque altro, tanto da balzare da un reddito procapite inferiore alla media europea addirittura al secondo posto: e non si sono contentati.
Non basta, evidentemente. Ed è singolare che non si consideri proprio questo dato un aggravante: che se l'Unione non piace nemmeno a chi ne ha più beneficiato, vuol dire che il disamore deve essere davvero profondo. Vuol dire che un'Europa sempre più allineata alla globalizzazione, priva di una propria specifica ragion d'essere, a rimorchio degli Stati Uniti su guerre e ideologia, non è roba che fa sentire europei.
Agli irlandesi che hanno il beneficio di esser ancora neutrali, costa oltretutto anche più cara: li trascina nella costruzione di eserciti europei della cui autonomia politica dalla Nato c'è di cui dubitare.
Di particolarmente europeo rischia oggi di esserci piuttosto un tratto peggiorativo: la progressiva erosione della democrazia che stiamo vivendo e che costituisce, non a caso, uno dei principali motivi di diffidenza dei cittadini verso le istituzioni europee, dove del resto ormai esplicitamente si teorizza la necessità di passare a una democrazia (persino) post-parlamentare, perchè i problemi posti dalla globalizzazione sarebbero oramai tanto complessi da esigere una crescente dose di delega ai gestori amministrativi.
Del resto a leggere i commenti al voto irlandese risulta davvero imbarazzante l'assenza di ogni riflessione sul distacco che ormai si registra fra pronunciamenti dei parlamenti e pronunciamenti diretti, via referendum, dei cittadini.
La prima e più urgente cosa che occorre dire, e anzi, ripetere, è che si deve adesso andare a una vera fase costituente europea, non a un nuovo esercizio di ingegneria istituzionale, pratica in cui l'Unione eccelle. Per riproporsi l'interrogativo di fondo: a che serve un'Europa clone del mercato globale, che non riesce a rappresentare una qualche specifica diversità, in grado di reinverare quanto di meglio c'è nella nostra tradizione democratica e sociale? Anzichè tirare dritto, meglio una pausa di riflessione. Anche per la sinistra che, o è stata piattamente e acriticamente europeista, o , pur essendo critica, si è scordata di considerare seriamente il p