il manifesto, 22 febbraio 2017
«Le radici del fallimento del Pd risiedono nelle scelte originarie del Lingotto, a favore di un partito incolore e senza classe. Con la benedizione di Marchionne»
Ed è scissione. Con ritardo, si registra un esperimento fallito. E si dice addio a un capo che altri danni presto procurerà alla democrazia in crisi. Nei media c’è chi lascia cadere sulla testa dei ribelli l’accusa di nichilismo. Per screditare i fuggiaschi, alcuni parlano di una scissione senza principi. Eppure al Testaccio gli insorti avevano riscoperto, come in Inghilterra, bandiera rossa.
Non c’entrano però i demoni del ‘900: la foto simbolo, di un evento che pure prospettava una rivoluzione socialista, era quella che riprendeva il Veltroni del Circo Massimo. Confusi pensieri. Nulla del Pd delle origini può aiutare chi vaga alla ricerca di una identità perduta. È il Lingotto l’origine del male, non la soluzione. Allora Veltroni stigmatizzò il conflitto come una brutta malattia, relegandolo nella cassapanca dell’800. Poiché lo scopo del capitale è solo il capitale stesso, senza il conflitto nessuno può sollevare questioni di giustizia per momenti di eguaglianza. Rinunciare al conflitto significa uccidere la politica e regalare il potere alle agenzie del capitale. Ovvero ai demoni del postmoderno.
Le radici del fallimento risiedono nelle scelte originarie del Lingotto in favore di un partito incolore e senza classe. La sua identità era fissata nel maggioritario e nelle primarie. Un collante fittizio che non poteva durare. Ci sono componenti del vecchio Pci che nell’amalgama si sentono a loro perfetto agio. Sono i notabili del partito degli eletti. Fassino, Chiamparino e Renzi, che si contendono la benedizione di Marchionne, costituiscono un amalgama riuscito. I vecchi miglioristi si trovano bene con il rottamatore visto come un modernizzatore. E Poletti è l’espressione di un tradimento delle ragioni sociali dello stesso riformismo emiliano che cede di schianto al fascino padronale del renzismo.
Per chi non si rassegnava a questa resa ingloriosa la rottura era inevitabile. La differenza tra Veltroni e Renzi non è nei principi, cioè nella visione aconflittuale del mondo, nella esaltazione dell’impresa, che è comune. Nemmeno nella cultura istituzionale e politica c’è una frizione: entrambi sognano il presidenzialismo e inseguono le primarie come unzione mistica in un partito liquido. Non a caso i media e i poteri economici che sostengono Renzi sono gli stessi che hanno accompagnato l’ascesa di Veltroni.
Quale è allora la differenza? Con l’alleanza capitolina tra il mattone e l’immaginario, tra le notti bianche e il cemento nero della città infinita del degrado speculativo, Veltroni aveva costruito le basi per la leadership nazionale. Il suo però non era ancora un partito personale, cioè si basava sul soccorso dei poteri forti, ma il leader non aveva costruito un potere economico autonomo. Con la sconfitta politica abbandonò per questo lo scettro.
Le fondazioni, le donazioni dei poteri finanziari, l’influenza del comitato d’affari della piccola borghesia toscana, specializzata nel cucire rapporti con banche e imprese all’ombra delle istituzioni conquistate, assicurano invece al leader un capitale a sua disposizione per edificare un partito personale che non obbedisce a canoni solo politici. Per questo tratto proprietario-personalistico del Pd non è stata ordinata la sola operazione politica decente dopo il clamoroso plebiscito: licenziare il capo di un non-partito, odiato dal popolo.
Il Pd salta, oltre che per il rifiuto delle degenerazioni di un partito personale, per altre due ragioni. La prima è la grande crisi economica alla quale il Pd risponde con il Jobs Act. Cioè con la potenza illimitata del capitale, padrone assoluto della vita del lavoratore, costretto a vagare in solitudine, e privo di diritti, tra i fantasmi della concorrenza. Già con Veltroni (emblematica fu l’operazione Calearo) il Pd aveva rinunciato ad ogni radicamento nel mondo del lavoro. Con Renzi la rottura è però definitiva e totale perché simbolico-culturale-giuridica. Dopo il Jobs Act si rompe la coalizione sociale del Pd, partito dei Parioli. E la prima area a saltare fu l’Emilia Romagna, con la diserzione di massa delle consultazioni regionali.
La seconda causa della catastrofe del Pd risiede nell’attacco alla costituzione. Il plebiscito di dicembre, convocato per consolidare il potere personale sulle tracce di uno scivolamento populistico e autoritario, ha segnato una cesura storica irreparabile. Ad essa il Pd reagisce con la provocazione della accelerazione verso i riti della nuova incoronazione mistica del capo caduto nel baratro.
Non serve a nulla evocare i demoni del ‘900 di fronte a ribelli che impugnano le armi per garantire la continuità del governo. Proprio questa aporia, di una rivolta per la stabilità, consiglia di gestire con accortezza tattica i tempi delle sinistre, variamente collocate nella gestione dei passaggi parlamentari, senza le accelerazioni perniciose. Organizzare il proprio campo, e al tempo stesso aprire con duttilità alla gestione delle sfide elettorali con una strategia aperta e condivisa: questo è il ruolo di una sinistra plurale che, pur nella differenza dei percorsi, non rinuncia a una vocazione egemonica.
La domanda di Gramsci deve sempre risuonare nei soggetti della sinistra, in tempi di crisi: come non diventare momenti che contribuiscono, loro malgrado, alla decomposizione generale. Una sinistra plurale nei profili organizzativi deve essere capace però di esprimere una convergenza, soprattutto se la legge elettorale la rende di fatto necessaria, come al senato. Una grande coalizione costituzionale, capace di lanciare una credibile alternativa, smentirebbe i censori che, dopo l’implosione del Pd, pronosticano un inevitabile trionfo del M5S.
Il terreno per le destre e il M5S sarebbe in discesa proprio se il Pd rimanesse ostaggio della follia renziana. Una sinistra plurale, non deviata dalla ossessione di trovare immediate soluzioni organizzative, può contendere il consenso ai tre populismi in scena e fare di lavoro e costituzione le bandiere di una ricostruzione democratica.
L’ORIZZONTE NON SI VEDE ANCORA
di Aldo Carra
«Dopo il 4 dicembre. Una crisi specifica quella italiana, ma nel mezzo di una Europa con spinte a destra che si allargano e fermenti a sinistra che stentano a fare massa critica»
Esattamente un anno fa con Cosmopolitica decollava il tentativo ambizioso di superare Sel per costruire una sinistra nuova e più larga. Adesso è nata Sinistra Italiana, alcuni promotori hanno deciso di fare altro, il Pd sta deflagrando e nel cielo europeo e mondiale si addensano nubi preoccupanti. Sembra passato un secolo. La storia corre e la sinistra annaspa. Come ha scritto Revelli siamo dentro un processo entropico: ogni giorno il quadro cambia e ogni pezzo non sta più né dove stava ieri, né dove pensavamo dovesse stare oggi. Alzare la testa per vedere meglio quel che accade fuori e lontano da noi: questo è il suggerimento che se ne ricava.
Giusto, ma non basta.
Perché il terreno sottostante, frana e se non si sta con i piedi per terra e in movimento, si rischia di restare intrappolati nelle sabbie mobili. Mai come oggi, quindi, dobbiamo muoverci nell’oggi scrutando l’orizzonte lontano e seguendo la direzione giusta.
All’orizzonte c’è la fase terminale dello sviluppo capitalistico, la sua mutazione genetica dalla produzione materiale di beni e servizi per soddisfare bisogni delle persone alla produzione virtuale di finanza per soddisfare le leggi di sopravvivenza della finanza stessa.
Ma ci sono all’orizzonte anche mutazioni straordinarie indotte dall’evoluzione tecnologica. Le macchine sostituiscono l’uomo e ne mutano il destino: o liberazione dal lavoro o dominio finanziario e tecnologico e nuova schiavitù dell’uomo, ridotto a scarto. Il progresso creato dall’uomo gli si rivolge contro. Problemi spaventosi stanno davanti a noi. Altro che sinistra moderata o radicale, campi larghi o orticelli, il destino di Renzi e quello della Raggi… Epperò.
Epperò dobbiamo agire nel presente per costruire il futuro. Il 4 dicembre rappresenta il punto di svolta di una tendenza pluriennale della politica italiana: l’idea che la governabilità è più importante della rappresentanza, la vocazione maggioritaria come diritto di una minoranza che non riesce a conquistare la maggioranza dei consensi popolari a diventare maggioranza per legge, un Partito incolore che, assemblando componenti storiche diverse, pretende di diventare il centro unico del sistema politico e poi, come evoluzione naturale, il passaggio dal partitone solo al comando all’uomo solo comando.
La riforma costituzionale e la legge elettorale non erano che il punto di arrivo di questa pericolosa perversione democratica. La risposta negativa degli italiani è stata la pietra tombale su quel progetto.
Quindi una crisi specifica quella italiana, ma nel mezzo di una Europa con spinte a destra che si allargano e fermenti a sinistra che stentano a fare massa critica.
Al congresso di Rimini abbiamo visto tanti giovani, una bella discussione, tanto entusiasmo. Quelli che chiamammo cosmopolitani tentano di dare l’assalto al cielo. Ma l’orizzonte non si vede ancora.
A diradare la nebbia di cui ha parlato Cofferati, penserà il tempo. Serve, però, che le tante energie che si sono mobilitate nel referendum provino a soffiare insieme. Per aiutare il vento della storia.
QUALCOSA SI MUOVE
MA ABBIAMO UN PROBLEMA,
IL LEADER CHE NON C’È
di Tonino Perna
«Sinistra. Ci servirebbe un Alexis Tsipras capace di cucire le diverse anime in un paese con una tradizione di scontro nella sinistra storica e nuova»
«C’è vita a sinistra» scrive Norma Rangeri nel suo editoriale sul nuovo scenario politico italiano. Dovremmo dire «Grazie Renzi» perché se non avesse sofferto di onnipotenza, attaccato la Costituzione per un plebiscito personale e giocato il tutto per tutto, non avremmo visto questo risveglio. Ma abbiamo di fronte una grande questione anche se facciamo finta che non esista.
In una recente intervista su questo quotidiano Rossana Rossanda ad un certo punto faceva un’osservazione che, a mio avviso, è centrale in questa fase storica: «Penso che oggi ci sia un bisogno spontaneo della gente di avere più una persona a cui collegarsi che un’idea.
Ripenso a quando, all’inizio della storia del manifesto, noi 3 o 4 più in vista, sicuramente avevamo molto difetti, ma non la superbia del personalismo». In queste poche battute è racchiuso un passaggio epocale.
Ricordo che una decina di anni fa, a cena conversando con la giornalista e scrittrice Adele Cambria, una persona che ha dato tanto al femminismo quanto alla mia terra, le esposi le ragioni e gli obiettivi della nascente Sinistra Euro Mediterranea, e lei mi chiese, gelandomi: ma il leader chi è?
Nella rivoluzione culturale del ’68, come nelle lotte sociali degli anni ’60 e ’70, c’erano tanti leader di movimento, di gruppi e gruppuscoli della sinistra extraparlamentare, ma l’adesione ad un movimento o a un partito avveniva sul piano ideologico prima di essere il frutto di una identificazione personale.
Anche nel grande Pci sicuramente Togliatti aveva un carisma ed una naturale leadership che non aveva Longo, ma non per questo il partito si dissolse alla scomparsa del «Migliore».
Oggi, anche se non ci piace, la gran parte delle nuove forze politiche si costruisce sulla figura del leader che a sua volta è in buona parte modellato dai mass media.
Per l’appunto è quello che Mauro Calise ha chiamato Il partito personale così come ha recentemente intitolato il suo ultimo saggio La democrazia del leader, una forma di democrazia che non ci piace affatto ma con cui dobbiamo fare i conti.
Dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso c’è stato un mutamento culturale radicale già intuito e denunciato con grande acume da Christopher Lasch nel testo che lo ha reso famoso, La cultura del narcisismo, accompagnato da un sottotitolo profetico: «L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive».
È in questa dimensione esistenziale che la ricerca del leader come punto di riferimento manifesta, allo stesso tempo, il bisogno di una guida che dia un orizzonte ed una speranza in un’epoca di «disillusioni collettive» ed il bisogno di fuggire dalla propria responsabilità/ impegno per cambiare la società.
La creazione di un partito o forza politica della Sinistra non potrà non porsi questo problema, che può anche essere affrontato nella sua migliore accezione. Vale a dire: la ricerca di un leader capace di cucire le diverse anime, culturali prima che politiche, del nostro paese. Con alcuni valori forti quali l’uguaglianza, la solidarietà, la pace ed il rispetto della natura.
È quello che hanno fatto Syriza ed il suo leader Alexis Tsipras in un paese con una tradizione di scontro tra le diverse anime della sinistra storica e nuova.
Ed è quello che ci auguriamo nasca anche nel nostro paese, ma che non può essere il frutto di meri accordi di vertice. D’altra parte, sappiamo bene che una forza autenticamente di sinistra nasce all’interno della sfera sociale, nelle forme dell’altreconomia e, soprattutto, nei momenti storici di mobilitazione e conflitto.
Il periodo migliore di Rifondazione comunista seguì ai fatti di Genova del luglio 2001.
In quel violento scontro, carico di torture, pestaggi e violazioni dei diritti umani fondamentali, nacque una generazione politica nuova che riempì le file di quel partito che Fausto Bertinotti, ultimo leader della sinistra radicale, aveva aperto al movimento Noglobal, che marciava contro i Grandi del G7.
Per questo la ricerca di un leader-regista, capace di unire e portare a sintesi le diverse spinte non può prescindere dalla costruzione di movimenti dal basso che lottano e si impegnano, sul piano locale-globale, nella costruzione di una cultura ed una pratica quotidiana alternativa a questa società capitalistica sempre più distruttiva dei legami sociali e degli ecosistemi.