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Andrea Ferraretto
Dopo il 10 aprile 2006 quale politica per le infrastrutture?
10 Giugno 2006
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Dopo il "contratto con gli italiani" e le Grandi Opere: l'intervento riassume alcuni punti utili per un governo più saggio e moderno di quello che abbiamo abbandonato

Uno dei temi sui quali si è maggiormente insistito durante la campagna elettorale che si è da poco conclusa è quella relativa alla costruzione delle grandi opere, indicate come soluzione obbligata per innovare e ammodernare il nostro sistema economico.

Cosa è necessario comprendere per analizzare il Piano delle grandi opere? E, soprattutto, cosa è implicitamente inteso con un piano di grandi opere?

- con la definizione “apertura dei cantieri” non si considera l’effettiva realizzazione dell’opera;

- con le opere previste dal Piano decennale delle Grandi opere si stanno producendo due effetti: si sta nascondendo debito pubblico; si stanno accumulando ingenti debiti per il futuro.

I problemi posti da una politica delle infrastrutture

basata sulle aperture dei cantieri

Dall’analisi dello stato di attuazione del Piano delle grandi opere (cfr. L. Ricolfi, Tempo scaduto. Il «Contratto con gli italiani» alla prova dei fatti, Il Mulino, 2006) è opportuno trarre alcune conclusioni relative, più in generale, alla politica adottata dal Governo Berlusconi in materia di infrastrutture e, soprattutto, di politica dei trasporti:

A) Un problema di sostenibilità economica, posto dal fabbisogno delle risorse necessarie a realizzare le opere inserite nel Piano, che, stimato nel 2001 era pari a 126 mld di Euro, è oggi, nel 2005, stimato in 250 mld, a fronte di risorse già stanziate fino al 2005, pari a 20 mld (Ricolfi p. 97). A questo proposito Ricolfi propone una stima del fabbisogno per il periodo 2006-2016 con evidenti aggravamenti del bilancio dello Stato e il rischio di non poter rivedere le opere inserite nel Piano a meno di accettare di versare penali a favore dei soggetti che si sono aggiudicati le commesse.

Si è, di fatto, ipotecato circa l’1% del PIL per i prossimi 10-15 anni, escludendo la possibilità di rendere realmente strategico il Piano delle opere, funzionale ai fabbisogni del Paese. (a questo proposito si veda Marco Ponti, Grandi infrastrutture e granitiche certezze, in www.lavoce.info, ).

B) Un problema di sostenibilità ambientale, dato che acquisisce come obiettivo soltanto le “grandi opere” contenute nel Piano decennale, evitando di affrontare la materia delle infrastrutture con un approccio che consideri la mobilità come una priorità fondata su un mix di strumenti.

Si è deciso di puntare su “grandi opere”, di difficile realizzazione e, soprattutto come evidenziato dal punto precedente, con un pesante fabbisogno di risorse. Manca una visione che consideri le infrastrutture non soltanto come un grande “appalto” ma con un’azione continua, costante, dove la manutenzione, l’ammodernamento, la messa in sicurezza, sono aspetti da non tralasciare. In aggiunta a questa distorsione, culturale e di visione, è da evidenziare come per la realizzazione delle grandi opere siano state adottate normative di accelerazione e di semplificazione dei controlli e delle valutazioni: con la Legge-obiettivo le “grandi opere” sono state sottoposte a una Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) attraverso i soli progetti preliminari, privi delle descrizioni tecniche necessarie per valutare effettivamente impatti e pressione.

Conclusioni (con un warning sul futuro)

Un problema, più complessivo, di gestione delle commesse pubbliche, di valutazione e di monitoraggio delle opere commissionate e, soprattutto, di reale attuazione di quanto dichiarato dovrebbe essere posto all’attenzione .

Il recente saggio di Nicola Rossi, Mediterraneo del Nord (Laterza, 2005) è molto interessante, sotto questo punto di vista. Molte azioni, finanziate anche con i fondi strutturali, risultano avviate, cantierate, ma alcune non sono completate, alcune sono ferme, alcune non corrispondono ai progetti.

Questo punto è di particolare interesse perché pone l’accento su una questione molto più diffusa e complessa del solo Piano delle Grandi opere. Si tratta infatti di comprendere come sono stati spesi fondi, nazionali e comunitari, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno, con quale grado di raggiungimento degli obiettivi prefissati e in coerenza con quanto viene esposto in rapporti ufficiali pubblicati dal Ministero dell’Economia, Dipartimento politiche di sviluppo.

Sarebbe utile, a questo punto, compiere un’analisi più complessiva, non soffermando l’attenzione alle sole “grandi opere” ma, verificare tutta la politica di investimento compiuta dal Governo nel periodo 2001-2006, anche in rapporto alla Programmazione dei fondi strutturali 2000-2006, che, soltanto per l’Obiettivo 1 (6+1 regione), ammontavano a 51 miliardi di Euro.

Il lavoro svolto da Nicola Rossi e, soprattutto, la necessità di considerare l’esperienza della programmazione 2000-2006 per introdurre miglioramenti e una maggiore efficienza dei programmi, in vista dell’avvio del periodo di programmazione 2007-2013, rappresentano due punti da non mettere in secondo piano, nella fase attuale.

Esiste il rischio che, a fronte di risorse più scarse, per il necessario riallineamento con i parametri di stabilità, una quantità di risorse consistenti risultino ipotecate in programmi infrastrutturali né coerenti con le linee di governo né con l’esigenza di innovare le politiche della mobilità e di aumentare l’efficienza energetica.

Infatti nel 2007-2013 le risorse messe a disposizione dell’Italia dall’Unione europea saranno in quantità inferiore, in considerazione dell’avvenuto allargamento dell’Unione da 15 a25, a 27 (dal 1° gennaio 2007) paesi membri e in virtù dell’accordo siglato dal Consiglio europeo del 15 dicembre 2005.

Appendice per future riflessioni:

… tante piccole opere, per rendere competitiva l’Italia

In conclusione una riflessione, non solo di sostenibilità ambientale, ma con riflessi sulla competitività reale dell’Italia e sul grado di inclusione sociale che può essere inserito tra gli obiettivi di una politica di opere pubbliche.

Le grandi opere, le infrastrutture di trasporto per esempio, il TAV (e non la TAV), hanno un’utilità se il rapporto costi-benefici è realmente in grado di indicare vantaggi per la collettività e per il sistema economico, comprendendo elementi che non siano esclusivamente quelli legati all’opera in sè. Questo approccio consente di comprendere l’effettiva utilità di proporre il rilancio del settore della produzione di energia elettrica con fonti nucleari: il costo da considerare è solo quello del Kw prodotto o devo considerare costi ambientali, sociali, di smaltimento delle scorie, di messa in sicurezza del sito, … ?

Il settore delle opere civili è tecnologicamente maturo (cfr M. Ponti), con tempi di realizzazione e oneri finanziari difficilmente sopportabili, impatti ambientali perlomeno discutibili.

Ben diversa potrebbe essere una strategia di mobilità che punti a rendere efficiente il sistema, nel suo complesso, prevedendo forme di intermodalità, di connessione tra linee veloci e linee di trasporto locale, di trasporto e logistica delle merci, di interventi volti a ridurre il traffico di veicoli nelle aree metropolitane.

Il quadro delineato oggi, con il Piano decennale è strettamente vincolato a grandi opere con un orizzonte temporale di oltre 10 anni: significa, in altri termini, legare il futuro dell’Italia, delle occasioni di innovazione e di competitività a un periodo lungo, durante il quale continuare a scontare ritardi e assenza di collegamenti.

Il 19 gennaio, sul Corriere della Sera, Francesco Giavazzi, ha pubblicato un editoriale “Meno ponti più taxi”: chiedendo l’individuazione di priorità su quali opere siano realmente necessarie e se sia opportuno adottare, per esempio, anche la liberalizzazione delle licenze di taxi a Roma, oltre ad aspettare 10-15 anni per risparmiare un’ora di viaggio tra Milano e Roma.

Questo è il punto sul quale è opportuna una riflessione: le opere pubbliche non devono essere, necessariamente, grandi, costose e inutili.

È inutile viaggiare con un treno veloce, tra due città, quando solo una minima parte della rete è a doppio binario, una parte non è neppure elettrificata e considerata ramo secco, da tagliare.

È altrettanto inutile considerare il grado di attuazione di un’astuta promessa firmata nello studio televisivo di Porta a Porta se rapportato ai disagi e ai rischi di chi si trova, oggi a viaggiare sull’autostrada Torino-Milano, oppure con chi ha perso la vita a Crevalcore o a Roccasecca.

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