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Vincenzo Cabianca
Documenti su vent'anni di utopia urbanistica a Siracusa
3 Ottobre 2014
Libri da leggere
Pubblichiamo la bella introduzione del libro

Pubblichiamo la bella introduzione del libro Documenti su vent'anni di utopia urbanistica a Siracusa Tra neoilluminismo e neoromanticismo, (La casa del nespolo Roma 2013). E' anche un augurio, per il prossimo novantesimo compleanno del nostro giovane amico Cenzi

Il recente riconoscimento di Siracusa nella Heritage List del Patrimonio Unesco dell’Uma-nità è una conferma a posteriori della linea sostenuta fin dagli anni del concorso e del primo Piano Regolatore del primato dei Beni Culturali nella costruzione del piano, ed è con questa se-conda luce che può essere letta questa premessa ai documenti criticamente raccolti e ordinati a cura del dott. Giuseppe Palermo, a illustrazione delle vicende 1952-1972 della battaglia per Siracusa ed in particolare per un piano basato con rigore di imperativo categorico sul primato a livello mondiale dei suoi Beni Archeologici, Culturali e Ambientali di cui mi avvio a darVi alcuni cenni, a richiesta dello stesso curatore.

Ora Vi racconto come è nata questa pubblicazione.

È venuto a trovarmi a studio il dott. Giuseppe Palermo, impegnato defensor del patrimonio culturale di Siracusa. Mi ha detto che aveva in mente di dar vita, per distinguere i fatti dalle opinioni, ad una collana destinata a pubblicare documenti del dibattito pubblico (articoli di giornali e riviste, delibere di Enti Pubblici etc.) relativi alla prima grande guerra sul Piano Regolatore di Siracusa (1952-1972): una parte con i testi del Cabianca, una con quelli di Luigi Bernabò Brea, un’altra con quelli di Michele Liistro, documenti che affiancano ed integrano una importante letteratura storico-critica relativa agli stessi anni, a partire da I guasti di Siracusa di S. L. Agnello e C. V. Giuliano.

Mi ha chiesto se avessi qualche altro documento oltre a quelli già da lui accurata­mente raccolti e trascritti. Abbiamo verificato che, salvo l’introvabile re­lazione finale al primo Piano Regolatore Generale, lui aveva già tutto.

Mi ha chiesto di scrivergli una presentazione. Nell’accettare, mi sono ricordato dei versi studiati al liceo, la frase che Enea in riva al mare premette al racconto a Didone della caduta di Troia: “Infandum regina iubes renovare dolorem, troianas ut opes et lamentabile regnum eruerint Danai…”. Mi sono ricordato del disegno fatto da Enea con una canna sulla sabbia della topografia dell’antica Troia, degli accampamenti, degli Achei, dei luoghi delle battaglie e della frase finale, quando Enea dice a Didone: "Guarda, o regina, come un’onda del mare, in una volta sola, ha cancellato tutto, ha cancellato tanta gloria e tanta storia…”.

Questo pensiero mi ha richiamato al dovere e così ho molto ringraziato il dott. Palermo per il suo senso civico e ho scritto questa breve premessa ai documenti da lui raccolti.

La mia età si avvicina ai novant’anni. Ho vissuto, per quasi un secolo, illuministi­camente, una vita che si illuminava nella progettazione, nel pensare strutturalmente processi, nel disegnare spazialmente piani che configuravano il cammino verso traguardi di assetti spaziali che, a loro volta, cercavano di rappre­sentare olograficamente obiettivi di evoluzione, di organicità complessiva. La storia, la cultura umanistica e quella scientifica confluivano nei colori dello zo­ning e dei tessuti per armonizzarsi progressivamente nella vita in un processo di futuro coevolutivo dell’uomo nella sfera biologica, ecologica e psicosociale dell’umanità.

Una visione che configurava utopia di assetto e di rapporto e di strutture a tutte le scale, de-duttivamente, da quelle continentali a quelle nazionali, regionali, territoriali, comunali, particolari, in un paesaggio di scenari caratterizzato dal passaggio di Zeitgeist, dalle religioni ancora e sempre alla ricerca di scorciatoie fideiste inventate e di postulati di comodo, ad un nuovo mondo governato dalla filosofia del piacere e dalla religione della conoscenza e dell’etica del metodo scien-tifico.

Ricordo che attendevamo sempre con ansia l’uscita del nuovo numero della rivista Urbanistica, con le immagini degli scenari di frontiera culturale urbanistica sui quali contendere e, rispetto ai quali, non essere mai in posizione arretrata. Tutto questo è svanito e la società ha subìto, assistendovi quasi senza oppo­sizione, il compier-si lento di un tale tramonto dei valori del Pubblico, della Pianificazione, della Programmazione dell’Urbanistica, della Politica di Piano, in favore della navigazione a vista nello spazio finanziario, di rimedio in rimedio, in progressione negativa, che ora, nell’anno 2012, quasi debbo vin-cere un certo pudore che vorrebbe trattenermi mentre scrivo queste cose pensando alle certezze di allora. Oggi l’urbanistica è uscita dal calendario politico a tutti i livelli di governo, mentre l’economia è divenuta diseconomia che vive della deregulation generale.

Oggi la finanza ha contagiato e fortemente intaccato – se non ancora travolto – il mondo del lavoro e della ricerca dello Stato di diritto, delle certezze delle logiche dei piani che non hanno più quella meravigliosa centralità sulla quale si scrivevano e perseguivano le Costituzioni e le loro progressive attuazioni, mentre la specula­zione non ha più nulla da temere da parte dell’urbanistica perché ridotta a un set­tore tecnico, senza ambizioni di governo degli interessi generali, perché l’urbanistica è diventata una parola vana, un atto formale per legalizzare a poste­riori, con nuove denominazioni, nuove forme delle antiche “lottizzazioni convenzionate”.

L’urbanistica per me, allora, era un’urbanistica dello spazio e del tempo, era la componente e la proiezione territoriale di una pianificazione generale che cercava di essere come una sinfonia, un processo dialettico che aveva un traguardo di armonia spazio-temporale e socio-culturale generale indicato come riferimento al quale conformare gli interventi nel tempo.Era una dichiarazione d’amore per un territorio e per una società. Allora tutto in me era diverso.

L’incontro operativo con l’archeologia, la storia e, ad un tempo, con la geomorfologia significante della più vasta storia geologica, avvenuto subito dopo la laurea, in occasione della meravigliosa esperienza del concorso del 1952 per il Piano Regolatore di Siracusa, in un momento in cui cominciava a lievitare anche in Italia l’idea dell’advocacy planning, mi hanno acceso da allora nella mente un “epigenoma” particolare e determinante, un “genearchitetto” che mi fa gerarchizzare e privilegiare nel processo progettuale la matrice antica, il Dna storico-culturale, sotto le immagini delle città.

La partenza del ragionamento è questa: perché i Greci si erano insediati a Siracusa? Il Porto Grande era il miglior porto del Mediterraneo e in più aveva la preziosa “vasca di oscillazione” del Porto Piccolo, l’Ortigia e l’Epipoli erano la più difendibile fortezza naturale perimetrata dalle falesie marine sollevate dalla neotettonica pleistocenica, l’Epipoli era vasta e poteva, una volta fortificata, anche ospitare i pascoli per il bestiame per la popolazione in caso di assedio. Non c’era situazione migliore per un insediamento autarchico in caso di pericolo, il tutto al centro di un Mediterraneo, che era allora il grande mare centrale del mondo antico, al confine tra le aree d’influenza tra le due grandi civiltà in conflitto, tra l’impero persiano e il mondo greco con tutte le sue colonie che si sviluppavano fino oltre le Colonne d’Ercole.Vi erano poi altri motivi: la stratigrafia geologica portava l’acqua potabile a domicilio in forma artesiana fino all’Ortigia, un vero dono dagli Dei.

Queste fondamentali componenti hanno dato a Siracusa il ruolo straordinario che ha avuto nell’antichità, e ad un tempo costituiscono ancora le risorse dell’armatura culturale per un nuovo piano.

Un urbanista è un direttore d’orchestra o meglio un compositore che ha davanti a sé infiniti elementi da armonizzare tra la città di pietra, le città della storia e la città dell’uomo, con vincoli da trasformare in risorse, tra storia e progetto, e il piano disegnato è un’olografia nella quale la quarta dimensione del tempo, del futuro è olograficamente racchiusa nella semiologia bidimen-sionale della sua rappresentazione. Quell’epigenoma, quello spartito, quella ouverture sono stati un imprinting che ha generato una matrice da rappresentare subito, da evidenziare.

La morfologia del porto e del rapporto con il mare, da evidenziare con l’azzurro e i significati geomorfologici della geodinamica del territorio, a loro volta matrice della geostoria dell’insediamento umano. A terra, i “significanti” archeologici della città magnogreca, da evidenziare con il rosso, con il colore più evidente e semiologicamente più significativo della sua importanza gerarchica all’interno di un connettivo verde, di un fiume verde di distacco esaltante e gerarchizzante che ne indica una presenza a livello di alta sacralità, di uno “status” di santuario, di tesoro da custodire, di ritrovamento di tracce di un ordine superiore scritto dal comandamento fatale che si ripete: “antiquam exquirite matrem”.

Questa visione alla Winckelmann ha reso particolare il piano di Siracusa fin dalla sua prima formalizzazione. Nel piano di concorso aleggia uno Zeitgeist di neoclassicismo che il disincanto del tempo ha fortemente venato di romanticismo. Da questo discende il titolo, che vuole rappresentare la presenza nel piano di un neoromanticismo molto connotante con cui leggere il tutto e di un neoillu-minismo dal quale discende la forza di un imperativo categorico, etico ed estetico, del primato dei Beni Culturali nelle scelte del piano.

Un secondo elemento è infatti il neoilluminismo. Io sono un fanatico della semiologia e delle evocazioni simboliche delle forme urbane a tutte le scale. Come nel Castello dei destini incrociati di Calvino, vedo l’esistenza criptica di un secondo sistema sotto le cose, di segni simbolici forti e a volte configuranti; vedo nell’interpretazione la simbologia affiorante geomorfologica che anticipa i segni antropici dell’architettura e dell’urbanistica indotta dalla loro morfologia. Quindi il secondo elemento che sono portato ad enfatizzare in una terza dimensione è l’interpretazione geodinamica delle geomorfologie del paesaggio, alle quali si appoggia la morfologia del segno archeologico per via dell’economia dell’urbanistica antica sottostante. Un sistema insediativo molto coerente, molto appoggiato al sistema naturale, soprattutto nei sistemi difensivi. Sistemi difensivi che per la loro robustezza, estensione ed esposizione, sono spesso i segni archeologici più evidenti. Mi riferisco al sistema delle falesie di bordo dell’Ortigia, dell’Epipoli sollevate dall’uplift della neotettonica pleistocenica e del circuito delle mura dionigiane.

Nei lunghi periodi durante i quali sono arrivato a Siracusa e non più ripartito, ho vissuto nella foresteria del sottotetto della Soprintendenza, in una stanzetta con l’affaccio sul Porto Grande, con Erodoto e Tucidide sul comodino. Era la letteratura antica che mi dava la forza di combattere. L’ulteriore elemento è costituito dall’idea della democrazia di procedimento, di costruzione democratica del piano in dialogo con i cittadini attraverso la stampa, in colloquio continuo, con un invito al confronto e all’arricchimento delle idee e delle proposte.

Studiando Siracusa sotto tutti gli aspetti, integrati tra loro, da quelli storici a quelli geologici, da quelli fisici a quelli letterari ero divenuto Siracusano, profondamente, appassionatamente Siracusano.

Con queste tre dominanti, il modello di sviluppo urbano proposto dal P.R.G. – condizionato ulteriormente dal ruolo strategico molto rilevante del piano di industrializzazione del Mezzogiorno con fondi Casmez – ed il suo processo di formazione sono stati segnati dalla geomorfologia del porto e dalle falesie dell’Epipoli, dall’archeologia dell’impianto urbano classico al momento del suo massimo splendore – anch’esso fortemente coniugato con la base geomorfologica –, dalla convinta gestione della formazione del piano con un processo di confronto continuo col pubblico attraverso la stampa.

In quel primo periodo postbellico la risorsa più facile e la più diffusa per le economie locali era costituita dalle rendite edilizie parassitarie di posizione urbane in assenza dei piani regolatori da una parte e, dall’altra, e per la economia di livello superiore, dai grandi insediamenti industriali inquinanti dei semilavorati dell’industria del petrolio, con uno sviluppo basato sull’illusione dello sviluppo dei loro indotti, dalle industrie petrolchimiche, dalla mitologia di quelle siderurgiche e dalle fabbriche, molto concrete, del cemento. Tutto questo era un frattale della grande storia che avveniva nel mondo, e a livello nazionale era segnata dagli anni del Centrismo, e poi del Centro Sinistra e della politica di piano in un breve periodo di utopia della seconda metà del XX secolo.

È subito evidente quali fossero i termini delle conflittualità urbanistiche tenuto conto delle alleanze di sostegno politico-finanziarie fra proprietari dei suoli, partiti politici, Cassa per il Mezzogiorno; tra diversi supporti ideologici, guerra fredda, dominanza nazionale e locale della Dc, scelte politiche industriali sbagliate e molto influenzate dai finanziamenti ai partiti, assenza nel dibattito, fino all’inizio degli anni ‘70, della componente ecologica, dei Beni Culturali, ancora senza un proprio Ministero ed ancora legati a quello della Pubblica Istruzione, carenza di livelli di pianificazione strategica almeno sovracomunali etc., ministri che appena toccavano il tema della riforma urbanistica uscivano di scena come il povero Fiorentino Sullo.

Questa era la situazione nella quale il progetto di Piano Regolatore ha messo in campo negli anni ‘50, “spes contra spem”, una proposta di urbanistica basata sull’economia dei Beni Culturali, di armatura culturale del territorio, di difesa e sviluppo ecologico-culturale, di advocacy planning sulla stampa locale con invito alla popolazione ad esprimersi, valutare, proporre, per dare “gambe” al piano.

In quel periodo Astengo progettava il piano di Gubbio con la stessa matrice mentale, mentre la rivista “Urbanistica”, con valenza culturale e diffusione nazionale ed internazionale, supportava il nostro tentativo pubblicando ampiamente il piano, ambitissimo privilegio culturale per l’urbanistica di allora.

Non era ancora diffuso e all’ordine del giorno il concetto strutturale di “sostenibilità” tra fattibilità e automantenimento coevolutivo con il contesto, mentre il rischio di autodistruzione delle risorse era evidentissimo ed il progetto del Piano Regolatore era proprio volto prioritariamente ad un generale rafforzamento preventivo e permanente del sistema immunitario per una vasta tutela dei Beni Culturali di Siracusa.

I miei colleghi Lacava, Roscioli ed io avevamo la responsabilità, inizialmente collegiale, del piano di Siracusa, ma i tempi dei treni (a Catania finiva la trazione elettrica), i costi degli aerei, una situazione conflittuale nella quale per l’Amministrazione Comunale il Piano Regolatore era sostanzialmente un fastidioso obbligo di legge e un’occasione di contrattazione partitico-elettorale, ad un tempo altri importanti concorsi vinti, relativi ad altri Piani Regolatori, portarono alla decisione dello studio che fossi io ad assumere le responsabilità per Siracusa.

A Siracusa io avevo ricevuto l’incarico da parte della Soprintendenza alle Antichità e della Cassa per il Mezzogiorno – il sublime incarico – di sistemazione della Neapolis con il Teatro Greco, l’Ara di Jerone, l’Anfiteatro Romano, le favolose latomie, l’Orecchio di Dionigi… È chiaro che con simili presenze esemplari ed una tale occasione operativa, il modello generale del piano era ulteriormente volto alla centralità di ruolo e d’attenzione alla difesa dei Beni Culturali e Ambientali e, insieme, alla democrazia di procedimento per la sostenibilità dell’operazione che comportava grandi espropri, naturalmente osteggiati dalle forze politiche, dalla Cassa per il Mezzogiorno, da tutti.

Gli elementi di importanza ed interesse che si collocavano a livello mondiale erano per noi le carte da giocare. Il resto era importante ma subordinato a questi aspetti che contavano ancora di più. Da tutto ciò è nata la conflittualità con chi prevedeva insediamenti con localizzazioni che implicavano il coinvolgimento dell’Epipoli ancora intatta nella sua parte mediana e superiore. Conflittualità che ovviamente s’intrecciava fortemente con la storia politica di quegli anni, i rapporti politico-finanziari tra amministratori ed acquirenti della grande proprietà fondiaria periurbana lottizzata o lottizzabile e politici consorziati nelle due correnti della Dc e relativi clienti e satelliti.

Un piano era visto come un’immagine, una bussola sistemica, anche esteticamente valutabile, di una nuova città ideale divenuta sistema territoriale, armoniosa a tutte le scale, un mondo quale si vede in uno zoom, come in una ripresa multispettrale di un satellite che si allontana dalla terra, che legge ed interpreta realtà ed interazione nel fisico e nel sociale, con la semiologia dell’ordine e del disordine significante nelle immagini, nei colori e nella composizione di tessuto delle zonizzazioni, con zone omogenee sempre più frattali per ricchezza di disomogeneità integrate.

Il piano doveva essere leggibile come lo spartito di una musica di raggiunta integrazione funzionale in una variazione fatta sempre di nuovi stati di equilibrio, armonici potenziali; nel piano doveva essere leggibile la qualità di coerenza con la geomorfologia della natura, la quantità e la qualità e la accessibilità alle attrezzature di tutti i livelli, ai servizi, la loro quantità ed integrazione nei tessuti, le dominanti di produzione e le dominanti di civiltà, la qualità politica e la qualità sociale delle proposte, le qualità estetiche in armonia con i contesti di scenario am-bientale.

Ricordo che allora, soprattutto alla fine degli anni ‘60, nell’ultima nostra edizione del piano, quello redatto in collaborazione con gli architetti siracusani Liistro e Santuccio, – cooptati a mia richiesta nell’équipe del piano per garantire un rapporto qualificato, diretto con la città nel brevissimo tempo concesso –, pensavamo pienamente in termini di modelli europei e di modelli nazionali. Questo avveniva nell’enfasi della conoscenza del “Progetto ‘80” – alla cui costruzione io partecipavo proprio come responsabile del Mezzogiorno e del settore dei Beni Culturali e Ambientali –, del modello per l’Italia del futuro, degli anni ‘80, per conto del Ministero del Tesoro e della Programmazione Economica, nel quale il sistema Siracusa-Augusta era un modello “P”, cioè Modello Programmatico di Area metropolitana (cfr. “Progetto ‘80”) di grande rilevanza.

Pensavamo a modelli territorializzati dei sistemi urbani di insediamento territoriale storici, attuali, di tendenza, da interpretare e valutare, patologici da contrastare, programmatici da promuovere, pensavamo a modelli con gerarchie urbane, metropolitane e ad armature culturali del territorio, a sistemi del verde a tutti i livelli, dai parchi nazionali agli standard del verde comunale, a sistemi infrastrutturali intermodali, integrati, portuali, ferroviari, autostradali, aeroportuali, ai grandi nodi infrastrutturali di scambio. Ricordo il sistema portuale nazionale nel quale la rada di Augusta aveva un grandissimo ruolo perché era l’unico grande porto con fondali così alti da poter ospitare le megapetroliere che doppiavano allora il Capo di Buona Speranza, perché il Canale di Suez era chiuso per il conflitto arabo-israeliano.

Ricordo che Siracusa, con il grande quieto bacino del suo “Porto Grande”, diveniva il più grande porto per la navigazione sportiva a vela del Mediterraneo centrale. Si poneva il problema di far rivivere uno dei più grandi porti velistici dell’antichità, senza però consentire che le attrezzature dei marinas divenissero germi e cavalli di Troia per grandi complessi alberghieri e poli di attrazione economica per grandi capitali internazionali di riciclo in cerca di investimenti, di grandi avventure speculative fondiarie, legate al settore edilizio. Era un tema delicatissimo, tra integralismo culturale e giustificato timore di travolgimenti speculativi.

Avevamo nel nostro modello nazionale ridotto strutturalmente nel rapporto residenza-lavoro gli sprechi di tempo – di oltre un’ora al giorno in media per ogni unità lavorativa – dovuti a contraddizioni e disordine territoriali, il che avrebbe aiutato a mettere il Paese in condizioni competitive, risanato il mercato del lavoro, portato equità e giustizia sociale nel meccanismo social-produttivo, liberando fondi per la ricerca, l’innovazione, la produttività.

La cultura e la formazione, la ricerca scientifica erano in primissimo piano con il sistema di “Armatura Culturale del Territorio”. Ogni cosa aveva obiettivi territorializzati e peso ben definito nel bilancio generale.

Il sistema autostradale era tutto pedemontano e con un modello a pettine serviva le coste in modo da renderle tutte pubbliche e accessibili, con una precisa esclusione di litoranee costiere. Il sole del Mezzogiorno diveniva così una risorsa concreta per un’enorme offerta per il turismo europeo. Eravamo esaltati da queste idee che stavamo tutte inserendo anche territorialmente nel “Progetto ‘80”.

Ma tutto questo non trovava riscontro nella potente maggioranza politica dalla quale, per via del Concorso Nazionale vinto a suo tempo, avevamo ricevuto l’incarico.

Ora debbo fare una confessione laica. Di fronte al sonno, all’inerzia, all’opposizione miope e meschina degli interessi della classe democristiana che occupava tutto il potere e che però, a sua volta, non contava nulla a livello regionale dominato dalla Dc palermitana, alla fine, dopo la consegna dell’edizione finale del 1970, all’ostilità avvilente e inconcludente dell’Amministrazione committente, non ebbi la forza civile di proseguire. Avevo appena ottenuto l’incarico universitario a Palermo, ero impegnato nel Direttivo dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, ero all’opera per il “Progetto dell’Italia degli anni ‘80”, ero impegnato nella progettazione di tutti i musei della Libia, lasciai tutto nelle mani dei miei due valorosi colleghi Liistro e Santuccio, che nel frattempo stavano divenendo due importanti docenti nelle facoltà di Architettura di Roma nell’ambito dei gloriosi Istituti di due grandi maestri come Piccinato e Carbonara e si sentivano ancora in grado di fronteggiare eroicamente la situazione del 1970.

Cosicché quando l’ultima edizione del piano del 1970, dopo un lungo tempo dalla consegna, andò in Consiglio Comunale per l’adozione, c’era ancora la mia firma per lealtà e per riguardo verso i miei colleghi, ma in realtà non controllavo più la situazione. Ci fu persino impedito di fotografare l’edizione finale del piano, unica a colori (a quei tempi si usava l’acquarello) esposta al pubblico, che nell’ansia ed urgenza della consegna, anche per difficoltà di dimensioni, supporti etc., non avevamo fatto in tempo a fotografare a studio, prima dell’imballaggio!

Il sindaco Dc Giuliano era un ex magistrato, pieno di un grandissimo senso dell’umorismo, che utilizzava anche nell’affrontare i problemi più gravi. Ogni volta, travolgeva il contenuto delle nostre formulazioni delle norme tecniche dicendo con accento severo che l’interpretazione degli autori era un’interpretazione rispettabile, ma le sue tortuose e finissime interpretazioni alla rovescia erano altrettanto valide. L’Assessore all’Urbanistica, il dottor Rizza, fu addirittura invitato a ripudiare il piano sotto la minaccia di espulsione dal suo partito, dalla Dc.

Aveva sempre correttamente difeso l’autonomia del Piano Regolatore dai suoi colleghi di partito, dalla stessa Amministrazione – la quale esprimeva interessi tutt’altro che generali –, ma era in minoranza, isolato dalla corrente interna rivale e dominante.

Tutta la mia energia mentale di urbanista, come dicevo, si stava trasferendo sul livello nazionale e regionale, concentrandosi sugli studi per il “Progetto ‘80”. L’interesse locale della Giunta era tutto concentrato non sul piano in generale ma su operazioni edilizie ben rappresentate e leggibili chiaramente sulle varianti integrative che furono introdotte dalla Amministrazione stessa in sede di adozione, dando luogo ad una contemporanea adozione del piano e di un antipiano, per cui alla fine, leggendo le osservazioni di “Italia Nostra”, sentivo e manifestavo tutta la condivisione ed immedesimazione in quelle formulazioni, cosicché tutti conclusero che le avevo redatte io stesso.

Mi stupisco, dicevo, della forza di utopia che aveva preceduto e accompagnato quelle vicende, rischiando però alla fine di coinvolgermi in problemi di gestione e mediazione del piano, nel vano tentativo di salvarlo da continui tentativi e richieste da parte dell’Amministrazione di modifiche sconvolgenti.

Ma gli interessi locali erano tutti concentrati sulle integrazioni da adottare contestualmente al piano, che noi avevamo rifiutato di introdurre nei disegni di progetto e nella normativa, che l’Amministrazione presentava a tutti i costi sotto forma di urbanistica scritta poi rifiutata dalla Regione Siciliana in sede di esame per l’approvazione.

Ammiro ancora una volta i due valorosi colleghi e professori Liistro e Santuccio, che mantennero i rapporti con l’Amministrazione forse anche in virtù dei legami di sangue con la città, dato che entrambi erano Siracusani anche per nascita oltre che per amore e per cultura.

* * *

Ora che tutto questo è svanito, che i protagonisti della politica di allora sono divenuti consumati attori pieni di rancori e disillusioni, attori che si arrabattano sul palcoscenico politico ben consapevoli di essere ormai destinati a non essere ascoltati mai più, leggere questa raccolta di scritti mi lascia pieno di stupore.

È tutto talmente lontano – quest’avventura era iniziata nel ‘52 e per me è finita nel ‘70 circa – e d’altra parte è talmente oggi ridotto in campo urbanistico il livello di utopia accettabile al di sotto delle soglie dell’ironia, nelle istituzioni e nei loro piani – ridotti ad enunciazioni elettorali o a fascicoli di archivio o testi di letteratura urbanistica – che veramente ho difficoltà a ricordare come reale, sopportata e combattuta quella situazione incredibile. Forse si tratta di un rifiuto dell’inconscio.

L’urbanistica oggi è ridotta in generale al pensiero di come violare quel che resta delle sue ceneri o come dare veste giuridica al disimpegno in nome di strategie non vincolanti, o come sviluppare il sopravvento dell’urbanistica scritta trasformata in ginnastica orale.

Ho difficoltà a ricordare quello che leggo in questi vecchi articoli, che un treno a vapore portava da Siracusa a Catania dove si stampava il giornale “La Sicilia” che li ospitava, in una pagina destinata alle Cronache di Siracusa. Difficoltà a comprendere quale utopia – quale forza di utopia fosse in me e come una briciola di uomo e di urbanista potesse combattere, termopili dopo termopili, prima da solo, poi con i due giovani bravissimi appassionati colleghi di Siracusa, Michele Liistro e Concetto Santuccio, entrambi ora docenti alla facoltà di Architettura dell’Università di Roma, contro una sfera enorme e lentamente rotolante di organizzazioni partitiche con idoli così diversi, e con l’alleanza di così poche figure locali disposte ad esporsi.

Voglio aggiungere una cosa poco nota, che mi fa pensare come piccoli eventi di piccoli uomini possano cambiare addirittura la storia.

Penso, come sia potuto accadere che un minuscolo avvocato, consulente ad hoc del Comune, abbia potuto far cadere (parlo della prima edizione del piano, quando combattevo da solo) per rinuncia giuridicamente motivata, tutto un grande patrimonio di cessioni di aree vincolate e destinate dal piano a parchi archeologici (lungo i 20 km. delle mura dionigiane!), a parchi naturali e attrezzati. Si trattava di aree che in sede di esame delle osservazioni avevo ottenuto a favore del Comune in donazione da parte di pochissimi grandi proprietari di aree dell’Epipoli, in particolare dai marchesi Gargallo, proprietari di quasi tutte le aree di espansione di Siracusa. Questi infatti, assistiti nella redazione delle “osservazioni” al Piano Regolatore da un generoso intellettuale e professore di architettura, il prof. Carbonara, avevano accettato di donare al Comune vaste aree rocciose inedificabili da destinare a Parco Pubblico Archeologico, a fronte dell’accoglimento contrattuale da parte del Comune di alcune piccole ininfluenti varianti di cubatura in sede di esame delle osservazioni al P.R.G. relativamente ad aree edificabili. Una contrattazione urbanistica per fini pubblici ante litteram che, gestita da uomini onesti con indicazioni degli stessi progettisti, sarebbe stata certamente una via importantissima per l’attuazione del piano.

Penso che cosa sarebbe ora Siracusa, con tutte quelle aree archeologiche donate (e poi non accettate proprio dal Comune beneficiario), trasformata in una città scenario del suo passato, in una trama spaziale di un immenso parco di resti archeologici immersi nella continuità di un contestuale tessuto verde che ne avrebbe focalizzato il carattere e la continuità nel nuovo scenario urbano.

Di questo sogno solo una piccola parte è stata attuata ed è il parco della Neapolis. Ricordo che quando lo progettai dovetti combattere, veramente combattere con la Cassa per il Mezzogiorno che lo finanziava e che voleva spendere denaro in opere aggiuntive ed in occupazione, ma era contrarissima agli espropri, mentre per me era assolutamente prioritario assicurare la demanialità di tutte le grandi aree della Neapolis, del Teatro Greco, dell’Ara di Jerone, dell’Anfiteatro Ro-mano, delle latomie, della balza, oltre a quelle ristrette dei singoli monumenti già in possesso della Soprintendenza, per garantire le aree archeologiche dagli insediamenti edilizi che si sarebbero sviluppati ai suoi bordi.

Ricordo che l’Ingegnere Capo del Comune, quando lo incontrai per la prima volta nel ‘52, mi disse a proposito dell’area della Neapolis e delle necropoli: “Tutti cimiteri hannu a restari? Iu ci facissi un cinema supra u teatru grecu”.

Mi ricordo che l’ambizione come progettista di realizzare, musealizzare, etc., era grandissima, ma la coscienza di giovane urbanista mi accendeva un forte senso di responsabilità civile del ruolo pubblico nella progettazione di un Piano Regolatore di così grande importanza per cui la demanializzazione era il primo fondamentale obiettivo da perseguire, per il controllo del processo e dell’assetto strutturale del governo pubblico del territorio.

In quegli anni la speculazione edilizia infuriava a Viale Zecchino e l’avv. Panico era l’elemento trainante dell’opposizione in Consiglio Comunale. Ricordo che preparò un manifesto nel quale si descriveva l’Ingegnere Capo del Comune come una figura della zoologia fantastica di Borges, la katablefa, con il titolo “Chi è?”, in cui tutti ravvisarono il personaggio, dati i riferimenti alle operazioni immobiliari di Viale Zecchino.

Ricordo che arrivai persino ad una situazione di tensione con il Soprintendente, grande archeologo e mio idolo e maestro, il prof. Bernabò Brea, che temeva di non riuscire, con la burocrazia statale di mezzo, a gestire e coltivare le vaste aree di cui progettavo nel piano la demanializzazione ed in particolare tutte quelle della Neapolis nelle quali era importantissimo tenere in vita le colture a frutteti che, nello scenario generale, erano una componente essenziale perché formavano un tappeto di ridente natura magnogreca all’interno della quale sorgevano i monumenti. Io proponevo di demanializzare e poi concedere in “concessione d’uso” ad agrumeti le aree espropriate, ma chi doveva amministrare bene sapeva a quali rischi interpretativi, controlli, formalità burocratiche, si andava incontro con la Finanza ed il Catasto.

Ricordo le parole del Sindaco che ci ricordava di essere i progettisti dell’Amministrazione e non dell’opposizione e che comunque dovevamo ricordare che avrebbe sempre vinto, ovviamente, perché aveva la maggioranza, perché a mezzanotte la gente che assisteva al Consiglio Comunale se ne andava, perché senza il pubblico le opposizioni non erano più interessate, perché potevano recitare soltanto, protestare, opporsi, recitare senza platea. Erano minoranza e a mezzanotte la maggioranza al completo restava sola e compatta a deliberare e verbalizzare tutto quello che il partito aveva deciso e a volte anche di più, nell’ebbrezza solitaria di una autogestione di verbali e decisioni miliardarie.

Dolore e lontananza ieri come oggi si accompagnano ormai a questi pensieri.

Gli interlocutori, gli amici e i nemici della prima fase della battaglia in solitudine sono scomparsi. L’avvocato Caracciolo, prima Assessore all’Urbanistica e poi Sindaco e sostenitore del piano, non c’è più. L’onorevole Sgarlata, Presidente della Provincia, poi Sindaco di Siracusa, poi Sottosegretario al Turismo e leader della locale corrente morotea, caro e stimato amico, non c’è più. Il presidente Rizza, Assessore all’Urbanistica, che aveva sostenuto il piano addirittura sino a subire il ricatto del suo partito, la Dc, era stato posto di fronte all’alternativa o di disconoscere il piano o di essere escluso dal partito, non c’è più. Bernabò Brea, il grande famoso archeologo, allora Soprintendente di tutta la Sicilia Orientale, dopo aver lasciato Siracusa per le Eolie, divenute il suo regno scientifico, ed avere realizzato a Lipari quello che forse oggi deve essere considerato il più esemplare museo della protostoria del Mediterraneo, non c’è più. Il prof. Monaco, Direttore dell’Istituto del Dramma Antico, prof. emerito dell’Università di Palermo, grande amico, non c’è più.

Quelli che furono i grandi oppositori del piano sono di tempra più resistente, ma il tempo, l’abusivismo e una dinamica edilizia oramai spontanea hanno sostanzialmente travolto tutti, sconvolto valori, partiti, il territorio.

Tutto è ora diverso, anche se i limiti di consapevolezza di ciò che si sta distruggendo non sono mutati. La finanza ha travolto l’economia a livello globale, tutto quello che il piano vo­leva evitare è stato realizzato prioritariamente per timore che il piano fosse approvato ed eventualmente attuato, l’industrializzazione a Nord, tra Siracusa e Augusta, è divenuta una necropoli di scheletri di una concentrazione colossale di inquinamento ambientale, ha monopolizzato l’accessibilità alla costa per poche in­dustrie ormai desuete, le aree costiere a Sud della città son divenute lottizzazioni con privatizzazione degli accessi al mare. I giacimenti di petrolio del Ragusano si sono esauriti, le opposte fazioni sono in lite su tutto, l’Ortigia ha perso tutto il tes­suto artigiano e microcommerciale confluito nei supermercati, e la popolazione ha abbandonato lo “scogghiu”.

Il piano particolareggiato dell’Ortigia, un capolavoro di competenza, amore ed impegno del prof. Pagnano che la difendeva, è decaduto per eccesso di amore progettuale-urbanistico a scala architettonica, in quanto re­datto e formalizzato giuridicamente in forma di Piano Particolareg-giato Esecutivo che comporta la attuazione in termini decennali o l’indennizzo e non consente il ripristino dei vincoli.

L’incarico dato di recente al prof. Liistro per il piano dell’Ortigia è stato conferito con carattere soltanto consultivo, sono venute meno le collaborazioni d’ufficio, l’insistenza a procedere sulla via di un piano particolareggiato ma generale, a priori, ha mantenuto in vita le stesse condizioni di insostenibilità operativa dal punto di vista giuridico ed ora è arenato e non ha tensione che ne sostenga una riformulazione.

La pianificazione territoriale e la pianificazione in generale sono uscite dal dizionario stesso della politica, ieri erano più un problema che una risorsa, oggi sono addirittura una parola vana, anzi ostile nello scenario dell’urbanistica contrattata.

L’immagine da satellite del territorio visibile oggi al computer con Google Earth non è solo sconvolgente: è come vedere l’equivalente di una grande biblioteca incendiata, di una Firenze al-lagata dall’Arno. Mi procura la disperazione di un medico che guarda la risonanza magnetica aggiornata di un figlio e si trova di fronte ad una metastasi raccapricciante diffusa a livello impensabile.

Il prof. Santi Agnello ha scritto e raccolto i primi importanti documenti sull’Archivio Storico, appena formato e inizialmente diretto da M. T. Gargallo, “Appunti di storia urbanistica siracusana”, vol. I (1955), ma, anche lui, non c’è più. Restano gli scritti.

Io stesso, per sbaglio, sono ancora vivo.

Assieme, il prof. Santi Luigi Agnello e l’avv. Corrado V. Giuliano hanno pubblicato un prezioso libro dal titolo: “I guasti di Siracusa: conversazioni sulle vicende dell’urbanistica siracusana” (Siracusa, 2001) di cui in questo libro si pubblicano diversi documenti citati assieme ad altri faticosamente recuperati in edizione integrale.

Il prof. Michele Liistro ha scritto uno stupendo libro su Ortigia, Ortigia: memoria e futuro (Roma, 2008), un testo che affianca la grande competenza urbanistica con la finezza psicologica e letteraria di un Thomas Mann e la saggezza cinese di un Confucio. Un libro veramente commovente per l’amore che esprime per l’antica patria, per l’amata Ortigia piena di storia, di sole e di miele della sua giovinezza. Ma la quieta saggezza espressa da questo libro non ha riflessi concreti nell’azione dell’Amministrazione.

Ma ora basta con il gelo di queste considerazioni e consolazioni letterarie.

Altra cosa è la gratitudine con cui comunque voglio ringraziare il valoroso curatore di questo libro-documento, il dott. Giuseppe Palermo, che ha raccolto tutti i documenti che raccontano una storia così complessa da invocare un nuovo Tolstoi per scrivere questo capitolo, di una nuova “Guerra e pace” del XX secolo. Grazie ancora, quindi, al dott. Palermo, che ha voluto recuperare e ordinare la documentazione di tutto l’advocacy planning, la partecipazione dei Siracusani attraverso i giornali e le risposte degli urbanisti, durante la lunga battaglia urbanistica dall’inizio degli anni ‘50 all’inizio degli anni ‘70. Battaglia di una guerra che ancora continua all’interno di un palcoscenico di una città, che in un palcoscenico ulteriore, quello del Teatro Greco, ospita ogni anno la recita di prototipi classici di tragedie che si ripetono in permanenza, tra storia e psicologia, nella storia dell’uomo.

Ritornando a Siracusa per assistere ancora una volta alle rappresentazioni classiche alla fine degli anni ‘90, sono tornato in quel Teatro Greco di cui avevo curato la sistemazione con la guida di due grandi archeologi, Stucchi e Bernabò Brea, nel 1954. Mi sono ricordato di quando ritrovavamo gli antichi tracciati sotterranei e recuperavamo gli antichi acquedotti, riportando l’acqua nel ninfeo sopra la cavea del Teatro Greco, demanializzavamo l’intera area monumentale della Neapolis, curando il vastissimo impianto arboreo di querce, lecci, carrubi, agrumi, allori, cipressi.

In quell’atmosfera, ho scritto una poesia che riporto, tenendo fede al titolo che parla di utopia neoilluminista e neoromanticismo.

COME UNA PANATENAICA
Aiutami fanciulla
discendo
col passo incerto
della nostalgia
le gradinate
che mille volte
un tempo
il mio giovane corpo
avea disceso
con orgogliosa sicurezza

aiutami fanciulla
a entrare tra la folla
che lenta defluisce
verso il mio bosco
e più non mi conosce

Il poeta descrive il fiume umano che defluisce lentamente dal Teatro Greco di Siracusa, si riversa nell'orchestra e scompare in un bosco sacro di ulivi e cipressi che lui stesso ha piantato negli anni della sua giovinezza tra la scena e il paesaggio del porto e del Plemmyrion deturpato dallo scalo ferroviario e da una fumosa vecchia zona industriale.

Successivamente, come dicevo all’inizio di questo scritto, Siracusa ha ottenuto il riconoscimento di Sito appartenente al Patrimonio straordinario, unico ed intangibile dell’Umanità. Ma la Siracusa di cui si parla, per me non è quella attuale di un’edilizia disordinata che ha deturpato il paesaggio, delle strade che hanno tagliato l’Epipoli e le balze e delle lottizzazioni che hanno privatizzato le coste e metastasizzato tutto il territorio. La Siracusa alla quale mi riferisco è quel capolavoro straordinario che il lontano progetto di concorso aveva sognato e proposto affidando alle maestose rovine ed al contestuale scenario paesistico il ruolo primario di elemento configurante nel piano, risuscitando, per il mondo intero, un polo di riferimento storico-semiologico a livello di Epidauro, di Delfi, di Efeso, di Cartagine, di Atene – sua eterna grande rivale nel mondo antico –, una reminiscenza primaria della grande storia della civiltà classica, matrice della nostra identità.

Roma, 11 maggio 2012

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