Tra i fisici più rinomati dell’India, attivista politica e ambientalista, Vandana Shiva è sicuramente una "resistente", una donna, cioè, che ha scelto, come missione della sua vita, di resistere allo strapotere delle multinazionali, agli errori e ai crimini della politica globale, alla devastazione dell’ambiente (che significa rischio per la nostra stessa esistenza). Alla Fiera del Libro di Torino è venuta a lanciare un appello per il "salvataggio del mondo". "Siamo ancora in tempo", ammonisce, "ma solo se ci muoviamo subito". Occorre, in altre parole, che le politiche di contenimento del danno ambientale diventino presto, anzi "subito" (come ripete più volte nel corso della nostra conversazione), qualcosa di reale, di concreto, e non soltanto un pio desiderio. L’occasione è il lancio del suo ultimo libro, Ritorno alla Terra. La fine dell’ecoimperialismo (Fazi Editore), che segue gli altri importanti titoli della sua ricca bibliografia (ricordiamo Monocolture della mente, Bollati Boringhieri 1995; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi 2001; Il bene comune della Terra, Feltrinelli 2006). Nel 1993 Vandana Shiva ha vinto il Right Livelihood Award, premio Nobel alternativo per la pace. Insieme con Ralph Nader e Jeremy Rifkin, presiede l’International Forum on Globalization.
Signora Shiva, uno dei temi che affronta nel suo nuovo libro è quello della crisi economica mondiale. Secondo lei, essa è in via di soluzione, come affermano i più ottimisti, oppure dobbiamo aspettarci che i suoi effetti negativi perdureranno anche nel prossimo futuro?
"Temo che questa crisi non passerà tanto facilmente, perché affonda le sue radici nella struttura economica mondiale, di cui è, in qualche modo, parte integrante. È un po’ come l’influenza suina: una volta che il contagio ha inizio, si può cercare di contenerlo, ma è difficile fermarlo. Abbiamo dimenticato alcune regole fondamentali, nel campo dell’agricoltura, dell’allevamento, come in quello dell’economia. In tutti questi settori negli ultimi decenni si è imposta la cultura della ‘deregulation’; si è fatto del liberalismo, del libero mercato, della libera iniziativa una sorta di feticcio. Ora, però, si vedono le dannose conseguenze della mancanza di controllo da parte degli stati, dei governi, ma forse, soprattutto, dell’assenza di autodisciplina da parte degli operatori interessati".
Si discute molto di energia nucleare. Qualche mese fa si è creato un asse Berlusconi-Sarkozy per l’implementazione di questo settore. Cosa ne pensa?
"Negli ultimi anni l’energia nucleare ha cominciato a essere presentata come ‘energia pulita’, per l’assenza di emissioni inquinanti, a fronte, ad esempio, dell’energia termoelettrica, come quella che deriva dalla combustione di carbone o petrolio, che invece inquina l’atmosfera. Rimane però il problema delle scorie, che sono inquinanti e, soprattutto, nel lungo periodo. Nel 2006 il governo indiano ha raggiunto un accordo bilaterale con il presidente degli Usa, Bush, per la cooperazione nella produzione di energia nucleare. Ebbene, in questo modo l’India produrrà, con il nucleare, il 6% della sua energia, una percentuale decisamente bassa, per la quale avrebbe potuto puntare sull’energia solare, eolica o sull’energia da biomasse".
Perché allora i governi insistono tanto sul nucleare?
"Lei ha detto bene: i governi. Perché non c’è un Paese al mondo in cui si sia arrivati alla scelta del nucleare in maniera autenticamente democratica. Quasi sempre le popolazioni e gli stessi Parlamenti sono contrari. In India su quell’accordo con Bush si è rischiata una crisi di governo, perché il Parlamento si era decisamente opposto. Ma la sua domanda è come altre domande che la gente si pone: perché noi vogliamo migliori trasporti pubblici e i governi continuano a incentivare le industrie che producono auto? In quest’ultimo caso, come in quello del nucleare, a spingere in una certa direzione è il potere delle grandi lobby, alle cui richieste purtroppo molto spesso la politica tende a piegarsi".
Si dice che, dopo il petrolio, la risorsa del futuro, che tutti cercheranno di accaparrarsi, sarà l’acqua. Lei crede che, per il controllo dell’acqua si combatteranno guerre, come è avvenuto (e come avviene) per il possesso dell’‘oro nero’, oppure che essa sarà comunque sempre disponibile in quantità sufficiente per tutti?
"Guerre per l’acqua già si stanno combattendo oggi. Potrei farle un elenco di fiumi asiatici per il cui controllo, da parte degli stati e delle regioni, abbiamo già avuto decine se non centinaia di morti. Tanto che potremmo dire che oggi nei fiumi scorre meno acqua, ma scorre più sangue".
Lei ora ha toccato il tema della siccità, legata ai cambiamenti climatici. Siamo ancora in tempo per fare qualcosa?
"Siamo ancora in tempo per evitare le catastrofi climatiche future, ma solo se ci muoviamo subito. E forse siamo ancora in tempo per arrestare i cambiamenti in atto, ma certo non per tornare indietro. Ma dobbiamo ridurre, da subito, le emissioni di gas inquinanti almeno del 40%".
Ma i politici che continuano a non prendere i necessari provvedimenti non sono consapevoli della gravità della situazione o fingono di non sapere?
"Credo che non ne siano del tutto consapevoli. Non girano i villaggi dove la siccità ha devastato le colture o dove, al contrario, la pioggia ha compromesso l’ecosistema dei deserti. Loro vivono nelle capitali, nelle loro ovattate stanze, da dove effettivamente non hanno una conoscenza della realtà. Anche la campagna elettorale ormai si fa via televisione, senza un contatto diretto con i problemi della gente. Poi ci sono politici che, in malafede, si rifiutano di assumere le decisioni richieste dai rapporti scientifici sulla situazione del Pianeta".
Che cosa possono fare i cittadini per ottenere dai loro politici decisioni efficaci?
"Io dico sempre che ciascuno di noi deve partire dal luogo dove si trova, sollecitando gli amministratori del suo quartiere, della sua città, della sua regione. E poi dobbiamo tutti, in prima persona, compiere scelte etiche ed ecologiche nei nostri comportamenti quotidiani".
Ad esempio?
"Ad esempio favorire un’agricoltura in armonia con la natura, contro l’agricoltura industriale che la devasta. Comprare cibo prodotto localmente, in maniera biologica, ed evitare i cibi industriali".
Qualcuno però potrebbe accusarla di una certa nostalgia passatista, dicendo che non si può tornare indietro e che, così facendo, si metterebbe a repentaglio un intero sistema industriale, con conseguenze negative anche per l’occupazione.
"In realtà, su quest’ultimo punto le cose stanno esattamente al contrario. È l’agricoltura industriale che ha prodotto disoccupazione, sostituendo al lavoro dell’uomo le macchine e i fertilizzanti chimici. E ha prodotto un miliardo di persone che non hanno cibo a sufficienza".
Ma la Terra è in grado di sfamare tutti i suoi abitanti?
"Sì, certo, se solo ci si decidesse a tornare ai ritmi della Terra e della natura. Bisogna ricostruire un’autentica democrazia della Terra, come alternativa all’ecoimperialismo. Si tratta di riconoscere che la natura e la popolazione, insieme e in armonia tra loro, sono la forza più grande del pianeta. Dobbiamo cambiare mentalità. Possiamo farlo tutti, senza aspettare che i politici lo facciano per noi".