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Diritti negati
5 Marzo 2010
Articoli del 2010
Regole della democrazia e dignità del lavoro: questi i diritti oggi pesantemente minacciati, insieme alla proprietà pubblica dei beni comuni. Da il manifesto del 5 marzo 2010 articoli di Loris Campetti e Gianni Ferrara e un’intervista a Luciano Gallino

Loris Campetti, Tre milioni di ricordi

Gianni Ferrara, Inciviltà politica

Sara Farolfi, Luciano Gallino: «Il dado è tratto la CGIL dov era?»

TRE MILIONI DI RICORDI

di Loris Campetti

I giudici sono di parte, anzi talebani. Meglio liberarsene.

Le leggi sono lacciuoli, formalismi che tagliano le ali al libero fluire dell'impreditorialità, sia essa politica che economica. Così come le regole, le leggi si fanno e si disfano. Anzi, ormai è il potere esecutivo a scriverle al punto che del Parlamento si potrebbe anche fare a meno: viviamo nell'emergenza, bisogna fare in fretta e la democrazia formale è solo un impiccio burocratico.

I sindacati sono un cascame del Secolo breve. Tutto è mobile, flessibile e tutti sono ragionevolmente individualisti. Dunque, perché non passare dalla contrattazione collettiva a quella individuale - ogni lavoratore di fronte al suo padrone per farsi valere e strappare mirabilanti garanzie e vantaggi per sé?

Detto fatto. Sarà pure divisa la destra che ci governa. Sarà pur vero, e lo è, che nel Pdl è in atto una guerra feroce per la (futura) egemonia: ma resta il fatto che la destra governa e lo fa con pugno di ferro. Una volta sfondate le trincee sindacali e ridotti al ruolo di ascari due sindacati su tre, cambiano leggi e regole, modificano la costituzione materiale e formale del paese. Hanno archiviato il «vecchio» diritto del lavoro, sterilizzato lo Statuto dei lavoratori, liquidato l'articolo 18 in difesa del quale tre milioni di italiani erano scesi al Circo Massimo appena 8 anni fa. Ora chi è licenziato senza giusta causa - termine freddo, dietro cui si nascondono prepotenze, discriminazioni, violazioni di leggi e regole, colpi bassi sui più deboli - può anche veder riconosciute le sue ragioni, ma non ha più automaticamente diritto a essere reintegrato. Del giudice si può fare a meno, sostituito da un «arbitro», chissà se confortato dalla moviola di Biscardi. I più deboli, soli di fronte al padrone al momento di stipulare il contratto, non potranno che rinunciare al ricorso al giudice. Il precariato è destinato a crescere e il precario che avesse diritto a un contratto «regolare» dovrà accontentarsi di una mancia. I contratti collettivi, già addomesticati dalle nuove regole imposte a tutti con il consenso di Cisl e Uil, potranno essere ancora ritoccati per cancellare l'articolo 18.

Viviamo in un paese in cui non fa scandalo che la ThyssenKrupp, quella della strage di Torino, pretenda dai suoi dipendenti sopravvissuti la rinuncia a costituirsi parte civile in cambio del «dono» della cassa integrazione. Dunque, perché scandalizzarsi se chi dovrebbe avere a cuore la democrazia è invece distratto dai garbugli elettorali? C'è qualche sussulto, è vero. Si parla di ricorso alla Corte costituzionale, qualcuno è pronto a raccogliere le firme per un referendum. Ma se al nostro amico Paolo Ferrero non resta che lo sciopero della fame per denunciare il gravissimo vulnus inferto al lavoro e al paese, vuol dire che siamo messi male.

Essere messi male non vuol dire che non si possa risalire la china. E' già in agenda un appuntamento importante: il 12 marzo c'è lo sciopero generale indetto dalla Cgil. Facciamone tutti, anche senza chiedere il permesso, la prima tappa di un lungo cammino verso la riconquista della democrazia.

INCIVILTÀ POLITICA

di Gianni Ferrara

È genetica, perciò strutturale, assoluta e irrimediabile l'incompatibilità di Berlusconi e del berlusconismo con le regole. Incompatibilità che si dimostra clamorosamente anche in questa occasione. L'invalidità delle candidature del Pdl agli organi delle Regioni Lazio e Lombardia, rilevata finora dagli organi competenti, ha indotto non pochi esponenti del Pdl a dichiarazioni che - come se ce ne fosse bisogno - confermano la loro impermeabilità alle ragioni elementari della civiltà politica.

Perché sono deliranti su forma e sostanza delle elezioni, della democrazia e dei diritti, inquietanti sui rimedi che intenderebbero escogitare agli errori marchiani dei loro addetti alla presentazione delle liste. Rimedi volti a disinformare l'opinione pubblica preparandola però all'ennesima lacerazione della legalità. Tanto più inquietanti in quanto intervengono in un momento che appare particolare. È quello della crisi del berlusconismo. Che fallisce sia come indirizzo politico, perché si dimostra inidoneo a fronteggiare la crisi finanziaria (aumento del debito pubblico), quella economica (caduta del Pil), quella sociale (aumento della disoccupazione), quella morale (corruzione pervasiva), sia come fattore aggregante di una classe dirigente, spezzata da rivalità personali e di gruppi, insanabili perché inerenti alle loro smodate e infondate ambizioni. Fallisce soprattutto per il vuoto ideale e morale che rivela come progetto politico.

Fallimento che però non sarà dichiarato. Non c'è infatti nessuno capace di, e disposto a, farlo. Valentino Palato ha scritto ieri che «c'è da preoccuparsi perché una crisi, anche se del peggiore avversario, è sempre una crisi». Avrebbe ragione se non fossimo in Italia. Un paese che è in crisi da quasi venti anni. Una crisi profonda, dell'etica pubblica, della rappresentanza, della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti, quelli sociali soprattutto, come dimostra l'approvazione della legge che espunge dal nostro ordinamento la tutela del lavoro, sottraendo ai lavoratori la garanzia del processo giudiziario che era garantito dallo Statuto e in particolare dall'articolo 18. Siamo in Italia. La rivelazione della crisi del berlusconismo sarà rappattumata. Con legge, magari «condivisa», con ogni probabilità si rinvieranno di qualche settimana le elezioni regionali e si prorogheranno i termini per la presentazione delle liste, provvedendo a salvare «la sostanza» delle elezioni e della democrazia che per Berlusconi e i suoi accoliti coincidono esattamente con il loro potere.

C'è di peggio, all'orizzonte. C'è l'intento, la sollecitazione, il disegno delle riforme costituzionali. Le si auspicano come «condivise». Condivise da e con Berlusconi. Ma come si può immaginare, di sancire l'introiezione nel nostro ordinamento costituzionale del berlusconismo, formalizzandolo, legittimandolo?

Si diceva una volta «Dio salvi l'Italia». Ma un ateo, chi deve invocare?

LUCIANO GALLINO: «IL DADO È TRATTO LA CGIL DOV ERA?»

intervista di Sara Farolfi

Il sociologo del lavoro Luciano Gallino stigmatizza i ritardi della politica (il Pd) e del sindacato (la Cgil) nel reagire al duro attacco del governo ai diritti del lavoro e all'articolo 18. Lo sciopero del 12? «Un parlare d'altro»



«C'è stata una sottovalutazione, non c'è il minimo dubbio, e un grande ritardo nel prendere posizione». Sottovalutazione e ritardi che il sociologo torinese, Luciano Gallino, non esita a addebitare a politica e sindacati: «Stupisce che in tanti scoprano solo ora che quella approvata dal senato è una legge molto grave, lesiva dei diritti dei lavoratori e dello stesso diritto del lavoro. Si sarebbe dovuto iniziare a protestare, se non due anni fa, almeno quattro mesi fa quando ormai le insidie della legge erano perfettamente visibili».

Che tipo di risposta richiederebbe oggi un tale livello di offensiva?

Quando una legge c'è, poi sono dolori. Modificarla, impugnarla davanti alla Corte costituzionale e altre belle cose del genere arrivano post factum, quando ormai il dado è tratto. E anche se, come è possibile, la Corte si pronunciasse in senso contrario, per mesi e mesi se non per anni decine di migliaia di persone si troveranno di fronte a un ricatto bello e buono, seppure scritto in bella forma giuridica. Ci si sarebbe dovuti muovere molto prima, erigere una barriera a difesa come si fece nel 2002. Giuristi del lavoro che hanno a cuore il destino dei lavoratori ne esistono ancora molti per fortuna, e già un anno fa si erano accorti dove si andava a parare. Chi invece mi pare essere rimasto completamente assente è il sindacato, per non parlare della politica, del Pd, perchè le proteste in aula o le dichiarazioni di Treu in commissione - che sono arrivate quando il treno era già partito - lasciano il tempo che trovano.

La Cgil ha convocato uno sciopero uno sciopero generale per il 12 marzo, sul fisco però.

Che è come parlare d'altro: uno prende una legnata e poi fa uno sciopero per qualcosa di completamente diverso. Sono anche temi importanti certo ma gli scioperi, le grandi manifestazioni, come fu quella del 2002, sono importanti quando esprimono una protesta contro una proposta politica, una legge, qualcosa insomma di molto concreto. Scioperare per fare una proposta temo che pesi molto meno.

La Uil, e cioè la terza organizzazione sindacale confederale, seguita a ripetere che l'articolo 18 è salvo...

Formalmente è vero: non è ancora stato affondato, solo che gli è stato tolto il salvagente e quindi potrà nuotare un po' poi andrà a fondo. L'articolo 18 viene gravemente compromesso perchè per avvalersene bisogna andare davanti a un giudice e se un lavoratore vi rinuncia al momento di firmare un contratto, buonanotte... Nel 2002 il governo scelse lo scontro frontale, oggi invece ha messo in moto i siluri sottomarini. Perchè questa legge è una sorta di minaccioso sommergibile, contiene dozzine di provvedimenti di ogni genere e in mezzo ci sono tre articoli che fanno saltare un bel pezzo di giustizia sul lavoro.

Nel 2002, l'offensiva fu fermata da una grande mobilitazione del mondo del lavoro. Cosa è cambiato da allora?

Il sindacato si è sostanzialmente indebolito e oso dire che l'asse del sindacato, Cgil compresa - e so che a qualcuno dispiacerà sentirmelo dire - si è spostato verso il centro destra. Perchè il sindacato ha un asse politico, o si occupa di disuguaglianze o non se ne occupa, o si occupa di contratti collettivi o lascia che slittino verso lidi sconosciuti.

L'archiviazione dell'articolo 18 non è che la punta d'iceberg di una legge che prevede anche che l'ultimo anno di scuola dell'obbligo possa essere fatto in fabbrica. In arrivo c'è poi lo «statuto dei lavori» che sostituirà quello dei lavoratori...

La norma sull'apprendistato è un ritorno indietro di quarant'anni, significa tornare a una specie di avviamento al lavoro e cioè sottrarre un anno alla formazione. Quanto allo Statuto dei lavori, Sacconi ne parla da anni e visto che ha davanti a sè non dico un'autostrada ma quasi, procede con la massima speditezza possibile.

Come immagina il futuro, dal questo punto di vista?

C'è una parte, che è la destra - con le sue ottuse idee neoliberali, con il suo intento di smontare il sindacato - che è la parte vincente, e dall'altra ci sono i remissivi, che stanno diventando i perdenti. Avrei sperato di vedere una Cgil molto più battagliera, come un tempo è stata, e invece mi pare che anche da quelle parti si tenda sempre più a usare un approccio possibilista anche su leggi di questo tipo. Il futuro non promette nulla di buono. Per il diritto del lavoro, intendo.

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