la Repubblica,
Vittorio Lingiardi, Mindscapes, Raffaello Cortina pagg. 262
Il modo migliore per cogliere il paesaggio è sedervisi dinanzi facendo altro: leggere, immergersi nei pensieri, fantasticare. Insomma distrarsi. Poi alzare gli occhi e guardarlo all’improvviso, così da cogliere la natura alla sprovvista, «vederla prima che abbia modo di cambiare aspetto». Solo così si riesce a comprendere quello che gli alberi bisbigliano tra loro e a intravedere senza veli il paesaggio stesso: il suo mistero che appare e subito scompare. Così consiglia Nathaniel Hawthorne, l’autore de La lettera scarlatta.
Il paesaggio non è infatti «solo quella porzione di natura che si mostra ai nostri occhi», quanto piuttosto un luogo invisibile in cui il mondo interno e il mondo esterno, natura e psiche, s’incontrano e si confondono, «inaugurando nuovi confini». Vittorio Lingiardi nelle ultime pagine di Mindscapes (Raffaello Cortina), da cui sono tratte queste parole, scrive: «Il paesaggio è la nostra psiche nel mondo».
Lo psichiatra e psicoanalista ha pubblicato un libro inusuale, dove la sua pratica analitica si mescola ai libri letti e alle immagini raccolte nel corso del tempo in un succedersi di osservazioni, commenti, citazioni. Un volume che è insieme narrazione ed esplorazione, racconto e autobiografia per interposta persona. Libro personale, intimo, ma anche rivolto verso il fuori,
cerca di delineare il nesso tra psiche e paesaggio, collocandosi in questo modo a metà strada tra l’una e l’altra realtà.
Ogni essere umano, uomo o donna, ha dentro di sé un paesaggio, quello della propria terra d’origine, e fuori di sé un altro paesaggio, quello che ha incontrato nei percorsi della sua vita viaggiando o migrando altrove per motivi di studio e di lavoro, o per affetto. La parola che dà il titolo al volume è un neologismo; deriva da landscape, termine introdotto alla fine del Sedicesimo secolo in inglese, un vocabolo tecnico utilizzato dai pittori per indicare il paesaggio quale oggetto di raffigurazione. Lingiardi fa una cosa simile: descrive lo spazio vissuto incontrato nel setting analitico; usa le parole, quelle della poesia, intense e assolute, e insieme le immagini di opere d’arte. è un libro-patchwork, in cui riquadri di forme e colori differenti sono cuciti insieme usando il filo dell’emozione.
Ogni pagina è un continuo rivivere e riferire ciò che l’autore ha scoperto e pensato in rapporto al proprio corpo; sia che usi le frasi di un narratore o quelle di un filosofo o psicologo, sia che commenti le immagini, tutto è riferito al proprio corpo. Le parti più belle del libro sono quelle in cui l’autore racconta i suoi pazienti, e quelle in cui ripercorre i libri di colleghi e maestri, come Christopher Bollas. Lo scopo della terapia, come di questo libro, è di «appaesarci», di farci sentire più vicini a noi stessi attraverso il paesaggio. L’esperienza che connota il nostro tempo è quella dello spaesamento: smarrimento, perdita di contatto con il paesaggio interiore ed esteriore.
Il pensiero generativo del libro, dice Lingiardi, appartiene a Jean-Bertrand Pontalis, psicoanalista francese: per avere qualche speranza di essere davvero noi stessi, dobbiamo avere molti luoghi dentro di noi. Il che significa che la nostra psiche si presenta sotto forma di una geo-grafia, e che siamo legati, per vari e complessi motivi, ai luoghi stessi: per amore, per rancore, per nostalgia, per malinconia. I luoghi sono al plurale, quasi mai al singolare. Noi siamo plurali, e per questo abbiamo bisogno di molti luoghi. Lingiardi con la sua curiosità e passione c’insegna che è finita l’epoca monoteistica dell’unico luogo. Abbiamo tante patrie, reali, ideali o immaginarie, tanti paesaggi interiori da coltivare per sopravvivere, per mantenerci in equilibrio, per sognare e immaginare al di là di noi stessi.