Se si osserva il comportamento di molti leader politici sulla vicenda Tav non c’è da meravigliarsi che l’Italia sia finita al 40.mo posto nella classifica internazionale sull’onestà stilata qualche giorno fa da Transparency international. Da almeno un anno risuona incessante il ritornello: «Ce lo impone la Ue, se non si avviano i lavori l’Italia perderà i fondi». Lo hanno dichiarato uno dopo laltro molti ministri, lo hanno affermato con una sola voce Mercedes Bresso e il sindaco di Torino Chiamparino. Chi si oppone alla Tav sarebbe quindi anche un cattivo cittadino che non ha a cuore le sorti nazionali visto che mostra indifferenza al rischio che la patria possa perdere ingenti finanziamenti europei. L’importante è arraffare il malloppo, senza neanche perdere tempo a domandarsi se non sia possibile riuscire a utilizzarlo, almeno in parte, in qualche altro modo, come potenziare l’attuale linea ferroviaria e accettando che qualche container impieghi 30 minuti in più per raggiungere Lione da Torino, evitando così scempi ambientali e rischi sanitari.
La verità, però, è ben diversa: dei 20 miliardi di euro originariamente previsti, per il periodo 2007-13, dalla Commissione europea per le grandi opere, dopo il Consiglio europeo del 15 dicembre 2005 ne sono rimasti solo sei. Insufficienti per finanziare anche solo parzialmente (dal 20 al 30% per i tratti internazionali e 10% per le tratte nazionali) le 30 grandi opere originariamente previste e che quindi devono essere selezionate in ordine di priorità. La precedenza sarà data a quei progetti per i quali i lavori sono già in stato avanzato e nei quali la Ue ha investito oltre 2,5 miliardi di euro. Ben diversa è la sentenza della Tav: non solo i lavori non sono iniziati (fino ad ora laUe ha infatti stanziato solo il 5,11% della prevista quota comunitaria, fondi destinati alla fase progettuale e sull’utilizzo dei quali il governo avrebbe potuto chiedere, entro il 31ottobre 2005, una proroga), ma la Commissione europea ha avviato una procedura contro l’Italia per aver cancellato la Via (Valutazione di impatto ambientale) dai progetti definitivi sulle grandi opere, Tav compresa.
Inoltre due settimane fa la Commissione petizioni del Parlamento europeo ha richiesto all’unanimità un’ulteriore valutazione sui rischi ambientali e sanitari. A tutt’oggi appare improbabile che vi siano fondi europei per l’alta velocità in Val di Susa, e dall’Europa non arriva alcuna pressione perché si proceda con i lavori. Il governo italiano è da tempo consapevole di tale situazione, anzi ne è corresponsabile avendo partecipato alle decisione del Consiglio europeo del 15 dicembre. Quindi i ministri hanno dichiarato e continuano a dichiarare consapevolmente il falso. Ma poteva la governatrice Mercedes Bresso non sapere tutto ciò? Possibile che non si fosse consultata con il presidente della Commissione trasporti, onorevole Paolo Costa, oltretutto eletto nella sua stessa lista al Parlamento europeo? Il quale è talmente consapevole della situazione che il 15 febbraio in una lettera inviata all’onorevole Janusz Lewandowski, presidente della commissione budget, scrive: «Se la posizione del Consiglio europeo dovesse essere accettata, l’idea del network sarebbe distrutta e gli obiettivi del Tent (il network del trasporto trans-europeo) non sarebbero più raggiungibili e l’intero programma Tent sarà declassato a un insieme disordinato di lavori pubblici ». Qualcuno aveva almeno informato Prodi di quale era la situazione prima di continuare a invocare una sua presa di posizione giunta poi con l’infelice «decido io»? In tanti, e da parti diverse, hanno nascosto la verità ai cittadini non solo della Val di Susa; ma è più difficile perdonare chi ha sfilato a Porto Alegre parlando di bilancio partecipativo e del coinvolgimento delle popolazioni locali.
L’alibi degli obblighi europei è stato quindi utilizzato dal governo per realizzare attraverso la vicenda Tav uno scontro politico/ideologico in difesa del modello liberista della società. Modello che prevede: una sempre maggiore delocalizzazione produttiva fuori dall’Europa fondata sull’abbassamento del costo del lavoro e la negazione dei diritti; la rottura dei legami sociali e comunitari ancora esistenti in Europa; la trasformazione del nostro continente in una regione attraversata da grandi infrastrutture di trasporto, dove, a una sempre più selvaggia concentrazione di capitali, corrisponderà un aumento esponenziale della disoccupazione e del lavoro nero. Il principio guida del raggiungimento del massimo profitto possibile coniugato con il più assoluto (e suicida) disprezzo per ogni forma di bene comune.
Il mito dell’alta velocità ben sintetizza anche simbolicamente tutto ciò.Ma dietro le bugie spesso insieme a grandi «motivazioni ideologiche» si nascondono precisi interessi materiali. L’importante è assegnare gli appalti, distribuire contratti a aziende amiche, poi se l’opera non si farà, o non verrà conclusa, poco importa, le aziende riceveranno comunque le penali da parte pubblica e il denaro girando lascerà qualche alone attorno a sé!
La partecipazione di un’ampia fetta dell’opposizione a questa battaglia in favore della Tav rappresenta la condivisione culturale, prima ancora che politica, di un modello liberista della società, nella convinzione di poterne dominare gli effetti più deleteri e socialmente dannosi. Quest’opera di contenimento dovrebbe essere resa possibile dalla conquista della cabina di regia, identificata nel governo. E. la medesima logica che ha portato Ds e Margherita a sostenere la nuova versione della direttiva Bolkestein nel recente voto di Strasburgo. Ma l’essenza del liberismo è appunto il dominio dell’economia finanziaria sulle istituzioni politiche: anche per questo l’idea di gestire un liberismo dal volto umano è destinata a rimanere nel migliore dei casi un’illusione. Per il resto non vorrei nemmeno pensare che anche in questo campo la vicinanza di alcuni interessi economici possa avere un qualche peso.
La lotta per un’alternativa alla Tav, lungi dall’essere una rissa di cortile, rappresenta quindi un punto centrale di confronto sulla società e il futuro che intendiamo costruire. L’impegno comune per battere la destra, e in particolare questa destra, e per provare a governare con un programma che rappresenti il punto più alto possibile di mediazione dentro la coalizione, non può e non deve essere confuso con la consegna del silenzio. Non c’è motivo di scandalo nel dichiarare che dentro al centrosinistra è da tempo aperta una contesa sulla dimensione strategica dell’agire politico e in particolare sulla posizione da assumere verso le politiche liberiste.