Esse, comunità di passioni, 7 maggio 2015
Congratulazioni a Pippo Civati che è uscito dal Pd. Il segno che con un po’ di coraggio e coerenza ce la si può fare. Lo sappiamo: il Pd è non solo l’erede del Pci. È stato anche progetto di un grande partito che stesse dalla parte dei più deboli. Per questo è così difficile, per tante persone in ottima fede, accettare l’idea che quel progetto non è andato oltre le intenzioni dichiarate. Non ci è andato prima di Renzi, ancor meno dopo. Ma questa è ormai storia. Ora, se possiamo, suggeriamo (non richiesti) una decina di cose da fare e da non fare, perché adesso bisogna partire sul serio.
1. Per carità vi preghiamo: non incollate i cocci di tante piccole storie sconfitte. L'unità è una parola bellissima, ma non può essere pensata come la somma di ministrutture finite. Deve essere, piuttosto, l’unità tra persone in carne e ossa, tra pezzi di società. Vi ricordate i contadini e gli operai di un tempo, che erano la parte bassa della piramide sociale? Ecco, sono diventati gli invisibili di oggi: precari, disoccupati, partite iva, insegnanti, “neet", ricercatori, ex ceto medio impoverito e tante altre cose. È lì la maggioranza. Diamole voce, diamole senso.
3. Il cambio di passo che serve non è solo nelle facce, ma è in primo luogo nelle teste, cioè nel modo di essere e quindi di presentarsi, con trasparenza e verità. Non è scritto da nessuna parte che l’alternativa alle liturgie delle vecchie forme della politica (quelle che non parlano più a nessuno semplicemente perché parlano una lingua incomprensibile alla stragrande maggioranza della gente comune) sia il partito del monarca assoluto. Si può essere innovativi senza rottamare la democrazia.
4. Barra dritta, a ogni modo, sull’innovazione e sul cambiamento a favore dei deboli, non contro di loro. Quella di Renzi è un’innovazione contro i deboli e a favore dell’élite. Noi non vinciamo se contrapponiamo a essa la conservazione, la caricatura di Cipputi in tuta blu, le vecchie parole d’ordine. Guardiamo avanti, non indietro.
5. Che poi, la sinistra si fa, non si dice. E sinistra – parola usurata e deturpata da troppo tempo, compresi tanti anni di politiche di destra fatte a nome della sinistra – vuol dire occuparsi dei problemi delle persone, della parte bassa e mediobassa della piramide sociale. Che non ha più nemmeno la forma di una piramide, ma di un’enorme base di non élite con sopra una piccola punta di élite. La dialettica tra sinistra e destra è diventata un'inutile e spesso ingannevole dialettica "geografica": quello che conta invece è la contrapposizione reale tra la grande maggioranza che non ha e la piccola maggioranza che ha. E comanda.
6. Per questi motivi fare vuol dire, vi preghiamo, non solo convegni ma lavoro vero nel sociale: il mutuo soccorso, la disobbedienza civile, le proposte di legge di iniziativa popolare, i referendum, le strade, i quartieri, i luoghi del lavoro e del non lavoro, insomma le pratiche. Questo forse è anche il senso della “coalizione sociale” di cui tanto si parla e di sicuro lo è delle varie coalizioni sociali che, con altri nomi, in tutta Italia e in tutta Europa, spesso in silenzio, sono pronte a muoversi.
7. Insieme a questo, serve un programma vero. Un programma di governo per il Paese e per l’Europa, non un elenco di slogan. Per scriverlo bisogna cacciare i fantasmi del minoritarismo che ammorbano la cultura politica di gran parte della sinistra esistita fin qui. Si esiste e si propone un’alternativa al governo delle élite perché si ritiene di poter essere la soluzione ai problemi, non la grancassa della frustrazione collettiva.
8. Basta discutere dalla mattina alla sera di alleanze e di elezioni. Ci siamo divisi per anni e continuiamo a dividerci tra quelli che vogliono allearsi e quelli che non vogliono allearsi, litigando per pessime questioni di liste e di candidature. Ecco, ripartiamo da capo. Prima costruiamo una nostra identità, costruiamo il chi siamo e il cosa vogliamo. Saranno altri, semmai, a bussare alla nostra porta. Alla porta della maggioranza.
9. La buona politica è quella che moltiplica, per contagio, il protagonismo e l’attivismo. Non quella che impone la passività e l’obbedienza ai propri militanti e simpatizzanti. Più potere reale decentrato e maggiore efficacia nella comunicazione, anche attraverso leadership (che servono) non burocratiche ma dinamiche, capaci di suscitare passioni ed entusiasmi ragionevoli e critici.
10. Rivoluzione copernicana, infine, anche nello stile, che è parte ed espressione dell’essere. Si può essere radicali senza essere violenti, si può essere popolari senza essere volgari, si può essere convinti e convincenti senza perdere la gentilezza. In un mondo di pescecani, proviamo a dire – anche nei nostri comportamenti, nelle nostre pratiche – come vorremmo fosse la società nella quale ci piacerebbe abitare. Del resto, si sa, ciascuno deve essere la rivoluzione che vuole vedere nel mondo.
Questo il nostro piccolo contributo, per ora. Speriamo che altri ne arrivino, per costruire le fondamenta di idee e pratiche che diano voce e volto all’universo degli invisibili, ai milioni di persone che sono fuori dalle élite economiche. Noi proviamo a cominciare da qui e sappiamo di non essere soli. Qualcosa si è già mosso, negli scorsi mesi, in queste direzioni. E anche da incontri che qualche base hanno gettato, come quello chiamato Human Factor, nel novembre scorso; ma non solo, naturalmente: tanti altri fermenti sono nati dal basso, nelle associazioni diffuse, nella realtà fisica e in quella digitale, lontano dai riflettori mediatici, in quella galassia di persone che non si vede ma c’è e si impegna. Se da tutte queste persone, idee e pratiche ora nasce o no qualcosa di buono e di utile, dipende da tutti voi, da tutti noi.