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(red.)
Di fronte al pericolo
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Dietro l'ufficialità della risposta "tough" al terrorismo, anche civiltà e democrazia, vere. Dal Guardian, 8 luglio 2005 (f.b.)

Titolo originale: In the face of danger – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Mentre scrivo, esseri umani altamente civilizzati volano sopra la mia testa, tentando di uccidermi”, scriveva George Orwell nel pieno degli attacchi aerei della seconda guerra mondiale. I londinesi hanno vissuto con la paura di molte ondate nemiche invisibili nel corso degli anni. A poco più di un chilometro dagli uffici di questo giornale, per esempio, c’è il luogo dell’assalto esplosivo di Clerkenwell del 1867, in cui gli Irish Fenians tentarono di aprirsi la strada sino a una prigione per recuperare due dei loro, riuscendo invece a demolire una fila di case, a uccidere 12 degli abitanti e a ferirne 126. Appena di là dalla strada, un edificio a Peabody fu ridotto in briciole dalla Luftwaffe, che uccise così alcuni dei 43.000 civili morti nel corso del Blitz. Durante gli anni ’70 e ’80 i londinesi si abituarono forzosamente alle bombe piazzate dalla Provisional IRA. E ieri, a qualche minuto a piedi dal giornale, concittadini che andavano al lavoro sulla Piccadilly a sud di King’s Cross, e altri su un autobus della linea 30 che proseguiva dopo Russell Square aprendosi la strada nell’ora di punta, sono stati crudelmente aggrediti senza alcun preavviso, nel quadro di un assalto coordinato mirato a uccidere: e che ci è riuscito, assassinando e ferendo indiscriminatamente decine di lavoratori londinesi.

Come i predecessori di fronte agli antichi orrori, anche la nuova generazione di londinesi ha risposto a questo inconsulto gesto malvagio – che in termini di perdita di vite umane sembra essere il più grave atto terroristico della nostra storia recente – con un insieme di calma e coraggio. Era un evento, come ci è stato ripetutamente detto da polizia e responsabili della sicurezza, piuttosto probabile. Quando è avvenuto, sembra essere stato accettato senza amarezza. A pochi minuti dalle prime notizie sulle esplosioni in metropolitana, erano rapidamente entrati in vigore i piani fi emergenza. Giù nel buio, nonostante il fumo, le macerie, la morte e i pericoli, i passeggeri sono stati evacuati, per la maggior parte senza scene isteriche, dai servizi d’emergenza che mettevano in pratica azioni ben preparate. In superficie, nelle strade, mentre i trasporti si fermavano, decine di migliaia di persone continuavano a piedi verso il proprio posto di lavoro senza protestare, attraverso le strade sotto la pioggia del mattino. I mercati azionari, in caduta in un primo momento, hanno recuperato freddezza più tardi: la City come metafora di tutta la città. Come già successo a New York l’11 settembre 2001 e a Madrid l’11 marzo dell’anno scorso, eventi di dimensioni molto maggiori con cui ad ogni modo occorre confrontarsi, le storie del 7 luglio 2005 a Londra non sono solo di tragedie individuali, ma anche di singoli atti di eroismo e fredda determinazione.

Meno di 24 ore prima che scoppiassero le bombe, Londra si era guadagnata il plauso del resto del mondo per aver offerto un’Olimpiade basata sulla speranza e inclusione per tutte le razze, religioni e nazioni. Come ha detto ieri Ken Livingstone, queste bombe sono un assalto diretto a quella nobile a mirabile visione. Questo non è stato un attacco contro governanti e potenti. È stato, come hanno ripetuto con parole diverse sindaco e altri rappresentanti della città, un’aggressione ai cittadini comuni, uomini e donne, giovani e vecchi, bianchi e neri, cristiani, musulmani, indù, ebrei che, tutti, aborrono questa violenza. Il Rabbino Capo ha ben colto nel segno quando ha detto, ieri, che le bombe sono la rabbia degli infuriati contro gli innocenti e gli indifesi. E tuttavia la cosa importante è che alla furia non si è risposto con la furia. Londra si è guadagnata le Olimpiadi perché è una città aperta e tollerante. Il modo in cui i londinesi hanno risposto a questo attacco maligno rivendica lo spirito olimpico.

I leaders mondiali riuniti a Gleneagles per il vertice dei G8 sono stati rapidi a cogliere il contrasto fra il messaggio di odio delle bombe di ieri e quello di speranza che continuano a sostenere uscirà dalle loro trattative in Scozia oggi. Hanno avuto ragione, a mettere in luce lo iato fra la barbarie delle azioni terroristiche e gli sforzi di questa settimana per affrontare la povertà in Africa e gli effetti del mutamento climatico. Allo stesso modo, è importante tenere in mente la rabbia provocata nel mondo islamico e arabo dalle azione di alcune nazioni rappresentate a Gleneagles. Robin Cook, su queste stesse pagine, parla a nome di molti scrivendo: “Il Presidente Bush giustifica l’invasione dell’Iraq sulla base del fatto che combattere il terrorismo all’estero protegge l’occidente dal terrorismo sul proprio territorio. Qualunque altra cosa si possa dire in difesa della guerra in Iraq oggi, non si può certo affermare che ci abbia protetto dal terrorismo sul nostro suolo”.

Il terrore del passato aveva un fine politico. Era un mezzo per raggiungere uno scopo. Potevamo sconfiggerlo, subirlo, negoziare con esso. Un terrore come quello di ieri è più elusivo e meno formalizzato. Non si tratta di un movimento o di un esercito in alcuna accezione tradizionale del termine. Il suo senso di sé è apocalittico piuttosto che politico. È difficile individuare una risposta alle sue domande, anche se negoziazioni fossero praticabili o accettabili. Lottare contro questo terrorismo dunque richiede una costante messa in campo di strategie intelligenti: protezione e sicurezza della società e delle città che ne sono le vittime potenziali, e contemporaneamente riconoscere il bisogno di prosciugare per quanto possibile il serbatoio di sofferenze da cui il terrorismo trae la propria forza.

Ieri è stata una giornata oscura, con gesti infami compiuti da gente pericolosa. Gli assassini, se sono ancora vivi, devono essere assicurati alla giustizia, e non abbiamo alternative al restare in guardia contro la probabilità che ci siano altri che complottano per nuovi attacchi. Mr. Blair ha avuto ragione a insistere sul fatto che la nostra determinazione a difendere valori e stili di vita deve essere incrollabile. Ciò significa certo essere implacabili di fronte alla minaccia diretta del nemico terrorista. Significa abili politiche e lavoro investigativo sul lungo periodo. Ma comporta anche il comprendere perché alcune persone possano essere portate a commettere atti così infami e maligni, non semplicemente aumentare i livelli di sicurezza per impedire che essi avvengano ancora. Significa legarsi risolutamente ai valori che rendono la società aperta degna di essere vissuta, compresi tolleranza e libertà civili. Alla fine, come hanno detto sia Mr. Bush che Mr. Blair, è il contrasto che conta. È un conflitto di valori. Ma non è solo il contrasto fra l’odio dei terroristi e l’operato dei leaders mondiali che cambierà il flusso delle cose. È il contrasto tra il furore dei terroristi e la rispettabilità delle persone comuni, come i londinesi hanno potentemente dimostrato ieri.

Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

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