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Judith Butler e Paola Rudan
Di cosa abbiamo (davvero) bisogno
20 Febbraio 2017
de homine
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Definire un benessere ecologicamente sostenibile. Per immaginare un modo di vivere alternativo all'impero delle merci, occorre prima di tutto riflettere su ciò di cui abbiamo veramente bisogno».

il manifesto, "Le Monde diplomatique" 16 febbraio 2017 (c.m.c.)

Con un colpo di genio, il capitalismo del dopoguerra è riuscito a riorientare la volontà di cambiamento verso l’insaziabile desiderio di consumare. Questo modello si scontra ormai con un limite invalicabile: l’esaurimento delle risorse naturali. Per immaginare un modo di vivere al tempo stesso soddisfacente e sostenibile, non basta rifiutare l’impero delle merci. Occorre prima di tutto riflettere su ciò di cui abbiamo bisogno.

La transizione ecologica chiede di fare scelte nel campo dei consumi. Ma su quale base? Come distinguere i bisogni legittimi, che potranno essere soddisfatti nella società futura, dai bisogni egoisti e irragionevoli, che dovremo rinunciare a soddisfare? È la domanda che affronta il Manifeste négaWatt (Manifesto negaWatt), uno dei saggi di ecologia politica più stimolanti fra quelli di recente pubblicazione, scritto da specialisti dell’energia (1).

Un negaWatt è un’unità di energia risparmiata – «nega» sta per negativo. Grazie alle energie rinnovabili, all’isolamento termico degli edifici e all’accorciamento dei circuiti economici, è possibile secondo gli autori mettere in piedi un sistema economico ecologicamente sostenibile a scala nazionale e anche oltre. Anche allo stato attuale della tecnologia, la nostra società già dispone di importanti «giacimenti di negaWatt».

Il consumismo non è sostenibile, perché aumenta continuamente i flussi di materie prime e il consumo di energia. I suoi effetti alienanti sulle persone, inoltre, non hanno più bisogno di essere dimostrati. Una società «nega- Watt» è una società della sobrietà in cui alcune possibilità di consumo sono deliberatamente scartate perché considerate nefaste. Ma sulla base di quali criteri?

Per rispondere a questa domanda, gli autori del Manifeste distinguono fra i bisogni umani autentici, legittimi, che occorrerà dunque continuare a soddisfare, e i bisogni artificiali, illegittimi, dei quali occorrerà sbarazzarsi. Il primo gruppo comprende quelli definiti «vitali», «essenziali», «indispensabili», «utili» e «convenienti». I secondi quelli ritenuti «accessori», futili», «stravaganti», «inaccettabili», «egoisti».

A questo punto si pongono due problemi. In primo luogo, come definire un bisogno «essenziale»? Che cosa lo distingue da un bisogno «accessorio» o «inaccettabile»? E poi, chi decide?

Quali meccanismi o istituzioni conferiranno una legittimità alla scelta di soddisfare un determinato bisogno anziché un altro? Il Manifeste négaWatt non dice niente in merito.

Per rispondere a queste domande, è opportuno fare riferimento a due pensatori critici e pionieri dell’ecologia politica: André Gorz e Ágnes Heller, autori negli anni 1960 e 1970 di una teoria dei bisogni sofisticata e di grande attualità (2). Entrambi hanno affrontato questi temi a partire da una riflessione sull’alienazione, che può essere misurata sulla base dei bisogni autentici. In effetti, si è alienati rispetto a uno stato ideale al quale si cerca di tornare, o che si cerca di raggiungere.

Il concetto indica il processo mediante il quale il capitalismo suscita bisogni artificiali che ci allontanano da questo stato. Oltre a essere alienanti, la maggior parte di questi bisogni sono ecologicamente irrealistici

Un compito urgentissimo del nostro tempo

Che cos’è un bisogno «autentico»? Si pensa naturalmente alle esigenze dalle quali dipendono la sopravvivenza e il benessere dell’organismo: mangiare, bere, proteggersi dal freddo, ad esempio. Nei paesi del Sud del mondo, e anche del Nord, alcuni di questi bisogni elementari non sono soddisfatti. Altri, che lo erano prima, lo sono sempre meno. Fino a tempi recenti era normale respirare un’aria non inquinata; ma nelle megalopoli contemporanee è diventato difficile. Vale anche per il sonno.

Oggi, a causa dell’inquinamento luminoso, molte persone stentano ad addormentarsi, perché l’onnipresenza della luce nelle città ritarda la sintesi della melatonina (chiamata «ormone del sonno»). In alcuni paesi, la lotta contro l’inquinamento luminoso ha portato alla nascita di movimenti sociali che rivendicano il «diritto al buio» e chiedono la creazione di «parchi stellati» non inquinati dalla luce artificiale (3 ).

Anche l’esempio dell’inquinamento sonoro è molto significativo per tanti cittadini. Somme di denaro sempre maggiori sono destinate all’insonorizzazione delle abitazioni, per soddisfare un bisogno – il silenzio – prima gratuito. Queste nuove spese sono suscettibili di ridurre il tasso di profitto, ma al tempo stesso offrono fonti di guadagno, per esempio per le imprese specializzate.

Non tutti i bisogni «autentici» sono di ordine biologico. Amare ed essere amati, acquisire conoscenze, dare prova di autonomia e creatività manuale e intellettuale, prendere parte alla vita pubblica, contemplare la natura... Sul piano fisiologico, se ne può certo fare a meno. Ma questi bisogni sono contestuali a una vita umana degna di essere vissuta. André Gorz li chiama «bisogni qualitativi»; Ágnes Heller, «bisogni radicali».

I bisogni qualitativi o radicali si fondano su un paradosso. Il capitalismo, benché sfrutti e alieni, produce alla lunga un certo benessere materiale per importanti settori della popolazione. In tal modo libera gli individui dall’obbligo di lottare quotidianamente per assicurarsi la sopravvivenza.
Nuove aspirazioni, qualitative, acquistano dunque importanza. Ma, man mano che diventa più potente, il capitalismo ne impedisce la piena realizzazione. La divisione del lavoro chiude la persona in funzioni e competenze anguste per tutta la vita, impedendo il libero sviluppo della gamma delle facoltà umane. Al tempo stesso, il consumismo seppellisce i bisogni autentici sotto bisogni fittizi. Raramente l’acquisto di una merce soddisfa una vera mancanza. Procura una soddisfazione momentanea; poi il desiderio che la merce aveva creato si rivolge a un’altra vetrina.

I bisogni autentici, costitutivi del nostro essere, non possono trovare soddisfazione all’interno dell’attuale sistema economico. Ecco perché sono il fermento di movimenti di emancipazione. «Il bisogno è rivoluzionario in nuce», diceva André Gorz (4). La ricerca del suo soddisfacimento porta presto o tardi gli individui a sottoporre a critica il sistema.

I bisogni qualitativi evolvono storicamente. Viaggiare, per esempio, permette all’individuo di arricchire le proprie conoscenze e aprirsi all’alterità. Fino alla metà del XX secolo, viaggiavano solo le élite. Adesso è una pratica resa democratica. Si potrebbe definire il progresso sociale con la comparsa di bisogni sempre più arricchenti e sofisticati, e accessibili ai più.

Ma ecco gli aspetti nefasti. Il trasporto aereo proposto da compagnie low cost contribuisce certo a rendere il viaggio accessibile alle classi popolari, ma emette anche enormi quantità-di gas serra, e distrugge le zone dove i turisti corrono in massa... a guardare altri turisti che stanno guardando quel che c’è da guardare. Viaggiare è diventato un bisogno autentico; ma occorrerà inventare nuovi modi di spostarsi, adatti al mondo di domani.

Se il progresso sociale provoca talvolta effetti perversi, certi bisogni nefasti all’origine possono, al contrario, diventare sostenibili con il tempo. Oggi il possesso di uno smartphone è un bisogno egoista. Questi telefoni contengono «minerali di sangue» – tungsteno, tantalio, stagno e oro –, la cui estrazione provoca conflitti armati e gravi danni ambientali. Ma il problema non è l’apparecchio in sé. Se nascerà uno smartphone «equo» – il Fairphone sembra prefigurarlo (5) –, non c’è ragione perché questo oggetto sia bandito nelle società future. Tanto più che ha portato a forme di socialità nuove, con il continuo accesso alle reti sociali, e grazie al suo utilizzo fotografico. Che incoraggi il narcisismo o produca nevrosi negli utenti non è certo inevitabile. In questo senso, non si può escludere che lo smartphone, attraverso alcuni suoi utilizzi, si trasformi progressivamente in bisogno qualitativo, come è già avvenuto per il viaggio.

Secondo André Gorz, il motto della società capitalista è: « Quello che è buono per tutti non vale nulla. Sei rispettabile solo se hai “meglio” degli altri» (6). Gli si può contrapporre un motto ecologista: « È degno di te solo quello che è buono per tutti. Merita di essere prodotto solo ciò che non privilegia né avvilisce nessuno». Agli occhi di Gorz, la particolarità di un bisogno qualitativo è quella di non lasciare spazio alla «distinzione». Nel regime capitalista, il consumo ha in effetti una dimensione di ostentazione.

Acquistare l’ultimo modello di automobile equivale a esibire uno status sociale (reale o presunto). Un bel giorno, tuttavia, il modello passa di moda e il suo potere distintivo viene meno, provocando il bisogno di un altro acquisto. Questa fuga in avanti insita nell’economia di mercato costringe le imprese che si fanno concorrenza a produrre merci sempre nuove.

Come farla finita con questa logica di distinzione produttivistica? Per esempio, allungando la durata di vita degli oggetti. Una petizione lanciata da Amis de la Terre (Amici della Terra) chiede che si porti da due a dieci anni la garanzia per le merci un obbligo sancito da leggi europee (7).

Oltre l’80% degli oggetti in garanzia viene riparato; la percentuale scende a meno del 40% una volta scaduta la garanzia. Morale: più la garanzia è lunga, più gli oggetti durano, e la quantità di merci vendute e dunque prodotte diminuisce, limitando in tal modo le logiche di distinzione che spesso si basano sull’effetto novità. La garanzia è la lotta di classe applicata alla durata di vita degli oggetti.

Chi determina il carattere legittimo o no di un bisogno? Qui c’è un pericolo, che Ágnes Heller chiama la «dittatura dei bisogni» (8), analoga a quella che vigeva nell’Urss. Se è una burocrazia di esperti autoproclamati a decidere quali sono i bisogni «autentici», e di conseguenza le scelte di produzione e di consumo, queste hanno poche possibilità di essere giudiziose e legittime.

Affinché la popolazione accetti la transizione ecologica, le decisioni che la sottendono devono ottenere l’adesione generale. Stabilire una lista di bisogni autentici non ha nulla di facile e presuppone una continua deliberazione collettiva. Si tratta dunque di mettere in essere un meccanismo che parta dal basso, in grado di identificare democraticamente i bisogni ragionevoli.

È difficile immaginare questo meccanismo. Tracciarne i contorni è un compito urgente del nostro tempo; da questo dipende la costruzione di una società giusta e sostenibile. Il potere pubblico ha certamente un ruolo da giocare, per esempio tassando i bisogni futili per democratizzare i bisogni autentici, regolando le scelte dei consumatori. Ma si tratta di convincere della futilità di diversi bisogni; e per questo, occorre un meccanismo posto il più vicino possibile alle persone. Occorre sottrarre il consumatore al suo testa a testa con la merce e riorientare la libido consumandi verso altri desideri.

La transizione ecologica ci invita a fondare una democrazia diretta, più deliberativa che rappresentativa. L’adattamento delle società alla crisi ambientale presuppone una riorganizzazione da cima a fondo della vita quotidiana delle popolazioni. Ma questo non può avvenire senza mobilitarle, senza far leva sulle loro conoscenze e sul loro saper fare, e senza trasformare in un simile movimento le soggettività consumatrici. Dobbiamo dunque arrivare a una nuova «critica della vita quotidiana»; una critica elaborata in maniera collettiva.

(1) Association négaWatt, Manifeste négaWatt. en route pour la transition énergétique! ,Actes Sud, coll. «Babel Essai», Arles, 2015 (1 ed.: 2012).

(2) André Gorz, Stratégie ouvrière et néocapitalisme, Seuil, Parigi, 1964, e Á gnes Heller, La teoria dei bisogni in Marx , Feltrinelli, Milano, 1980.

(3 ) C fr. Marc Lettau, Face à la pollution lumineuse en Suisse, les adeptes de l’obscurité réagissent, Revue suisse, Berne, ottobre 2016.

(4) André Gorz, La Morale della storia, Il Saggiatore, Milano 1963 .

(5) Si legga Emmanuel Raoul, È possibile fabbricare un telefono equo?, Le Monde diplomatique/ il manifesto, marzo 2016.

(6) Si leggano André Gorz, La loro ecologia la nostra, Le Monde diplomatique/ il manifesto,aprile 2010, e Antony Burlaud,André Gorz, verso l' emancipazione, Le Monde diplomatique/ il manifesto, dicembre 2016.

(7) «Signez la pétition Garantie 10 ans maintenant», 24 ottobre 2016, www.amisdelaterre.org

(8) C fr. Ferenc Fehér, Ágnes Heller e György Má rkus, Dictatorship Over Needs, St. Martin’s Press, New Y ork, 1983 .

(Traduzione di Marianna De Dominicis)

le Monde diplomatique

il manifesto

n. 2, anno XXIV, febbraio 2017 s

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