Marco Guerzoni mi ha mandato questi quattro testi, adoperati in differenti occasioni nella campagna elettorale:
La città di luoghi
Più case , meno cemento
Una nuova stagione urbanistica
Brandelli di urbanistica
La lettura di Pentesilea, "città continua" di Calvino, mi dà la possibilità di affrontare il tema proposto in questa serata, dalla parte non tanto della città (le periferie sono l'esito di un processo relativo alla città in quanto tale) ma piuttosto dalla parte, per così dire, del territorio.
Mi pare di poter dire, e ne abbiamo discusso a lungo in questi ultimi tempi con altri amici e colleghi (e la letteratura è abbondante in materia), che sia indubbio ed evidente il processo di trasformazione che il territorio contiguo e fortemente relazionato alle città, che qualcuno chiama regione metropolitana, ha subìto negli ultimi anni del secolo appena trascorso. Una modificazione fisica innanzi tutto: il territorio metropolitano è più costruito, più infrastrutturato di ieri. I paesini si sono espansi. Le frazioni ospitano nuovi edifici residenziali. I casolari agricoli vengono progressivamente riconvertiti in edifici esclusivamente residenziali. I luoghi completamente naturali sono sostanzialmente scomparsi o ridotti a pochi frammenti relittuali.
Guardando a Bologna, alla sua pianura, è sufficiente ripercorrere - anche solo di anno in anno - la via Emilia, o la Persicetana, o la Galliera, per toccare con mano la trasformazione del paesaggio a cui mi riferisco.
Si tratta anche di una cambiamento sociale: è noto che la Città di Bologna sta espellendo residenti da ormai 3 decenni, a favore del territorio circostante, verso i comuni di cintura in una prima fase, e oggi questa "migrazione" procede anche nei municipi più lontani e nelle località più disperse e piccole del tessuto agricolo. La gente insomma, un po' per libera decisione e un po' per le imposizioni di una città sempre più inquinata, caotica e costosa, sta progressivamente lasciando Bologna per abitare il territorio vasto. Se ne vanno i ceti "medi", che ripopolano le campagna e i comuni della provincia, e rimangono i ceti "bassi" e quelli "alti", che per opposte ragioni possono permettersi la vita nella città.
Lo stesso, o quasi, vale per le attività produttive in senso lato: rimangono quelle a più alto profitto e se ne vanno quelle a più alto impiego di lavoro; rimangono o arrivano le boutiques e se ne vanno le botteghe, che tuttavia non si ricollocano nel territorio metropolitano, ma semplicemente spariscono, perché nel territorio metropolitano nascono i centri commerciali, gli shopping center, o i più recenti outlet.
Sembra quindi che si possa ragionare in termini di una relativamente nuova dicotomia: se nel dibattito "storico" sulle città i termini a confronto erano centro e periferia (o città e campagna), oggi i termini a confronto sembrano essere città consolidata (o città centrale) e regione metropolitana, cioè quell'intorno di relazioni, di vita e di produzione, piuttosto difficile da confinare con precisione, ma che nei fatti esiste, e che soprattutto viene oggi adoperato in maniera complessa, con relazioni pluridirezionali, in maniera erratica e non più sistematica. In altre parole un territorio che ha diverse funzioni collocate non solo nella città di Bologna per esempio, ma anche in molti altri luoghi della provincia, e che perciò viene percorso e vissuto in modo intenso e in diverse direzioni, per consumare e produrre, per dormire o svagarsi.
Vengo così all'oggetto della mio intervento. E' possibile che il territorio metropolitano che ho sommariamente richiamato costituisca - o rischi in futuro di costituire - una nuova forma di periferia? Possiamo cioè dire che le nuove forme dell'abitare metropolitano possano oggi o domani soffrire degli stessi mali di cui soffrono le periferie classicamente intese? E, in caso affermativo, esistono indirizzi per limitare, circoscrivere, questi fenomeni?
Intanto bisogna subito dire che esiste una differenza sostanziale tra quelle che usualmente chiamiamo periferie e il territorio metropolitano. Le prime sono, in qualche modo, l'esito concreto di un certo tipo di governo, di una certa urbanistica, di certe decisioni amministrative. Il territorio metropolitano, nei contorni che prima ho richiamato, sembra invece l'esito, per certi versi, di un processo più spontaneo, meno governato, meno deciso.
Le decisioni ci sono state certo, perché ciascun comune della pianura bolognese ad esempio, ha deciso come e dove costruire, secondo le sue convenienze, le case, le fabbriche, le scuole, ma nessuno ha mai deciso per l'insieme dei comuni; intendo dire che se c'è stata una razionalità nella costruzione delle singole parti, dei singoli comuni, la composizione, la somma di queste singole "parti del tutto", non sembra dare un disegno complessivamente razionale: questo "spazio vuoto della decisione" sembra essere il luogo della spontanea formazione del territorio metropolitano.
Perciò bisogna riconoscere la diversità "genetica" di questi due differenti "mondi".
Ci sono ulteriormente 4 elementi, 4 temi, che possono aiutare a comprendere i fenomeni di cui parlo, le similitudini e le differenze.
L'accessibilità
La qualità
L'identità
I costi
L'accessibilità
La periferia è il luogo per definizione "poco accessibile", o meglio il cui accesso è più faticoso, perchè magari arrivano pochi autobus, perché il percorso a piedi per arrivare "in centro" o al lavoro, o a scuola, è troppo lungo e quello in bicicletta troppo accidentato. Perché l'automobile, in questo caso, è poco adatta se nel "centro" non puoi parcheggiare liberamente, o durante il tragitto il traffico snervante induce a continui ritardi.
Il territorio metropolitano, al contrario, è la "patria" dell'automobile. Tutti gli spostamenti, o la maggior parte, si svolgono con la macchina. Perché il trasporto pubblico non può arrivare ovunque e perché le necessità del "cittadino metropolitano" implicano spostamenti frammentati, a volte imprevedibili.
La periferia poi è il luogo in cui non si hanno i servizi sotto casa, per cui bisogna spostarsi per andare a far la spesa, o dal medico, o per andare a scuola. Più questi spostamenti sono complessi e lunghi, più siamo "perifierici". La stessa condizione, anche se a scala diversa, si osserva nel territorio metropolitano, ma ancora una volta gli spostamenti necessari avvengono generalmente con l'automobile e per percorsi più lunghi
L'identità
La periferia è un luogo, passatemi il termine semplicistico, senza storia o con "poca storia". Sono luoghi di relazioni labili, di un vicinato che fatica ad essere amichevole. In cui la "produzione sociale" è complicata, poco agevole. Ci sono a Bologna (ma anche in altre città) esempi di "periferie consolidate", "periferie storiche", la cui identità è riconoscibile: ma quelle sono diventate, per così dire, nuova città (non sono più periferie), in ragione di una buona progettazione, di buona dotazione di servizi, cioè di "buone decisioni pubbliche".
Il territorio metropolitano è formato da luoghi con importante identità. Le frazioni rurali, i capoluoghi e i nuclei dei comuni sono, nella stragrande maggioranza dei casi - almeno qui a Bologna - luoghi con una storia importante, riconoscibili, identitari. Ma il territorio metropolitano è anche "colonizzato", passatemi il termine, da "nuovi luoghi" e da "non luoghi" (nuove zone residenziali isolate nella campagna; isole commerciali; cittadelle sportive; grandi complessi cinematografici multisala ecc). Non voglio dilungarmi su questi fatti ma solo dire che il territorio metropolitano oggi è eterogeneo, fortemente eterogeneo, al punto che spesso le funzioni insediate nelle sue diverse parti tendono a confliggere le une con le altre, a generare cioè "zone critiche".
La qualità
Qui dico veramente poche cose e banali, per questioni di tempo. Le periferie sono spesso prive di qualità formale ed estetica. Poche periferie si possono dire "belle". Sono poco curate, progettate "in economia", poco manutenute. Il paesaggio urbano spesso è per nulla affascinante.
Il territorio metropolitano, e qui mi riferisco specificamente a Bologna, grazie alla sua storia e alle sue diversità è ricco di "paesaggio" e in qualche modo anche di "bellezza"; ma tuttavia, per i fatti che ricordavo poco fa, la metropolizzazione di questo territorio tende a far scomparire progressivamente questi connotati. C'è una tendenza continua a compromettere il tessuto agricolo e quello storico testimoniale; a corrompere, passatemi il termine, "l'identità dei luoghi".
I costi
Ultima questione, molto brevemente. I costi legati a differenti "modi di abitare".
Si può dire che esista una discriminante economica che divide le periferie dal territorio metropolitano: i costi che la collettività sopporta, direttamente o indirettamente, per conseguenza dei due diversi "modi di abitare".
Dicevo prima che il territorio metropolitano è la "patria" dell'automobile. Questo vuole dire che nel territorio metropolitano si consuma proporzionalmente più energia che nella città "compatta": più carburante per gli spostamenti, e quindi si produce più inquinamento. Ma gli spostamenti massicci danno origine anche ad altri costi: per esempio l'incidentalità stradale, che sappiamo essere una piaga di dimensioni rilevanti.
Certo, anche nella città consolidata e nelle sue periferie, si consuma parecchia energia per gli spostamenti, perché comunque l'auto è adoperata; e pure anche gli incidenti stradali avvengo. Me esiste una differenza: che nella città "compatta" i sistemi di trasporto pubblico - cioè i servizi in grado di porre rimedio al problema dell'inquinamento e dell'incidentalità - sono competitivi con il trasporto privato, cioè con le automobili: lungo un chilometro di periferia cittadina si intercettano molti più utenti potenziali che in un chilometro di territorio metropolitano, e di conseguenza i costi unitari del trasporto pubblico sono assai minori in città; e ciò permette di costruire sistemi e politiche per la mobilità più capillari ed efficienti, quindi più competitivi. Il territorio metropolitano se procederà nella sua costruzione "spontanea", al contrario, non consente e non consentirà queste efficienze.
Conclusione
Concludo, cercando di rispondere alla mia domanda d'apertura (i territori metropolitani sono o rischiano di diventare nuove periferie?).
Io credo che oggi, i territori metropolitani non siano ancora "periferie", ma la tendenza a diventare "periferie" esiste, è concreta e reale.
Il territorio metropolitano rischia di diventare nuova periferia se non si governano i processi spontanei. Attenzione, non voglio dire che bisogna impedire i processi spontanei, bisogna governarli, cioè serve più capacità di governo e più governo pubblico specialmente in relazione ai 4 temi richiamati: cioè governare l'accessibilità e la mobilità, trovando le convenienze e i modelli insediativi metropolitani idonei a rendere competitivo il trasporto pubblico; è necessario progettare e pianificare per aumentare e non ridurre l'identità e la qualità dei luoghi. E' infine necessario ripensare, riformare, il sistema della fiscalità locale, per trovare nuovi equilibri e sistemi compensativi, tra costi e benefici delle diverse funzioni di questi territori metropolitani. Certamente è poi fondamentale ridare qualità "al centro", alla città compatta, per vivere meglio anche nel territorio metropolitano.
Insomma, e chiudo veramente, mi pare che progettare il futuro delle nostre aree urbane significhi, per usare uno slogan, pensare ad un sistema relazionale e interdipendente di più luoghi: una città di città.
Qualche tempo fa, in una trasmissione televisiva, mi è capitato di ascoltare un esponente del Governo della Repubblica e un esponente dell’opposizione parlamentare, concordare sul fatto che il “problema della casa” in Italia è una “bomba a orologeria”, che prima o poi mostrerà la sua forza dirompente. Lo stesso esponente del Governo (per la cronaca si tratta di Mario Baldassarri, viceministro dell’Economia) faceva seguire a questa cruda osservazione una soluzione semplice: per risolvere il problema della casa in Italia bisogna costruire più case!
Devo dire che se qualcuno cercasse ancora motivi per distinguersi dalla destra di governo, questo è certamente un buon argomento: sostenere infatti che oggi il problema abitativo delle famiglie italiane si risolva con l’incremento massiccio di edilizia residenziale è un atteggiamento retrogrado, populista e rozzo, connotati questi, tipici appunto di quella destra che oggi sta al governo.
Perché basta leggere qualche dato, nella prospettiva storica, sulla dinamica delle famiglie, del lavoro e delle abitazioni per capire che la massiccia edificazione di case, la massiccia urbanizzazione del territorio, c’è già stata (e continua ad esserci) ma ha risolto solo parzialmente il problema abitativo degli italiani; non ha dato risposte alle esigenze dei cittadini migranti; sta impedendo la mobilità delle forze lavoro che per le esigenze occupazionali si spostano sul territorio nazionale; sta selezionando drasticamente la popolazione universitaria, respingendo coloro che, pur nella volontà di formarsi presso gli istituti pubblici non possono permettersi gli affitti delle città universitarie: tutto questo, che già non mi pare un bel risultato, è avvenuto compromettendo in modo grave l’equilibrio del territorio e dell’ambiente, gravità cui oggi si risponde con l’ennesimo infame condono edilizio.
Allora, cerchiamo di essere seri: si tratta non tanto di aumentare ulteriormente e indiscriminatamente la dotazione di case, ma semmai di usare con maggiore efficienza il patrimonio edilizio e di suoli urbanizzati, già esistente, tramite processi di ristrutturazione, di riqualificazione, di ridimensionamento, intervenendo prioritariamente sui suoli cittadini già urbanizzati e defunzionalizzati: si tratta cioè di organizzare forti politiche pubbliche, capaci di mobilitare le leve della fiscalità locale per incentivare i comportamenti virtuosi e penalizzare quelli speculativi.
Qualcuno attribuisce a queste posizioni la volontà di impedire lo sviluppo del settore delle costruzioni e dell’indotto che esso produce: sono, queste, affermazioni fuori dalla realtà. Non si tratta infatti di chiudere la produzione edilizia, e di ignorare la ricchezza materiale che essa produce, ma di indirizzarla verso innovazioni di processo e di prodotto che garantiscano l’occupazione e le imprese, nel rispetto delle esigenze di vivibilità della collettività e dell’equilibrio ambiente.
Come dicevo, per comprendere l’inconsistenza della tesi di chi propone un futuro con più cemento per risolvere il problema della casa, bisogna ricordare che la superficie urbanizzata di Bologna negli anni cinquanta era di circa 1.400 ettari; negli anni ottanta è aumentata fino a 3.800 ettari e oggi, nel duemila, la superficie urbanizzata di Bologna è di oltre 5.800 ettari: questo significa che in cinquant'anni il suolo costruito (le case, le strade eccetera) si è praticamente quadruplicato, e la sua incidenza sul suolo agricolo o "non urbano" (cioè la collina, le aste fluviali e gli ultimi cunei agricoli) è passata dal 10% degli anni cinquanta a oltre il 40% di oggi: una crescita che non ha eguali nella storia di questo territorio.
Significa anche che un cittadino bolognese solo vent'anni fa - negli anni '80 - aveva a disposizione in media, circa 80 metri quadrati di suolo urbanizzato mentre oggi ne ha a disposizione oltre 150, cioè quasi il doppio.
E ancora, oggi a Bologna ci sono quasi 4 mila famiglie in meno rispetto a 20 anni fa ma ci sono 6 mila case in più.
Questi dati parlano chiaro dunque: l’abbondanza di suoli costruiti e di stock di abitazioni è evidente, così come è evidente che questa abbondanza non sembra rispondere con efficienza alla domanda abitativa della città; altrimenti non si spiegherebbero i problemi e le crisi ben documentati da Valerio Monteventi nella sua relazione.
Allora che fare?
Intanto bisogna distinguere il problema abitativo nelle sue diverse componenti, e riconoscere che esiste ancora, ed esisterà in futuro, una frazione consistente della domanda abitativa cui solo l’intervento pubblico può rispondere: l’edilizia residenziale pubblica è, in questo senso, una risorsa strategica che va incrementata e razionalizzata, e non ridotta e svenduta
Bisogna operare un rigoroso controllo e una ferrea valutazione dei processi di dismissione e alienazione del patrimonio di edilizia pubblica, per impedire che il prezioso capitale sociale accumulato in questi anni, vada disperso. L’alienazione del patrimonio pubblico è da considerarsi un attività “straordinaria”, e non una politica cui ricorre sistematicamente: l’alienazione può essere accettata solo quando sia utile a generare realmente altro capitale sociale, e non “flussi di cassa”.
Il reperimento di quote, in termini di “superficie edificabile”, da destinare all’edilizia sociale deve essere affrontato anche a partire da condizioni negoziali - tra il Comune e i proprietari delle aree - marcatamente differenti dal passato. Nelle zone di trasformazione o di espansione urbana, che producono elevata rendita privata, è necessario “pretendere” quote significative e consistenti di superficie utile da non destinare al libero mercato della residenza, ma ad altre forme: edilizia sociale “pura”, a quella convenzionata, a quella per l’affitto concordato permanente e “a tempo”; all’edilizia cooperativa a proprietà indivisa.
Per ciò che riguarda l’affitto a libero mercato bisogna prendere atto della sostanziale inefficacia della legge 431/98, quella dei così detti “canoni concordati”. Il numero di contratti siglati con le fattispecie previste da questa legge è irrisorio, e le “calmierazioni” ottenute sono ancora troppo basse rispetto al tenore del mercato di Bologna. Nella speranza di una radicale riforma di legge, bisogna intanto agire su alcune leve possibili:
su quelle fiscali, per premiare i comportamenti virtuosi e penalizzare quelli speculativi.
Bisogna poi, al di là di quanto prevede la legge, promuovere un vero “patto tra amministrazione pubblica, parti sociali e imprenditori”: se il fine di tutti deve essere quello di creare migliori condizioni di vivibilità, per assicurare le “utilità” di ciascuna parte, è indubbio che sia urgente riconoscere che queste condizioni sono legate anche alla “ricchezza delle famiglie” e perciò, implicitamente, all’incidenza dei canoni di mercato sui redditi. Bisogna cioè intervenire per regolare il mercato, proporre una disciplina certa e stabile, perché esso diventi un vero mercato e non un cartello che specula su un diritto fondamentale di cittadinanza: il diritto alla casa.
La questione dell’università e degli studenti. La condizione di forte presenza di studenti fuori sede, nel mercato bolognese, produce evidenti distorsioni, perché dalla “competizione” tra la disponibilità a pagare degli studenti che oggi si possono permettere di studiare (assieme alla loro, diciamo così, “flessibilità” abitativa) rispetto alla disponibilità a pagare delle famiglie, dall’altra parte, ne è conseguito un aumento straordinario degli affitti e una progressiva esclusione dei segmenti sociali più deboli e oggi anche delle classi medie, sia nel contesto degli studenti che in quello delle famiglie residenti.
Fermo restando la necessità di rilanciare, con l’università, una politica di assistenza e di tutela per gli studenti in condizioni di specifiche necessità, è opportuno agire su due fronti:
dare consistenza pratica al decentramento universitario alla scala metropolitana, favorendo questa delocalizzazione con le garanzie di una efficiente mobilità permessa dall’entrata a regime del Servizio Ferroviario Metropolitano e dei trasporti urbani di massa;
operare “iniezioni”, consistenti e diffuse, di edilizia speciale (tipologie specifiche per la residenza degli studenti) destinata al libero mercato, integrata con la struttura urbana e con i suoi servizi, al fine di dirottare quote massicce di studenti “fuori” dal mercato abitativo “per le famiglie”, incentivando i privati ad intervenire in questo settore e riproponendo meccanismi di convenzionamento per una parte del nuovo realizzato.
Non mi soffermo su altre proposte perchè Valerio Monteventi le ha già anticipate. Solo un ultima considerazione. Chi paga?
Chi paga è la domanda che sempre si pone quando si tratta di dare servizi pubblici e di governare un territorio. Perché oggi la casse dei comuni sono sempre più vuote e i canali di finanziamento statale son sempre meno generosi.
A me pare che in queste condizioni di forte contrazione della capacità di spesa pubblica sia necessario stabilire delle priorità, escludendo dalla lista le attività meno prioritarie o addirittura inutili.
Allora bisogna dire con forza, per esempio, che la metropolitana che Guazzaloca sta ostinatamente portando avanti non è una priorità! Si potrebbe cominciare da qui a riprogrammare il finanziamento delle attrezzature pubbliche e delle politiche sociali.
Nei giorni scorsi su un giornale cittadino si leggeva che uno dei meriti maggiori della giunta Guazzaloca è stata la continuità con un percorso politico tutto sommato già in essere. Si parla di un’amministrazione che non ha portato cambiamenti forti alla città, che ha governanto dinamiche considerate ineluttabili; che non ha perciò provocato schok ai cittadini.
E dunque “il continuismo” sembra essere di per sé un valore positivo, almeno per alcuni osservatori e alcuni politici.
Io non sono – in nulla – d’accordo con questa tesi. Questo Sindaco, che io mi auguro torni presto alla tranquillità della vita privata, è il simbolo della degenerazione di errori commessi in passato. Altro che continuismo positivo…
Bologna ha un Piano Regolatore che è del 1989. Per questioni complicate che non sto a raccontarvi, tutte comunque legate alla politica e agli interessi economici che alla fine degli anni ottanta si scontrarono drammaticamente, il nostro Piano Regolatore, tutt’oggi vigente, ha delle previsioni di crescita fisica della città molto grandi. Cioè si era prevista una crescita dell’economia e uno sviluppo demografico che nei fatti non si è verificato. Perciò ci troviamo oggi con un residuo di suoli edificabili, molto consistente, che in assenza di una forte ripresa demografica e un’altrettanto forte impulso dello sviluppo produttivo, sarà difficile utilizzare completamente anche nei prossimi anni.
Nonostante questa condizione, la Giunta Guazzaloca ha appena deliberato una proposta di nuovo Piano Regolatore (che oggi, in base alla nuova legge, si chiama Piano Strutturale), che raddoppia di fatto le capacità residue del vecchio Piano, prospettando in questo modo un futuro in cui il libero mercato potrà costruire qualcosa come 20 – 25 mila nuovi appartamenti.
Per capire il tenore di questa ondata di cementificazione bisogna dire che oggi a Bologna si costruiscono mediamente 500-600 alloggi l’anno: significa che a questi ritmi, se non si intervenisse per interrompere il processo proposto dalla giunta Guazzaloca, verrebbero ipotecati i prossimi 40 anni di sviluppo a Bologna. Una condizione che impone alle forze progressiste di alzare la voce per opporsi in modo radicale a questo stato di cose, e ai cittadini di manifestare il loro dissenso il 12 e il 13 giugno prossimo, nel decisivo appuntamento elettorale.
Nonostante le ampie possibilità di costruzione offerte dal Piano Regolatore vigente, dalla seconda metà degli anni ’90, si è cominciato ad usare uno strumento urbanistico che nella sua natura doveva servire per “riqualificare” parti della città particolarmente sofferenti, dal punto di vista dei servizi, del verde, della casa ecc.
A Bologna invece si è interpretato questo strumento come un modo facile e speditivo per rendere edificabili alcuni suoli che il Piano Regolatore aveva molto oppoprtunamente scartato, per trasformare piccoli magazzini, per riempire vuoti interstiziali, e molto raramente per trasformare zone produttive dismesse in strutture e funzioni rispondenti alle domande della collettività. Perché le trasformazioni operate in questi anni, avvenute col nome di riqualificazione, sono state – quasi esclusivamente – orientate a costruire residenza per il libero mercato della vendita, a prezzi così alti che oggi Bologna è in cima alle classifiche delle città in cui le case costano di più. Questo tipo di riqualificazione, invece di sgravare la città dalle condizioni di un certo affaticamento, ha imposto pardaossalmente ultireriori condizioni di stress alle zone interessate dalle trasformazioni.
Le quantità edilizie messe in gioco, con questa riqualificazione, investono complessivamente quasi 110 ettari di suolo cittadino, per una capacità edificatoria di 320.000 mq si superficie, della quale il 70% destinata a residenza, che tradotto significa circa 2.500 - 3.000 nuovi alloggi. Di cui, ripeto, solo un numero irrisorio (sotto al 3-4%) è stato dedicato all’affitto a canoni fuori mercato.
Non bisogna pensare che in occasione di questa campagna elettorale, le attività speculative si siano non dico arrestate, ma per lo meno congelate. Basta leggere i giornali per rendersi conto che l’amministrazione comunale continua a mietere progetti da approvare con urgenza straordinaria, per sdoganarli prima della chiusura del mandato: ecco allora che sorgeranno torri in via della Villa – nella zona fiera; che sorgeranno appartamenti e un hotel nell’area ex SEABO; che si promettono parcheggi multipiano alla STAVECO; che al posto dell’ex mercato ortofrutticolo si costruirà di tutto fuorchè strutture e servizi utili alla bolognina e strategiche per la città metropolitana, vista la stretta relazione con la stazione ferroviaria, che si appresta a diventare una delle più trafficate d’Italia.
ALLORA CHE FARE?
Intanto bisogna ridiscutere subito le proposte contenute nel nuovo Piano Strutturale, per impedire ulteriori speculazioni sui suoli vergini, agricoli, naturali.
Biasogna puntare sulla vera riqualificazione - dentro al Piano Strutturale - dei tessuti già edificati e oggi dismessi: quella riqualificazione che ha il coraggio politico di togliere cemento per far spazio al verde e ai servizi; la riqualificazione che pone al centro dell’edificazione non solo la rendita privata dei legittimi proprietari ma anche e soprattutto il dramma dei cittadini che cercano case a costi regionevoli. Una riqualificazione che deve avvenire all’interno di un disegno organico per la città, una prospettiva cioè che solo un Piano Strutturale può garantire.
Terzo punto, e ho finito. Sembra incredibile, ma Bologna non ha ancora un Piano dei Servizi, non ha cioè un programma pluriennale che in base alle previsioni di sviluppo edilizio e socio economico, e in base alle necessità di ciascun quartiere, predisponga in tempo, gli asili nido, le scuole materne, i parcheggi, le aree verdi e tutta la gamma di servizi necessari ad una vita dignitosa. Questa situazione non può protrarsi ulteriormente: un bilancio e un conseguente piano dei servizi è oggi una delle priorità per Bologna.
«Esistono due modi per uccidere: uno, designato apertamente col verbo uccidere; l’altro, quello che resta di norma sottinteso dietro il delicato eufemismo: “rendere la vita impossibile”. È la forma di assassinio, lenta e oscura, consumata da una folla di complici invisibili. È un “auto-da-fé” senza “coroza” e senza fiamme, perpetrato da un’Inquisizione senza giudici né sentenza [...]».
(Eugenio d’Ors, La vie de Goya) [1]
1. La «vita impossibile» dell’urbanistica
Ci sono segnali – non pochi e non nascosti – che portano a ritenere l’attuale condizione del governo del territorio e delle città, in crisi non solo «di fatto» ma anche «di principio».
È evidente, perché esplicita, epidermica e documentata, che la vivibilità di molti territori e di molte città del Paese non ha subito, nell’ultimo decennio, «balzi in avanti», come si era sperato quando la coscienza civile, risvegliatasi dopo gli anni delle truffe e delle tangenti ai danni del territorio (e quindi della collettività), sembrava aver indicato con determinazione la necessità di un cambiamento profondo, anche per conseguenza dell’emergere dei cosiddetti «temi globali»; condizioni che imponevano al nostro Paese, alla sua classe politica, a quella imprenditoriale e a quella intellettuale, di riformare il patto con i cittadini: lo Stato doveva riprendere possesso del governo delle trasformazioni, dopo gli anni del liberismo selvaggio, ma soprattutto dopo gli anni del banditismo politico connivente con le mafie e i sistemi criminali.
L’inizio degli anni ’90 quindi, per certi versi, è stato l’espressione quasi euforica della volontà di riscatto, e sarebbe lungo e qui inopportuno elencare i fatti che documentano questa ripresa civile.
Altrettanto complicato è spiegare il perché del fallimento sostanziale di questo tentativo di rinascita. Perché l’euforia si è presto consumata, la corruzione quiescente si è riattivata, e non hanno tardato a risvegliarsi il brigantaggio e le ruberie ai danni del territorio; mentre una «nuova» forma di comportamento socio-economico si è affacciata: il «neoliberismo deregolativo».
Ma se i fatti, i comportamenti, e gli esiti di questo stato di cose sono – purtroppo – sufficientemente noti e prevedibili, la novità preoccupante di questa «nuova ondata» – quella che stiamo vivendo in questi ultimi tempi – è il riconoscimento delle sue prassi come «socialmente accettabili»: la prassi, cioè, si candida a modificare, piegandolo o spezzandolo, il «principio» e spesso anche la «norma», che originano e sottendono il governo urbano e territoriale.
È una prassi che trova la sua natura nella filosofia individualistica che il neoliberismo impone, secondo la quale la somma dei comportamenti privati, liberamente competitivi, genera benessere, privato e in fine collettivo; che affonda le sue radici nella concezione dell’inesauribilità delle risorse naturali; che impone la coercizione come principio educatore.
La città e il territorio, nella cultura occidentale, non sono però, in alcun modo, l’esito formale e sostanziale di una siffatta prassi, al punto che in tempi ormai lontani questi stessi comportamenti hanno rappresentato la «patologia» per cui è collettivamente maturata la necessità di formare una disciplina – l’urbanistica – che potesse rimediare a queste deviazioni, che avevano reso invivibili quei luoghi in cui gli uomini avevano deciso di convivere democraticamente (le città).
Oggi, questa prassi sembra non essere più patologica, ma organica o per così dire «endemica». È come un parassita che si è innestato nel corpo dello Stato e sembra in paradossale simbiosi, producendo dissesto, congestione, inquinamento, saccheggio, segregazione, che gli «anticorpi» non riconoscono più come malattie ma come manifestazioni normali, di un organismo sano.
L’urbanistica, in questo senso, non è stata assassinata: è il bersaglio di uno stillicidio poco eclatante, ma sistematico e scientifico, diretto a comprometterne gli organi vitali, tramite un anestetico che rende questo declino «socialmente accettabile».
2. Bologna, dal «mito» al «rito»
Bologna ha preso in pieno, e nel verso peggiore, il vento del «neo-liberismo deregolativo» spirato negli anni ’90, sull’urbanistica e sul governo del territorio.
Ci sono stati, è vero, in quegli anni, anche lampi di luce, e belle speranze, di cui lo Schema direttore metropolitano è certamente un esempio, così come lo sono stati i tentativi di governare certe trasformazioni della città con strumenti di valutazione ambientale all’avanguardia.
Ma il vento di scirocco ha ridotto drasticamente la portata e l’efficacia di quegli strumenti, ha inghiottito l’entusiasmo delle donne e degli uomini che ne furono gli artefici; ha seccato e poi bruciato le radici riformiste da cui quegli strumenti erano cominciati a fiorire.
L’analisi necessaria a dar conto dei motivi di questa disfatta è complessa e, probabilmente, nemmeno alla portata di chi scrive. Ma su un fatto bisogna riflettere: quale sia stata l’utilità sociale, cioè il «profitto collettivo», che dieci anni e oltre di smantellamento delle «rigidità» e delle «ingessature», dei «lacci e lacciuoli», connaturate – secondo taluni – all’urbanistica e al governo del territorio, hanno prodotto per la città e per i cittadini che la vivono.
E ancora bisogna domandarsi dove stiano le responsabilità, in quale anfratto sociale o in quale istituzione, in quale processo economico e in quali interessi si nascondano gli errori, le omissioni, le ingenuità e le infatuazioni, che hanno compromesso il rilancio della città del «mito urbanistico», e dove, in fine, ci sia terreno fertile per ricominciare.
Perché bisogna ricominciare, per progettare un nuovo futuro, da dove si è smesso il «mito» ed è cominciato il «rito», quello della contrattazione senza garanzie democraticamente validate e codificate, senza strumenti e obiettivi strutturali, che ha svuotato i Consigli comunali del potere assegnato loro dalla Costituzione repubblicana; quel «rito» che ha distorto e piegato il senso delle operazioni volte a riqualificare tessuti urbani defunzionalizzati, a «costruire sul costruito» e a chiudere definitivamente la stagione dell’espansione urbana verso suoli vergini.
Bisogna chiedersi perché, nonostante Bologna non sia mai stata un polo della grande industria, e di conseguenza non abbia subito, nei tempi recenti, fenomeni di dismissione produttiva o di crisi funzionale di grandi comparti urbani, di dimensione in qualche modo paragonabile a quelli vissuti in altre aree del Paese (per esempio a Napoli-Bagnoli, o a Sesto S. Giovanni), essa sia stata martellata per troppi anni da una costante e unica attività «urbanistica»: quella della «riqualificazione speculativa».
L’attività di sostituzione e ridefinizione funzionale di tessuti già urbanizzati o interstiziali attraverso interventi di media e piccola dimensione ha prodotto infatti, in questi ultimi anni effetti di non secondario rilievo, sia dal punto di vista delle quantità messe in gioco dai programmi complessi realizzati o in fase di realizzazione (in totale quasi 3.000 alloggi), sia dal punto di vista dell’impatto che la sommatoria di questi nuovi fatti urbani ha generato (e genererà) sulla città.
Una prima questione riguarda dunque l’intendimento circa la «semantica della riqualificazione» in un area priva di evidente e significativo degrado, almeno non nei termini con cui ci si misura in altri luoghi del Paese o d’Europa.
A questo proposito è utile ricordare che negli anni ’90 un motivo fondamentale – o forse strumentale – che ha indotto ad inserire nella disciplina urbanistica nazionale e poi regionale gli strumenti di programmazione complessa, era il fattore «tempo»: a fronte delle modificazioni del paradigma tecnico-produttivo a cui si è assistito negli anni ’80, molte aree industriali storiche del Paese erano entrate in una fase repentina di declino e conseguentemente molte città dovettero rispondere alle esigenze di riconversione di grandi comparti, spesso incuneati nel tessuto urbano, in tempi utili ad evitare il degrado indotto da una dismissione prolungata.
Gli strumenti originati da questa necessità prevedevano quindi forme procedurali che dovevano essere più speditive di quelle ordinarie, e introiettavano la necessità di concertazioni negoziali che coinvolgessero risorse private: l’accettazione della deroga dallo strumento urbanistico generale e dalle sue procedure era sostenuta da argomentazioni di urgenza e dalla particolarità di ciascuna delle situazioni da affrontare che postulava l’opportunità di strumenti appositi e di trattative «caso per caso», anche non necessariamente inquadrate in un disegno urbanistico complessivo e «di lungo respiro».
Tali caratteristiche originarie si sono peraltro evolute negli anni ’90 fino a dare luogo ai programmi ministeriali più recenti in cui la dimensione strutturale e strategica e il lungo respiro sono di nuovo richiesti come requisiti fondamentali.
Le diverse interpretazioni che sono scaturite nel tempo, da questa evoluzione legislativa, hanno dato luogo a differenti comportamenti nella prassi urbanistica, sedimentati negli esiti concreti che oggi, nella stessa area bolognese, sono chiaramente riconoscibili, e che consentono agevoli valutazioni.
Un primo aspetto di questa «stagione urbanistica» riguarda, quindi, la completa assenza del rapporto fra le singole operazioni e una strategia urbana che fornisca motivazione e giustificazione dei singoli interventi: si tratta cioè, senza dubbio, di azioni indipendenti l’una dall’altra, che esauriscono la loro ragione nella mera trasformazione edilizia dell’area.
Le quantità messe in gioco, tuttavia, dimostrano che gli interventi di trasformazione sono di assoluto rilievo nella dinamica edilizia complessiva dell’area bolognese, relativamente all’ultimo decennio: si tratta di oltre 50 interventi [2], tutti in deroga dal Prg, che investono complessivamente quasi 110 ettari di suolo cittadino, per una capacità edificatoria di 320.000 mq di superfici utile, della quale 212.146 mq (66%) [3] destinata a residenza (soprattutto per il libero mercato della proprietà), a cui corrispondono circa 2.500-3.000 nuovi alloggi.
Per inquadrare il significato di questi dati è opportuno ricordare che il Prg vigente, nella versione adottata nel 1985, aveva calcolato un fabbisogno decennale di 5.600 alloggi, stima sostanzialmente non smentita dai dati della produzione edilizia, di poco superiore alla media di 500 alloggi l’anno per tutti gli anni ’90, che rappresenta bene la capacità effettiva di assorbimento dei nuovi alloggi da parte del mercato libero.
Con i programmi complessi, tra il 1998 e i giorni nostri si «aggiunge» così alla città un carico urbanistico pari a cinque/sei anni di attività edilizia.
Molti degli interventi per i quali si sono richiamate le procedure della riqualificazione, oltre a non lasciare intravedere un disegno urbano di riferimento, aprono uno squarcio sulle asserite situazioni di degrado urbano (ambientale, o sociale, o funzionale) da riqualificare. Nei fatti, numerosi degli interventi proposti agiscono su aree completamente inedificate, spesso destinate dal Prg a standard, con vincoli più volte reiterati e scaduti; le trasformazioni sembrano originati e motivate da problematiche importanti (vincoli scaduti), ma che hanno poco a che fare con la riqualificazione.
I tempi di trasformazione delle aree selezionate si sono rivelati del tutto simili agli strumenti di pianificazione ordinaria; ci sono, ad esempio, interventi selezionati nel 1997 che ad oggi debbono ancora trovare la definitiva concertazione tra le parti: condizione che rivela, definitivamente, l’inconsistenza della tesi secondo cui la concertazione e la deroga dal Piano, sono il mezzo più veloce per trasformare la città.
La «complessità» delle operazioni urbanistiche, sia in termini progettuali che di relazione con le diverse compagini sociali ed economiche, non ha movimentato risorse straordinarie.
La destinazione abitativa è stata largamente dominante in tutte le operazioni di «riqualificazione», ma paradossalmente non ha contribuito, se non in misura marginale, ad una politica per la casa, considerando che dalla concertazione si sono ottenute quote irrilevanti di edilizia sociale, a fronte di prezzi degli alloggi a libero mercato collocati costantemente ai margini più alti delle classifiche nazionali.
Si deve avere il coraggio allora di riconoscere l’inutilità, per la collettività, delle operazioni urbanistiche che in questi anni sono state nominate col termine «riqualificazione», per le quali si è abbandonata la prassi garantista della pianificazione a favore di un sistema di contrattazioni miopi e fuori dalla sovranità democratica delle assemblee elettive, ridotte drammaticamente a semplici organi di ratifica.
Questi fatti, per finire, non lasciano dubbi sull’opportunità di chiudere una stagione che ha fatto a brandelli l’urbanistica bolognese. Si tratta ora di riprendere un’altra strada, nella direzione della pianificazione.
[1]. È la stessa citazione che Antonio Gramsci, nel 1930, ha annotato su uno dei suoi celebri Quaderni del carcere.
[2]. Ci si riferisce alla somma degli interventi relativi ai bandi pubblici OdG 70 e OdG 136, concertati e non concertati.
[3]. Percentuale che diventa il 71% se si escludono dal conteggio due interventi che destinano ad attività produttiva l’intera superficie utile.