Nelle ultime settimane le decisioni della Fiat hanno suscitato reazioni e commenti sulle prime pagine dei giornali. Ora l’attenzione sta scemando ed il trasferimento della produzione in paesi dove le imprese possono ridurre i salari e scaricare oneri e costi sulla collettività viene presentato come un evento ineluttabile o le cui responsabilità vanno attribuite alla irragionevolezza dei sindacati. L’acritico riferimento alla cosiddetta globalizzazione e alle presunte leggi della competizione serve a molti per nascondere le cause che provocano la chiusura delle fabbriche ed ignorare il peso che nelle specifiche situazioni ha il valore del suolo sul quale sono insediate.
Assai opportune sono, quindi, le riflessioni che eddyburg ospita sull’intreccio tra rendita e profitto e sulla complicità di politici e tecnici nel promuovere, sostenere e propagandare la trasformazione delle città da luoghi del lavoro a siti per il divertimento. A tali riflessioni non sembra inutile accompagnare una, seppure sommaria, rilettura delle vicende di tre città che nella seconda metà del ventesimo secolo sono state forgiate dalle scelte e dagli interessi dell’industria dell’automobile.
Detroit
Nel 1950 Detroit era la città americana che “cresceva” di più. Il reddito medio dei suoi 1.900.000 abitanti era più alto di quello delle altre grandi città e più alta era anche la percentuale di case in proprietà. Il suo successo era legato a quello delle tre big dell’automobile - Ford, General Motors e Chrisler - che controllavano ogni aspetto della vita cittadina. Dopo il primo insediamento di Ford nel 1903, l’industria automobilistica aveva avuto un impulso straordinario durante gli anni dell’amministrazione Roosevelt che aveva concentrato nelle fabbriche dell’Arsenal of Democracy la produzione di aeroplani e veicoli da combattimento. Grandi masse di lavoratori, molti dei quali afroamericani, erano affluiti in città, la cui struttura venne profondamente cambiata dalla costruzione di edifici e infrastrutture.
Di fronte ai primi segnali di crisi degli anni ’60, invece di investire in innovazione per produrre modelli adatti a far fronte alla concorrenza giapponese e al crescente prezzo del petrolio, i padroni di Detroit trovarono più conveniente chiudere, ridimensionare, o trasferire le fabbriche e lucrare sulla rendita fondiaria e immobiliare. Con il supporto e la collaborazione dell’amministrazione cittadina che ne condivise ogni scelta - dalla infruttuosa promozione della candidatura di Detroit alle Olimpiadi del 1968 alla costruzione del gigantesco Renaissance Center, alla realizzazione di 3 grandi casino per revitalizzare l’economia grazie all’industria del gioco d’azzardo, innescarono una ristrutturazione economica, sociale e fisica dagli effetti devastanti.
Motor Town, la città dell’automobile, è così diventata la città “che muore più velocemente”. Nel 2010 gli abitanti sono circa 900.000 - la metà rispetto a 50 anni fa- oltre l’80% sono afroamericani e la disoccupazione e la povertà continuano a crescere. Accanto al degrado sociale, una delle conseguenze forse meno note della distruzione delle industrie è l’enorme numero di lotti abbandonati o in demolizione - la cui superficie complessiva ammonta ormai ad oltre un terzo della città - che stanno tornando semirurali.
In questa “prateria urbana”, che potrebbe essere considerata una rivincita della natura, un numero crescente di piccole aree vengono occupate da gruppi di cittadini che le coltivano dando origine ad una sorta di economia agricola di sussistenza.
Alcuni vedono in queste iniziative un segnale positivo, non solo della volontà di resistenza degli abitanti ma per il tipo di organizzazione fisica e spaziale a cui possono dar luogo, altri le considerano un modo inefficiente di uso del suolo. Le critiche più forti vengono da quegli imprenditori che non contestano l’opportunità di usare la terra a fini agricoli, ma ritengono che l’operazione vada fatta su scala commerciale. Per questo hanno iniziato a comprare interi isolati vuoti e chiedono alla città la cessione gratuita della terra di proprietà pubblica, oltre che cospicui incentivi ed esenzioni fiscali, per avviare le loro “fabbriche agricole”.
Come sempre per i detentori del capitale, è dall’enclosure delle terre comuni, dalla privatizzazione delle risorse di tutti, che si deve far ripartire il ciclo dello sviluppo.
Il sindaco Coleman Young - che da giovane aveva lavorato alla Ford - ed Henry Ford II durante l’inaugurazione del Renaissance Centre ammirano la torta che riproduce gli edifici
Torino
Negli anni ’50, Torino era in piena espansione economica e fisica. Grazie ai fondi del piano Marshall e agli aiuti del governo italiano, che costruì interi quartieri per alloggiare i 300.000 nuovi abitanti fatti affluire per rispondere alle sue esigenze di manodopera, la Fiat trasformò Torino nella “Detroit d’Italia” e divenne la padrona della città.
Alle lotte operaie degli anni ’60 e alla “crisi” la società degli Agnelli rispose con una accelerata automazione e con il “decongestionamento” di alcuni impianti in località dove la forza lavoro era più docile, nonché con la diversificazione degli investimenti e il ridimensionamento della parte industriale a vantaggio di quella finanziaria. Stabilimenti e filiali situate in aree divenute pregiate vennero chiuse ed i terreni fino ad allora rimasti sottoutilizzati vennero destinati a gigantesche operazioni immobiliari con il sostegno delle pubbliche amministrazioni e dei più famosi architetti. Se ovunque l’avvio delle dismissioni industriali e dei grandi progetti di riqualificazione e rivalorizzazione del territorio coincise con la nascita dello star system in architettura, la Fiat si dimostrò all’avanguardia anche in questo settore e nel 1983 indisse una consultazione internazionale di 20 grandi firme per esplorare il futuro del Lingotto. Presentandone i risultati, molto lucidamente Giovanni Klaus Koenig scrisse “non è poi così assurdo identificare nella grande industria l’unica forza economica e culturale capace di sostituire il principe, il papa o il re di Francia nel dare un nuovo volto a un brano di città”. E, brano dopo brano, a tutta la città e alla società.
Negli anni successivi la ristrutturazione di Torino non ha conosciuto sosta, la città ha perso (scacciato) 350000 abitanti e conquistato un posto nella mappa degli eventi per turisti e benestanti. Il piano regolatore del 1996 ha sancito la nuova “visione” e le Olimpiadi hanno accelerato il processo di valorizzazione turistico immobiliare la cui evoluzione viene con devozione seguita e propagandata dall’amministrazione comunale e dal suo dipartimento di urban marketing.
Ai superstiti di Mirafiori, non resta ora che sperare che non si intenda “rivalorizzare” il loro ghetto.
Il sindaco Sergio Chiamparino e il suo predecessore Valentino Castellani esibiscono fasci di biglietti delle Olimpiadi
Kragujevac
Già capitale della Serbia, Kragujevac è una città di media dimensione con una consolidata tradizione industriale e una buona dotazione di servizi ed attrezzature. Nel 1953, la Fiat cominciò a produrre automobili negli stabilimenti della Zastava, che fino ad allora aveva fabbricato soprattutto armamenti, ed ha continuato ad espandere la propria attività nel complesso industriale che, però, rimaneva di proprietà dello stato jugoslavo. Negli anni ’90, durante la prima guerra scatenata dalle multinazionali e dai loro governi per ridurre all’obbedienza i paesi riluttanti ad accettare le regole del fondo monetario internazionale e dell’organizzazione internazionale del commercio, la fabbrica è stata bombardata dalla Nato ed i suoi addetti hanno perso lavoro e reddito. Un territorio che viveva dignitosamente è stato devastato in modo tale da poter esser ribattezzato “la valle degli affamati”.
Ma l’importazione della democrazia richiede qualche sacrificio ed ora “tutto sembra andare per il meglio”. La Fiat finalmente ritorna, dice il sindaco, che la accoglie come un benefattore., dimenticando che lo stato serbo ha dovuto “venderle” fabbrica e terreni oltre a garantirle vantaggi economici molto rilevanti. Dal canto suo la città, che ora può vantarsi di essere una mecca for investors, ha avviato un piano di investimento e di sviluppo che consiste nella cessione del ricco patrimonio fondiario pubblico e nella cementificazione del generoso sistema di verde urbano che la città socialista aveva conservato.
Nel sito dell’urban directorate del comune di Kragujevac si può consultare la mappa con le aree già cedute ai privati e scempiate da centri commerciali, uffici e condomini - che non sembrano alla portata dei locali abitanti cittadini - e quelle “in offerta”, accanto ad ognuna delle quali, con apprezzabile trasparenza, compare l’indicazione che le vigenti prescrizioni possono essere modificate “per rispondere alle richieste degli investitori”. Grazie a queste iniziative il Ministero per l’economia e lo sviluppo regionale, dopo una valutazione condotta assieme agli esperti di USAid e delle istituzioni internazionali che “aiutano” la Serbia nel suo passaggio al “libero mercato”, ha concesso a Kragujevac il marchio di business friendly city.
L’urbanistica come arma di guerra
Se è un luogo comune che le città, come le società che le costruiscono, sono in continuo cambiamento, bisognerebbe cercare di estrarre da una congerie di fatti una logica e non limitarsi a registrare la successione degli eventi Chi è stato ridotto alla fame non ha altra scelta che accettare le condizioni che gli vengono imposte, ma i commenti circa la lungimiranza degli amministratori che regalano il loro paese agli investitori stranieri sono inappropriati se non osceni. Non sappiamo se tra vent’anni il fondo monetario internazionale ci obbligherà a mangiare il pomodoro prodotto nella urban farm di Detroit, se Torino sarà l’elegante sede del parlamento della Repubblica del nord e Mirafiori un parco a tema dal titolo “c’era una volta l’industria”, se Kragujevac attirerà fondi di ricerca dalla unione europea per riconventirsi e diventare un modello di città sostenibile. E’ certo, però, che le vicende di queste tre città, “essenzialmente produttive” secondo la terminologia usata da Jane Jacobs, mostrano che il presunto conflitto tra rendita e profitto non esiste dal momento che chi possiede denaro lo può spostare da una parte all’altra del pianeta e da un’attività all’altra alla ricerca del più alto rendimento e può usare l’urbanistica come arma nella guerra per il possesso della terra e delle risorse comuni.