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“Demonizzazioni”. Come sta distruggendo la libertà di stampa
15 Giugno 2009
Articoli del 2009
Due articoli di Massimo Giannini su la Repubblica e Marco Bucciantini su l’Unità, 15 settembre 2009

“Demonizzazioni”. Come sta distruggendo la libertà di stampa

Due articoli di Massimo Giannini su la Repubblica e Marco Bucciantini su l’Unità, 15 settembre 2009

la Repubblica

Il premier e i consigli per gli acquisti

diMassimo Giannini

«Non date pubblicità ai media che cantano ogni giorno la canzone del pessimismo». Questa, dunque, è la «dottrina Berlusconi» sul libero mercato. Questi sono i «consigli per gli acquisti» che l’Imprenditore d’Italia impartisce ai suoi «colleghi».

L’uomo che sognava di essere la Thatcher, che si celebrava come «l’unico alfiere dell’economia liberale» nel ‘94 e come «il vero missionario della tv commerciale in Europa» nel ‘96, oggi concepisce così i rapporti tra produttori, clienti ed utenti. Non un contratto. Neanche un baratto. Piuttosto un ricatto.

Le parole pronunciate dal presidente del Consiglio dal palco confindustriale di Santa Margherita Ligure sono un ulteriore, drammatico esempio dei tanti «virus letali» che si stanno inoculando nelle vene di questo Paese. è un problema gigantesco, che chiama in causa sia chi produce quei virus (il presidente del Consiglio) sia chi li subisce (l’establishment politico-economico).

L’infezione promana direttamente dal capo del governo, dalla sua visione del potere, dalla concezione tecnicamente «totalitaria» delle sue funzioni. Proprio lui, che dovrebbe essere il primo a conoscere e difendere le ragioni del mercato, le umilia e le distrugge in nome di un interesse politico superiore: il suo. Il ragionamento fatto ai giovani industriali è agghiacciante: «Bisognerebbe non avere ogni giorno una sinistra e dei media che cantano la canzone del pessimismo. Anche voi dovreste fare di più: non dovreste dare pubblicità a chi adotta questi comportamenti». Nell’ottica distorta del Cavaliere, la pubblicità non è più uno strumento da impiegare liberamente nella competizione economica: non si distribuisce più in base all’utilità del mezzo, all’efficacia del messaggio e alla profittabilità dell’investimento. Diventa invece un’arma da usare selettivamente nella battaglia politica: si distribuisce, a prescindere dall’efficacia del messaggio e dalla profittabilità dell’investimento, solo in base alla «fedeltà» del mezzo. Il presidente del Consiglio chiede agli imprenditori una sostanziale alterazione delle regole del mercato, con l’unico scopo di punire chi non è d’accordo con la politica del suo governo.

Il paradosso è che a sostenere questa tesi sia il capo del governo, che è al tempo stesso proprietario di Mediaset (e dunque di una delle maggiori concessionarie italiane) e azionista (attraverso il Tesoro) delle principali aziende pubbliche o semi-pubbliche del Paese. Come si regoleranno i dirigenti di Publitalia, nel distribuire le campagne pubblicitarie sulle radio e le televisioni? E come si regoleranno i manager di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, nel distribuire le loro campagne pubblicitarie sui quotidiani e i settimanali? Sarà interessante verificarlo, di qui ai prossimi mesi.

L’infezione inquina progressivamente il corpo della società italiana, delle classi dirigenti, delle istituzioni di garanzia. Una parola sugli imprenditori, innanzi tutto. Ancora una volta, bisogna constatare con rammarico che quando il Cavaliere ha lanciato il suo ennesimo anatema, dai giovani e dagli «anziani» di Confindustria non solo non si sono levate proteste, ma viceversa sono arrivati addirittura gli applausi. Eppure, per chi fa impresa e combatte ogni giorno sui fronti più esposti della concorrenza, le aberrazioni berlusconiane non dovrebbero trovare diritto di cittadinanza, in un convegno della più importante associazione della cosiddetta «borghesia produttiva». Se esistesse davvero, una classe dirigente responsabile e consapevole del suo ruolo dovrebbe reagire, cacciando il mercante dal tempio. Invece tace, o addirittura condivide. E non solo nei saloni di Santa Margherita Ligure. Poche ore più tardi, nella notte di Portofino, il Cavaliere ha cenato con due alti esponenti del gotha confindustriale. Marco Tronchetti Provera (presidente di Pirelli ed ex azionista di riferimento di Telecom) e Roberto Poli (presidente dell’Eni) erano al suo fianco, mentre il premier smentiva la smentita dei suoi uffici di Palazzo Chigi, e confermava che con quell’intemerata sulla pubblicità ce l’aveva proprio con i giornali «nemici», e in particolare con «Repubblica». Ebbene, anche in quella occasione nessun distinguo, nessuna presa di distanza da parte di chi dovrebbe preferire le leggi mercatiste di Schumpeter a quelle caudilliste di Berlusconi.

Ma una parola va spesa anche sulle cosiddette Autorità amministrative indipendenti, chiamate a tutelare la concorrenza, e sulla cosiddetta libera stampa, chiamata a difendere il diritto all’informazione. Solo in un Paese in cui si stanno pericolosamente snaturando i meccanismi di «check and balance» può accadere che di fronte a certe nefandezze ideologiche non ci siano organi di vigilanza capaci di fare semplicemente il proprio dovere. L’Antitrust non ha nulla da dire, sulla pretesa berlusconiana di riscrivere le regole del mercato pubblicitario con criteri di pura convenienza politica? E il giornale edito dalla Confindustria non ha nulla da dire, sul tentativo berlusconiano di condizionare le scelte commerciali dei suoi azionisti?

Domina il silenzio-assenso, nell’Italia berlusconizzata. Tutto si accetta, tutto si tollera. Anche un mercato schiaffeggiato dalla mano pesante del Cavaliere, invece che regolato dalla mano invisibile di Adam Smith.

l’Unità

Lo ha già fatto: i quotidiani nemici sono senza pubblicità

di Marco Bucciantini

In questo paese si è più realisti del Re. Berlusconi chiede agli imprenditori di evitare gli spot sui quotidiani per lui scomodi, ma è cosa già fatta. L’Italia è il paese occidentale con la percentuale più bassa di investimenti pubblicitari sulla carta stampata. Crisi generale, d’accordo. E servilismo al padrone, come Berlusconi sa, perché in questo restringimento di introiti la sua Mediaset, tramite la concessionaria Publitalia, non sente crisi. Il suo gruppo è riuscito perfino ad aumentare la raccolta, che nel 2008 è stata sui 3 miliardi di euro. Mediaset ingrassa, mentre gli altri media boccheggiano. Una posizione di forza e di privilegio coltivata negli anni, blindata dalla legge Gasparri che ha alimentato il duopolio e adesso monetizzata. Per due ragioni: la sudditanza psicologica, l’intervento diretto.

Servilismo

Ai potenti i favori si fanno, non devono nemmeno chiedere. È la sudditanza psicologica: così, negli ultimi dodici mesi - dati Nielsen Media - i maggiori 15 inserzionisti del nostro mercato hanno aumentato i loro investimenti su Mediaset per 30 milioni. La Rai è rimasta pressoché ferma. In questo scorcio di 2009 i quotidiani stanno assorbendo un calo drammatico del 15% sull’anno precedente, che è stato il peggiore di sempre. Va ricordato che il mercato pubblicitario in Italia è perverso: se in Germania le tv assorbono un quarto delle risorse, in Francia il 30%, in Spagna poco più, qui il rapporto è contrario. Le televisioni si mangiano il 65% della torta. Il resto è per la stampa, che già fronteggia il calo dei lettori (91 copie ogni mille abitanti - quando in Giappone sono 624, nel Regno Unito 300, nei paesi scandinavi fra i 450 e i 600). L’annus orribilis, lo hanno definito gli editori, sul quale soffia il presidente del consiglio, sordo all’articolo 21 della Costituzione, che promuove e tutela il pluralismo nell’informazione.

E spinte

I dati Nielsen illustrano una situazione curiosa: davanti alla contrazione degli investimenti in pubblicità commerciale (da 8 miliardi e 172 milioni a 7 miliardi e 978 milioni), il gruppo di Berlusconi divora il 38% del gruzzolo. Mediaset ha il vento in poppa, gli altri annaspano controvento. La carta stampata - tutta insieme - è al 33,4%. Quello che Berlusconi auspica lo ha già praticato, strangolando i quotidiani. Giovando anche della mano che aiuta: le grandi aziende legate al Tesoro, quindi alla politica - Enel, Eni, Poste Spa - hanno foraggiato Mediaset. Eni ha versato 17,8 milioni a Publitalia, 5 milioni in più rispetto al 2007, in un quadro di risparmi aziendali. L’Enel è passata da 10 milioni a 13.

Le Poste Spa negli ultimi due anni hanno moltiplicato per sei la quota per il Biscione. Clamorosa la paghetta degli investitori istituzionali: quando i ministeri e la presidenza del consiglio informano i cittadini con le campagne sui temi sociali (ma anche sull’anniversario della nascita di Garibaldi) la Rai non riscuote (per legge), Mediaset sì: è passata da 4,5 milioni a quasi 9. Con il risvolto grottesco dei 35 spot per i 60 anni della Costituzione con cui s’infarcì la programmazione di Rete4, canale sentenziato come incostituzionale.

Bulimia

Ma la crisi è dura, checché ne dica Berlusconi (che intanto - si è visto - mette al riparo le sue aziende). Così l’ordine è di spremere ancora, e il ministro Bondi non si sottrae, quando c’è da dimostrare zelo. La sua proposta di rinsecchire la Rai, togliendo gli spot a una rete pubblica, sarebbe costata alla concessionaria Sipra circa 400 milioni di euro. Dove sarebbe finito il bottino è inutile ricordarlo. L’idea inorridì l’ex direttore generale della Rai, Claudio Cappon. Ma adesso su quella poltrona c’è Mauro Masi, grand commis dello Stato, ganglo per anni di Palazzo Chigi, gradito a Berlusconi. Che vede complotti, e davanti agli attacchi del Times paventò l’acredine di Murdoch, senza però mai - mai - nominarlo pubblicamente, restando allusivo (cosa che invece non si risparmia con Repubblica e l’Unità). Forse perché Sky non è così nemica: negli ultimi due anni ha offerto i suoi bouquet su Mediaset per 34,5 milioni. Réclame che sulla Rai sono “passate” assai meno frequentemente, per un conto di 4 milioni scarsi. Pecunia non olet, si diceva un tempo.

Berlusconi chiede agli imprenditori di evitare di fare pubblicità sui quotidiani disfattisti, ma la realtà è già questa. Grazie al suo potere, Mediaset si divora i soldi degli inserzionisti, uccidendo il pluralismo.

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