Pubblichiamo l'intervento di Paola Bonora al convegno "Fino alla fine del suolo. La nuova disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio" tenutosi a Bologna, presso la Regione Emilia-Romagna, il 3 febbraio 2017. 5 febbraio 2017 (p.d.)
Non voglio in questa occasione discutere la tesi ecologista (il suolo come sostrato del vivente) o quella storicista (il patrimonio comune da tutelare e conservare), che pure reputo essenziali e a cui va la mia adesione morale prima ancora che culturale, intendo fermare l’attenzione sulle logiche di organizzazione dello spazio che la bozza di legge urbanistica della regione Emilia-Romagna presuppone.
L’avanzata del cemento e dell’asfalto si è scontrata con se stessa. L’eccesso produttivo e di costruito rimasto inutilizzato hanno fatto esplodere la bolla, saltare il mercato, diminuire di un terzo i valori immobiliari e aperto la crisi da cui non riusciamo a emergere. Un percorso di tale fallimentare evidenza che nessuno può più negarlo, non a caso tutti, costruttori in prima fila, si dichiarano ora concordi sulla necessità di limitare il consumo di suolo. Quando però si ragiona sui metodi per raggiungere questo traguardo le opinioni divergono a tal punto che sorgono dubbi persino sulla reale condivisione dell’obiettivo primario della limitazione. La bozza che pure lo dichiara principio di fondo assieme alla rigenerazione, introduce una tale congerie di esclusioni, deroghe, eccezioni da rendere vano l’aver fissato la soglia massima del 3%.
Il nocciolo del problema sta allora non tanto nel soppesare le retoriche adottate e stabilire chi mente di più in questo monòpoli dalle condizioni mutate, ma capire quale sia il contesto entro cui le nuove regole si troveranno ad agire e quali i ruoli e gli obiettivi dei giocatori. Che gli immobiliaristi vogliano far ripartire al più presto la partita è naturale e connaturato al loro negozio. Meno che l’istituzione si faccia paladina di questa parte in maniera privilegiata, ne promuova acriticamente gli investimenti e sottostimi gli interessi pubblici che stanno alla radice della sua rappresentanza. Interessi che, per quanto attiene il versante economico, potrebbero essere almeno in parte compensati da un maggiore equilibrio decisionale e fiscale tra i soggetti in campo, che preveda anche oneri non solamente premi e incentivi; in sostanza una più giusta ripartizione delle plusvalenze generate dalle trasformazioni urbane tra privati investitori e città pubblica. E mantenga a se’ la prerogativa della decisione e della razionalizzazione (se non la vogliono più chiamare pianificazione che fa troppo statalismo d’antan). Facoltà e compiti che si condensano nella potestà di governo, che non può discendere dalle volontà private di investimento, o comunque non solo o non prioritariamente da quelle. E si ponga anzi l’obiettivo di contenere le ingordigie del mercato che se lasciato libero di agire produce crisi devastanti come quella che stiamo patendo.
Peccato che ai comuni, esautorati di ogni potere di piano, sia concesso come unico strumento la negoziazione, che diventa la sede delle scelte urbanistiche su iniziativa unilaterale degli investitori. Con esiti che, nonostante i benauguranti auspici di “valorizzazione della capacità negoziale” espressi nel primo articolo, temibilmente metteranno in evidenza la debolezza degli enti minori nei confronti di apparati ben attrezzati - organizzativi, tecnici, di voice... - dei poteri economici con cui dovranno confrontarsi. Una battaglia decisamente impari, Davide e Golia ma senza la fionda – anche quando associati in Unioni, temo, come le previsioni urbanistiche pregresse (quelle che bisognava “far rientrare nel tubetto”) sono lì a mostrare. Chine invece agli step di partenza per scattare non appena la legge sarà approvata per fruire della liberatoria dei primi 3 anni; che ora sembrano diventati addirittura 5, chissà quanti diventeranno prima che si applichi il famoso 3%. Ma mi chiedo: siamo certi che ci sia domanda? Oppure costruiremo altri edifici destinati all’inutilità e a deprimere ulteriormente il mercato?
L’altro principio su cui la bozza si basa, la rigenerazione, è un lemma che nel linguaggio politico-urbanistico odierno è talmente abusato da aver perso significato preciso, è diventato il contenitore di tutto come del suo contrario. Anch’esso tuttavia, proprio nella sua insistente ricorsività, svela un progetto. I costruttori sono da tempo consapevoli della necessità di cambiare campo di investimento, che quello vecchio dell’espansione nelle aree agricole ha esaurito il proprio appeal e, fattisi accesi sostenitori del riuso, chiedono di rientrare nei nuclei storici, in aree degradate ma centrali da demolire e ricostruire. Operazioni che chiedono all’istituzione di sostenere sottolineando l’onerosità della prima parte del processo - acquisizione e bonifica - mentre dimenticano di segnalare le fruttuose implicazioni della seconda, ossia la forte rivalutazione che scaturisce da interventi di riqualificazione e intensificazione di aree centrali e semicentrali.
La “rigenerazione” rappresenta insomma il core business degli anni futuri. Una svolta che implica l’accorciamento del ciclo edilizio, destinata ad incidere sul piano urbano e territoriale ma che è prima di tutto una svolta culturale. Il bene durevole per eccellenza, che non a caso definiamo e distinguiamo come immobile, entra nel gioco dello spreco consumistico e diventa labile, deperibile, riproducibile. Una sorte che è già capitata ai valori immobiliari, un tempo assunti a garanzia di investimento di lungo periodo e sicura rivalutazione che invece hanno mostrato la stessa volatilità dei prodotti finanziari di cui erano stampella. Una serie di antichi miti sono caduti, ora sta crollando anche quello della durevolezza dei manufatti.
Un cambiamento che sottende inoltre il passaggio dalla rendita marginale, avvantaggiata nei decenni della fuga dalla città e dello sprawl, a quella posizionale, di rivalutazione della centralità allocativa. Una riconfigurazione del modello di organizzazione spaziale dalle conseguenze importanti sia sotto il profilo territoriale che economico e sociale, da cui potranno derivare intense modifiche degli assetti attuali. Evoluzioni e scenari di cui l’istituzione è opportuno sia ben consapevole, le sue politiche svolgono infatti un ruolo performativo determinante.
Sullo scacchiere immobiliare si gioca insomma il destino delle città nei prossimi anni, coinvolte in un intenso processo di “riconversione” (introduco volutamente questo termine di taglio industriale che mi sembra più schietto) di abbattimento e ricostruzione - o comunque, come indica la legge, di densificazione, senza rispetto per distanze, altezze, dotazioni, vecchi orpelli di un’urbanistica garantista demodé. Che cambierà la fisionomia e le modalità di utilizzazione di aree centrali, o potenzialmente tali, ora degradate o anche solo sdrucite. Ci si dovrà intendere sul concetto di degrado, se non vogliamo trovarci i picconatori sotto casa. Torna insomma il piccone risanatore, nelle vesti gioiose e politicamente illuminate della rigenerazione.
Che alcune aree, quelle dell’urbanizzazione frettolosa e caotica dell’immediato dopoguerra, meritino riconversione è innegabile. Si aprirà in ogni modo il problema degli abitanti, spesso soggetti sociali disagiati, anziani, stranieri. Una questione che vedrà necessariamente coinvolte le periferie ai margini dell’urbanizzato, nel fatidico 3% di suolo consumabile (ma in realtà credo prevalentemente in forma di edilizia convenzionata “di pubblica utilità” e dunque esclusa da questo computo), in cui dovranno sorgere nuovi edifici costruiti all’uopo con contributo quantomeno esentivo e premiale pubblico, per ospitare le popolazioni espulse dalle zone gentrificate, diventate troppo onerose.
La dinamica è lineare: riconverto zone centrali demolendo e ricostruendo, in più costruisco in periferia su terreni vergini sotto l’ombrello dell’interesse pubblico, accorcio in questo modo il ciclo di vita dei manufatti e introduco l’idea della loro precarietà così mi garantisco un mercato imperituro. Un dispositivo perfetto. Attenzione alle ruspe!
Ma salvo le aree edificate negli anni ’40-’50, il resto del patrimonio edilizio (quello emiliano in particolare) è di buona qualità, ed è tuttavia responsabile del dispendio energetico, causa principale di inquinamento e sperperi. Si preferisce però enfatizzare la costruzione ex novo di pochi edifici smart, a minimo impatto ambientale e classe energetica massima, il cui contributo al bilancio ecosistemico complessivo è irrisorio, mentre resta indifferenza nei confronti della dispersione, dello spreco e del carico ambientale di tutto il resto della città.
La città energivora dovrebbe invece diventare il principale bersaglio delle politiche urbane, favorendo il restauro, l’ efficienza energetica e la sicurezza antisimica, anche attraverso misure fiscali che invoglino i piccoli proprietari degli immobili a impegnare il tanto risparmio accumulato anziché occultarlo in banche traballanti e partecipazioni azionarie truffaldine.
Alle istituzioni poi spetta il compito di garantire sistemi di seria certificazione in grado di capitalizzare gli investimenti in riqualificazioni dei valori. Un indirizzo, questo, che le grandi imprese – il cui processo produttivo è impostato su operazioni di ampia scala – non riescono neppure a concepire, troppo distante dalla loro mentalità e modalità organizzativa. Rinunciano in questo modo a innescare un circuito di salvataggio e rivitalizzazione delle tante piccole e medie imprese della loro filiera, quelle stesse che la crisi ha falcidiato producendo molta disoccupazione.
Un ruolo di orientamento verso la ecosostenibilità e la creazione di posti di lavoro che dovrebbe appartenere alle politiche delle istituzioni, nazionali e locali, le quali invece preferiscono favorire grandi operazioni finanziario-immobiliari spesso fallimentari e generatrici di corruzione.
L’Emilia-Romagna ha cambiato pelle. Una metamorfosi che la vede in prima linea nella promozione della rendita. Che male c’è, qualcuno potrebbe obiettare, se da questi incrementi derivassero vantaggi universali e maggiore cura della città pubblica. Così purtroppo non è, la corsa iperliberista degli anni scorsi è culminata in una crisi di proporzioni enormi, non è realistico pensare che se ne possa uscire ricalcando le stesse modalità. E poiché credo fermamente nel ruolo delle istituzioni nel modellare il futuro (com’era stato nel nostro glorioso passato), spero che ci si prenda il tempo per immaginare le conseguenze di ciò che si sta per varare.
Potete scaricare qui il testo dal titolo "La città pubblica tradita", scritto da Paola Bonora ed apparso su “il Mulino”, 6/2016, pp. 958-966.