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Antonio Di Gennaro
Declino napoletano
17 Aprile 2013
Napoli
Abbiamo chiesto al nostro collaboratore di fare sinteticamente il punto sulla situazione di Napoli ripercorrendo l'arco di tempo che separa gli anni del "Rinascimento napoletano fino alle vicende recenti, che hanno trovato ampio spazio nelle cronache ma scarsi riferimenti al loro spessore. In calce alcuni riferimenti

Abbiamo chiesto al nostro collaboratore di fare sinteticamente il punto sulla situazione di Napoli ripercorrendo l'arco di tempo che separa gli anni del "Rinascimento napoletano fino alle vicende recenti, che hanno trovato ampio spazio nelle cronache ma scarsi riferimenti al loro spessore. In calce alcuni riferimenti

Il declino napoletano che ha contraddistinto il lungo decennio jervoliniano, continua inarrestabile in questo primo inconcludente biennio della giunta de Magistris. Due anni, un tempo prezioso, sono stati consumati in un evanescente spot, con la mente rivolta non ai problemi della città ma ad una affermazione nazionale, considerata a portata di mano. Le cose sono andate diversamente, altri sono stati beneficiati dai frutti di questo inverno dello scontento. Nel frattempo la crisi della città si aggrava, ed è crisi strutturale.

C’è il dissesto economico, che andava affrontato subito, con decisioni coraggiose, e non ora, sotto dettatura del governo. Il costosissimo colosso delle aziende partecipate, più di 8.000 dipendenti, è sempre lì, grande fabbrica di consenso malato, con una gestione opaca della quale non sono chiari gli obiettivi e i benefici reali per la città. Il corpo fisico della città, in mancanza di manutenzione quotidiana, si sta sfarinando, tra buche stradali e crolli. L’urbanistica e la macchina amministrativa sono in stand by: manca assolutamente un’agenda, una strategia per le dieci municipalità, che sono dieci città nella città, mentre il dibattito, anziché allargarsi alla scala metropolitana, si attorciglia su pochissime priorità, i grandi eventi innanzi tutto. L’impiantistica per i rifiuti non c’è ancora, mentre la differenziata segna il passo: preferiamo esportare monnezza, continuando a pattinare su un ghiaccio estremamente sottile.

C’è poi la crisi principale, che è crisi di classe dirigente, affatto superata dal decisionismo del ristrettissimo cerchio magico che attornia de Magistris, che continua stancamente a parlare di beni comuni e partecipazione diretta, sponsorizzando poi provvedimenti dai profili di legittimità sempre pericolosamente incerti, vedi la delibera di giunta con la quale si voleva sperimentare un regime di devolution fiscale, una sorta di inedita extraterritorialità, a beneficio di un’intera insula urbana di proprietà dell’immobiliarista Romeo, che avrebbe trattenuto a sé le imposte, provvedendo autonomamente alla manutenzione urbana.

Poi naturalmente c’è la questione di Bagnoli, con le lunghe indagini della magistratura, il sequestro delle aree, la brutta storia di una bonifica fantasma, che addirittura avrebbe peggiorato le cose. Cosa dire? Quando arrivano i giudici il danno è già fatto, la distruzione dolorosa di tempo, risorse, fiducia e prospettiva è oramai difficilmente recuperabile.

Qui, l’errore è stato quello di considerare la bonifica del sito industriale come un’operazione meramente tecnica, di competenza specialistica: insomma, cose troppo complicate da spiegare ai cittadini comuni. Nei paesi civili, le grandi bonifiche industriali sono operazioni all’insegna del pragmatismo, della sobrietà, con un forte controllo politico e partecipazione sociale. Gli obiettivi, le tecniche e i tempi sono chiaramente definiti, le risorse sono quelle strettamente necessarie, i controlli periodici estremamente rigorosi ed efficienti.

A Bagnoli, invece, per più di due lustri abbiamo delegato la gestione esclusiva delle operazioni ad un ente strumentale – la società di trasformazione urbana – che ha operato in solitudine, senza rapportare periodicamente alla città e ai suoi amministratori, senza spiegare niente, spendendo per di più una barca di soldi. Come se la bonifica non fosse parte del progetto urbanistico complessivo, ma un affare a sé stante.

Ad ogni modo, io penso che la responsabilità politica prevalga su quella dei tecnici infedeli. In questioni come queste, lo si voglia o no, sono il sindaco, la giunta, il consiglio a dover sovrintendere alle operazioni, esercitando il diritto/dovere di controllo, ma anche di impulso, mettendo in gioco tutto il capitale politico e istituzionale disponibile, nei confronti sia della macchina amministrativa locale, sia dei livelli di governo superiori: regione, stato, commissione europea, che pure hanno un ruolo importante nella vicenda, non per niente tengono i cordoni della borsa.

Non ci sono scorciatoie. Anche oggi, quando siamo al punto più basso, resta questa la strada da intraprendere, aprendo finalmente un dialogo trasparente con la città, definendo rapidamente un nuovo programma, un modo di procedere. Su questo punto ha ragione De Lucia: niente è definitivamente compromesso.

Resta la domanda su chi dovrebbe mai fare queste e cose, ora che il capitale di fiducia è oramai dilapidato. Peccato, perché Napoli dispone, nonostante tutto, di una molteplicità di risorse, culture, esperienze, capacità inutilizzate, dalla precedente come da questa amministrazione. Sarebbe questo il momento di aggregarle, in un’assunzione generale di responsabilità, consapevoli che non ci sono traiettorie e carriere personali da lanciare. Tenere in vita la città è un lavoro duro, ingrato, alla fine nessuno ringrazierà.

Riferimenti

Sugli argomenti trattati sinteticamente da di Gennaro eddyburg ha raccolto nel tempo molti materiali, consultabili nella cartella dedicata a Napoli. Della città e dei progetti per la sua rinascita si è parlato anche nelle prime edizioni (2005, 2006, 2008) della Scuola di eddyburg e nella prima visita della serie "una città un piano"

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