In tanti abbiamo pensato che si sarebbe realizzata un’idea di città non fondata sul cemento, che l’urbanistica avrebbe prevalso sull’edilizia, che avrebbe vinto il verde, che i viali sarebbero stati ombrosi, i centri storici restaurati e rispettati. Invece una delibera di giunta, di questa giunta, ci toglie ogni ingenua illusione.
Riappare il cemento a Tuvixeddu. Riaffiora dai fondali l’idea, naufragata nelle aule dei tribunali e non solo, che la salvezza del colle consista in una «tutela francobollo» della sola necropoli e che a pochi metri dai sepolcri si possano costruire palazzine e strade. Il medesimo progetto sostenuto dalle passate giunte sviluppiste.
Un tormento. Ma anche una irrisione dopo le affermazioni elettorali e le interrogazioni in consiglio regionale dell’attuale sindaco, il quale a febbraio del 2011 firmava un appello angosciato che reclamava il «necessario intervento immediato per evitare la realizzazione di ogni altra qualsivoglia opera o manufatto nell’area di Tuvixeddu-Tuvumannu».
Ed è davvero doloroso prendere atto che oggi questa, proprio questa giunta proponga al consiglio comunale come unica «fascia di tutela integrale» l’area asfittica del vincolo archeologico, ossia solo la necropoli e il «catino». Tutto intorno, il cemento. Un «francobollo archeologico» strangolato da mattoni e bitume, già sfigurato dalle fioriere ideate da architetti che volevano conformare la necropoli a se stessi. Quelle fioriere, costruite anche sui sepolcri, sono oggi prove in un processo.
Eppure è lampante che la minuscola area di tutela archeologica non può coincidere con l’area di tutela paesaggistica. La ragionevolezza e le norme stabiliscono che un bene archeologico è inserito all’interno di un paesaggio il quale sarà, per conseguenza, più ampio di quel bene. E ambedue devono essere protetti e inedificabili.
Invece nella delibera dell’11 gennaio, la amministrazione comunale, quella che doveva «salvare il colle», propone «coraggiosamente» di tutelare quello che è già tutelato - ossia l’area archeologica - e sostiene che si debba, per devozione al piano urbanistico, costruire a pochi metri dalle tombe. Proprio quello che Antonio Cederna chiamava «dente cariato», come i gloriosi resti di acquedotto romano divenuti uno squallido spartitraffico.
Sostiene la delibera che si dovrà tenere conto dei «princìpi ispiratori del Piano paesaggistico regionale», ma sopratutto delle «destinazioni urbanistiche individuate dal Puc». E il Puc, il Piano urbanistico comunale, prevede, si sa, circa mezzo milione di metri cubi sul colle. Il cemento, insomma, è sempre l’ago magnetico di questa città. Così le promesse e i princìpi crollano sotto il peso dei palazzi.
Del resto questa giunta comunale ha già preso la strada della cosiddetta continuità amministrativa. Ha dichiarato di voler abbattere lo stadio Sant’Elia, di voler scavare tre piani di parcheggi sotto le mura vincolate di Castello, nonostante la vicinanza della torre simbolo della città e i rischi dell’ignoto sottosuolo della rocca, ha sostenuto di essere «vittima del dovere» e di «dover» per forza costruire in un’area verde di via Milano, di «dover» edificare in molti degli otto ettari di vuoti urbani e di «dover» costruire un’orribile, smisurata casa dello studente all’ex semoleria. E questo «senso del dovere» ha scatenato una slavina di cemento che non ci aspettavamo.
Ma esistono alcuni ostacoli insormontabili.
Il primo è l’attuale condizione giuridica. Tuvixeddu è inedificabile. E questo Comune - il cui sindaco appartiene a un partito che nella sigla contiene le parole sinistra e ecologia, nonché libertà - dovrebbe oggi necessariamente adeguare il piano urbanistico al piano paesaggistico regionale. Questa procedura, che doveva avvenire cinque anni fa e non è neppure avviata, non è un’opzione. E’ un obbligo.
Il piano urbanistico adeguato al piano paesaggistico tutelerebbe quello che di buono resta alla città involgarita, fermerebbe la grandinata di mattoni e l’imbruttimento dei nostri quartieri, consentirebbe di investire in veri recuperi e veri restauri. Cagliari sarebbe curata e custodita.
Il secondo, altrettanto rilevante, è una «miscela» che si chiama pubblica opinione, già esplosa in mano a chi si svagava con il piccolo chimico. Esiste una parte rilevante della comunità che ha maturato capacità critiche evidentemente sottovalutate anche da chi, come il nostro sindaco, ha attinto sostegno e energie da quelle capacità. Quell’opinione pubblica che dopo vent’anni ha aperto le finestre sperando che l’aria cambiasse, ha i mezzi per rinchiuderle se vede l’aria ristagnare.
Costruire a Tuvixeddu sarebbe la dimostrazione che nulla cambia mai neppure se muta il vento. La prova malinconica che da qualunque parte soffi è sempre lo stesso vento già usato e scaduto.
L'articolo è pubblicato contemporaneamente anche su la Nuova Sardegna