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Dalla Francia all'Italia
11 Aprile 2010
Articoli del 2010
A volte le analogie aiutano a comprendere. Guglielmo Ragozzino e Barbara Spinelli, rispettivamente su il manifesto del 10 aprile e la Stampa dell’11 aprile 2010

il manifesto, 10 aprile 2010

Lontano da Parma

di Guglielmo Ragozzino

In un articolo di Eric Dupin sulla Francia, Le Monde diplomatique - uscirà con il manifesto giovedì 15 aprile - parla di un paese diviso in due. A fianco di una Francia ben conosciuta che galleggia sulla crisi, c'è un'altra metà «invisibile». È quella di lavoratori, pensionati, disoccupati, di uomini e donne che non contano niente e che nessuno rappresenta. In Italia la situazione è simile, forse peggiore.

Il bello dell'Italia è che ormai, dopo le recenti elezioni, non c'è più neppure un velo di ipocrisia. I cinquemila industriali riuniti a Parma per il forum «Libertà e benessere: l'Italia al futuro», contornati dai loro cortigiani, di giornali, televisioni, università; da assistenti e segretarie, da politici e sindacalisti, finanzieri e banchieri, hanno svolto la loro proposta di riforma istituzionale.

Dopo tanto tergiversare, dopo lunghe discussioni e perdite di tempo su come incrinare il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, mettendo in gioco partite Iva, lavori a Cococo, referendum contro l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ora c'è l'occasione di restaurare la selezione naturale, quella che nel capitalismo italiano mancava dai primi anni quaranta del secolo scorso. Oggi, con l'arrivo di Berlusconi, sarà un'apoteosi.

La selezione naturale nella visione vincente dovrebbe assicurare la tenuta del sistema industriale lasciando ai margini artigiani e piccolissimi imprenditori, negozi a gestione familiare, liberi professionisti. Tutti costoro rallentano la ripresa del tasso di profitto: sono scorie inutili. A Parma si è lasciato che qualcuno di loro prendesse la parola, dentro il forum o fuori, in segno di solidarietà imprenditoriale; come se tra Colaninno, Tronchetti Provera, Marchionne e un imprenditore varesino non più in grado di pagare gli stipendi a dieci o venti dipendenti ci fosse qualche legame, al di là di una sterile ideologia di classe. Ma il governo nazionale, presente in forze per onorare il nuovo patto confindustriale non ha niente da offrire all'impresa minore e a centinaia di migliaia di lavoratori che ne sono espulsi. Una buona parola e una promessa di ricorrere al capitalismo compassionevole: un ruolo che ormai il ministro Tremonti interpreta da par suo.

Tra gli operai dell'Eni di Porto Torres, intervistati l'altra sera ad Anno zero all'Asinara, c'era un tipo che raccontava dei suoi 15 anni di lavoro in fabbrica; da straniero era rimasto senza lavoro e senza permesso di soggiorno. Era insieme emigrato, operaio, disoccupato. Parlava un italiano perfetto, era uno di noi, dovremmo dirgli grazie e chiedergli scusa. E soprattutto trovargli un altro lavoro. L'Eni potrebbe rispondere di essere tenuto a una logica da multinazionale. Tutti sanno però che finché era «pubblico», contava ben di più nel mondo multinazionale e non metteva gli operai in condizione di «occupare» un'isola per difendere il posto di lavoro.

Della metà del nostro paese rimasta senza rappresentanza, una buona parte ha scelto di non votare a fine marzo per segnare il proprio distacco - il distacco di ciascuno - dalle istituzioni politiche. Rimane forte la solidarietà tra gli esclusi e rimangono forme di resistenza esemplare.

Le manifestazioni della libertà di stampa, del No B day, dell'acqua bene comune, quella di Libera a Milano, le carriole entrate a L'Aquila per toglier le macerie del terremoto, sono occasioni per stare insieme, per guardare il futuro. Per dire, insieme, che occorre organizzarsi: la sconfitta non dura mai in eterno.

la Stampa, 11 aprile 2010

Sarkozy l’autoipnosi è fallita

di Barbara Spinelli

C’è un metodo in Francia - lo chiamano metodo Coué - che s’adatta molto bene ai tempi che traversiamo: tempi di glorie politiche forti ma illusorie, di autosuggestioni, di esorbitante fiducia in sé, di bolle. È successo nella finanza con la crisi del 2007-2009, succede nella vita degli individui, succede spesso in politica. Nicolas Sarkozy, che da astro glorioso che era (in Francia ed Europa) è divenuto un presidente che inciampa e cade di continuo, è figlio del pensare positivo propagandato nella seconda metà dell’800 da Emile Coué, il farmacista che fondò in Lorena una scuola di psicologia applicata. La dottrina è semplice: all’essere umano basta convincersi di essere un grande, di acciuffare lesto il successo, di riuscire in quel che più brama (il potere, di solito) e tutto procederà alla meraviglia. Avrà successo, sarà un astro. L’immaginazione della grandezza, più ancora della volontà, esaudirà il desiderio.

Il magico motto che i pazienti del farmacista-psicologo dovevano ripetere venti volte a voce alta, la mattina e la sera, era: «Ogni giorno, da tutti i punti di vista, sto sempre meglio». È la formula che spiega l’ascesa di Sarkozy, ma anche la sua odierna caduta, in particolare dopo le regionali di marzo. D’un tratto c’è dramma all’Eliseo, ogni parola è fatta per ferire il presidente, per deprimerlo.

È significativo che ad abbatterlo, nei sondaggi e nell’umore, sia in questi giorni il veleno dei rumori sulla sua vita privata: proprio lui, che ha costruito la propria figura sulla fusione tra pubblico e intimo, ne paga adesso il prezzo. Il rumore sulla crisi del matrimonio pare lo terrorizzi: «Lo ha gettato in stato di trance», dicono i collaboratori. Comunque lo indispone più del necessario, del normale. È dovuta scendere personalmente in campo Carla Bruni, mercoledì in un’intervista alla radio, per calmare la bufera e in primo luogo lui, lo sposo abituato a vivere nella bolla dell’ottimismo che d’un colpo vede la bolla scoppiargli davanti al naso. Inattesa portavoce dell’Eliseo, è spettato a lei correggere l’aria mefitica del Palazzo: fitta di rabbia, vendetta, paranoie. Il consigliere di Sarkozy, Pierre Charon, è giunto fino a denunciare complotti, orditi non si sa da chi. Forse da un’altra donna, Rachida Dati, l’ex ministro della Giustizia non più gradita al presidente. Forse dalla finanza mondiale. Il rumore è un «atto di destabilizzazione», come il terrorismo o la speculazione monetaria. Più gentilmente fredda, meno agitata, Carla constata che «la rumeur è sempre esistita ed è inerente all’essere umano».

La vasta paura del rumore è un sintomo. Ne nasconde altre, che vanno dilatandosi e che un adepto del pensare positivo fatica ad ammettere. C’è la discesa nei sondaggi, ominosa per Sarkozy che si nutre copiosamente di sondaggi. C’è la paura di non riuscire la rottura annunciata: specie quella, ardua, delle pensioni. C’è la paura che chissà, visto l’esito delle regionali, Martine Aubry o altri candidati socialisti potrebbero vincere le presidenziali del 2012. C’è la paura che la dissidenza nel proprio partito s’estenda: ieri è stata la volta di Alain Juppé, ex premier, candidato potenziale alla successione del capo. Paura, smarrimento, nervosismo che si riacutizza: il pensare positivo che esaltò Sarkozy secerne oggi queste passioni tristi. Il metodo Coué, auto-ipnotico, sta fallendo. Sta dimostrandosi, come già nell’800, un placebo.

Lo spettacolo e i sondaggi, due ingredienti essenziali dell’autosuggestione, si ritorcono contro l’ipnotizzato. Un giornale scrive, a proposito del presidente e della sua smodata scommessa sulla telecomunicazione: «Chi zappa col telecomando viene zappato», scacciato via dallo schermo per noia o sazietà. L’iper-potenza che dominava all’Eliseo, agile, svelta, vittoriosa (ci fu chi parlò di un Kennedy, di un felice intruso apparso nei compunti saloni presidenziali) è divenuta iper-impotenza, scrive il settimanale Marianne. Con più di quarant’anni di ritardo, la storia sembra dar ragione a Guy Debord e alle sue tesi sulla Società dello Spettacolo: «La vita intera delle società (...) si annuncia come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto quello che era direttamente vissuto s’è ritirato nella rappresentazione. Lo spettacolo non è un supplemento del mondo reale, una sua decorazione. È il cuore dell’irrealismo della società reale». Sarkozy aveva fabbricato la propria scalata sullo spettacolo, sull’ubiquità della propria immagine. Figlio del ’68 e della televisione, aveva trasformato in piano d’azione l’amaro verdetto di Debord: «Gli spettatori non trovano quello che desiderano. Desiderano quello che trovano».

In questo pseudomondo vive il capo dello Stato, dove vince chi recita 40 volte al giorno l’identico mantra, fino a crederci. Erano altrettante promesse-mantra la rottura, l’apertura alle idee di sinistra, soprattutto le riforme, questa parola martellata come si fa coi verbi difficili nei nidi d’infanzia (così Berlusconi che proclama «grandi, grandi, grandi, grandi riforme»). In parte la rottura è avvenuta: non regna più, all’Eliseo, l’atmosfera arcana dei tempi di De Gaulle e Mitterrand, il linguaggio ampolloso che piacque tanto ai francesi e dopo la guerra li persuase d’esser vincitori. Già Giscard ruppe con una verbosità fattasi indigesta.

Invece delle riforme resta poco, e quel che resta ha cominciato a irritare non poco i francesi: il famoso scudo fiscale, che fissava un limite del 50 per cento alle tasse sui redditi, ha privilegiato i più ricchi e non ha fermato la fuga di capitali all’estero. La televisione pubblica, cui è stata vietata la pubblicità, è asservita all’esecutivo. Un mestiere chiave, quello degli insegnanti, è stato umiliato con discorsi sprezzanti e tagli, cavalcando un malumore che sembrava diffuso ed era invece una foto istantanea del Paese, scambiata per storia lunga. La vista corta ha reso Sarkozy cieco alle sofferenze che s’affastellavano e anche muto, perché per dire qualcosa avrebbe dovuto pensare negativo. Sofferenze come quelle manifestatesi nei suicidi alla Telecom (46 fra il 2008 e oggi), oltre che alla Renault. Collere come quelle esplose in questi giorni nelle regioni occidentali colpite da Xynthia, la tempesta. Senza alcuna consultazione locale, lo Stato ha deciso di demolire 1510 case. Una decisione forse inevitabile sul piano tecnico, ma attuata da uno Stato che resta prevaricatore e lontano, contrariamente ai giuramenti di Sarkozy.

Ma è soprattutto il respiro affannato e nervoso che lo ha logorato, l’origine vera della destabilizzazione è qui. Lo hanno consumato i tempi che s’accorciano, l’attitudine a essere non l’uomo della provvidenza ma l’Uomo del Presente: di tutti i presenti, man mano che vengono e passano. Era liberista in economia, poi è sopraggiunta la crisi e ora è per il modello sociale francese. La verità di lungo periodo non l’ha tuttavia detta mai, sulla grandeur nazionale sfatata ogni giorno dai fatti del mondo. Il «gran dibattito sull’identità nazionale», da lui avventatamente inaugurato nel 2009, conferma il respiro breve, la corsa frettolosa ai consensi ambigui: l’iniziativa ha dato le ali non al suo partito, non all’Eliseo, ma all’estrema destra. L’Uomo del Presente era inoltre ricco di parole, non di azioni: i francesi non l’hanno stavolta tollerato. Hanno avuto la reazione di Camus: «Ho orrore di coloro le cui parole vanno più lontano delle azioni». Lo scrittore lo scrisse in una lettera del 1946, su violenza e marxismo. Vale anche per la dolce violenza del moderno coaching e del pensare positivo.

Il politico che vive nella bolla o che segretamente si sente un «illegittimo» (Sarkozy lo confessò al filosofo Michel Onfray, in un’intervista del marzo 2007) ha bisogno di autostima, subito. Istericamente anela all’immediatezza: il coaching che lo allena presto, senza lunghe analisi psicologiche o politiche, è il fatale metodo Coué cui si aggrappa e si condanna.

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