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Francesco Erbani
Da Roma a New York il modello Disney ridisegna le città
8 Dicembre 2015
Libri da leggere
«Gentrification», chi era costui? Su un termine di importazione, ma che di fatto ripercorre temi che dovrebbero essere ben noti all'urbanistica, una doppia recensione a due recenti lavori di sociologia urbana.

«Gentrification», chi era costui? Su un termine di importazione, ma che di fatto ripercorre temi che dovrebbero essere ben noti all'urbanistica, una doppia recensione a due recenti lavori di sociologia urbana. La Repubblica, 8 dicembre 2015, postilla (f.b.)

È solo da poco che a Roma può accadere di sentire una conversazione come questa: «Vado a vivere a Tor Pignattara». «Figo!». Tor Pignattara, periferia est della capitale, tanti residenti provenienti dal Bangladesh, è investita da un fenomeno che chiamano con un termine inglese, “gentrification”. Non c’è un corrispettivo italiano. Più o meno vuol dire che la composizione sociale di un quartiere si è elevata. Vanno via molti abitanti di ceto basso, sostituiti da abitanti di ceto non altissimo, ma più alto di quelli di prima. L’espressione nasce in Inghilterra, metà anni Sessanta. Fu coniata dalla sociologa Ruth Glass. In Italia è approdata di recente, ma, racconta Irene Ranaldi, allieva di Franco Ferrarotti, «quando due anni fa la proposi per intitolare la mia ricerca, un editore sgranò gli occhi: “Nessuno sa che cosa vuol dire”». Ora forse molti sanno cosa significhi gentrification, ma la sua propagazione mescola le acque, le rende più torbide. Comprende cose diverse.

Ranaldi è l’autrice di uno dei libri che da qualche tempo affrontano la questione, Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York (Aracne). Più recente è Gentrification. Tutte le città come Disneyland? di Giovanni Semi (il Mulino). Ranaldi e Semi sono sociologi. Ma anche gli urbanisti si occupano dei pezzi di città che da degradati diventano attraenti, ospitano cineclub e boutique, gallerie d’arte e book caffè, richiamano giovani professionisti, creativi e artisti, e poi attori, scrittori, giornalisti, parlamentari, sono molto animati, ma esplodono la sera e nei week-end, e, soprattutto, vedono schizzare i valori di case ristrutturate e tirate a lucido, di magazzini che diventano loft.

Sui quartieri investiti da gentrification fioccano le ricerche nelle università. Si recupera il tempo rispetto a una nutrita letteratura anglosassone. «Fino ad alcuni anni fa per gentrifications’intendeva la sparizione di un vecchio ceto da un quartiere e l’arrivo di un altro», precisa Semi, «negli Stati Uniti e in Inghilterra si sono verificati molti casi negli anni Sessanta e Settanta, che hanno provocato duri conflitti sociali». E adesso? «Adesso la parola è usata quasi come sinonimo di quella che chiamano riqualificazione urbana con una connotazione neoliberista: trasformare un’area dismessa in un misto residenziale e commerciale. Abitazioni private per il ceto medio, gli stessi marchi dell’abbigliamento e della gastronomia, un po’ di verde, ma ad uso di chi risiede, magari un teatro e persino un piccolo museo. È un tipo di conversione disneyana della città». Città che invece avrebbero bisogno di altro, aggiunge Semi: di case a basso costo, di spazio pubblico vero, di servizi che non ci sono – dalle biblioteche ai trasporti – e poi di locali da affittare per attività associative, culturali, d’impresa… Semi ricorda molte vicende di trasformazioni urbane: la Parigi ridisegnata dai boulevard del barone Haussmann, fra il 1853 e il 1870, o l’invenzione del Greenwich Village nella New York anni Trenta del Novecento. Altri esempi: gli sventramenti italiani di fine Ottocento, culminati a Roma con il piccone fascista che demoliva la Spina di Borgo, davanti a San Pietro, o il quartiere Alessandrino, da dove fu espulso chi vi abitava per far posto ai fasti di regime e alla speculazione.

In realtà uno dei presupposti moderni della gentrification è la deindustrializzazione di porzioni semicentrali delle città, e dunque la presenza di stabilimenti dismessi e di abitazioni in parte occupate da chi in quei luoghi lavorava. Secondo Neil Smith, studioso inglese citato da Semi, alla base della gentrification c’è un reinvestimento di capitali all’interno di una città successivo a un disinvestimento. Capitali industriali fuoriescono e rientrano capitali immobiliari. Ormai persino molti costruttori, dopo che la città s’è sparpagliata ovunque e i centri storici si sono svuotati di residenti, aderiscono alla sacrosanta richiesta di uno stop al consumo di altro suolo e spingono per l’edificazione sul già edificato (ovviamente alle loro condizioni).

Ed è qui uno dei punti cruciali. Lo segnala Carlo Cellamare, urbanista della Sapienza di Roma: «In questi processi, come pure in quelli più appariscenti, tipo la movida notturna, si manifesta qualcosa di profondo: non solo una mercificazione della città, ma una mercificazione della vita urbana. Il desiderio di socialità, di intrattenimento, di luoghi che favoriscano questo, viene, si dice, “messo al lavoro” per produrre reddito, proprio tramite processi come la gentrification ».

A Roma Tor Pignattara, appunto, o il Pigneto. O Testaccio, il quartiere che ha studiato Ranaldi, mettendolo a confronto con il newyorchese Astoria. A Testaccio non ci sono sostituzioni edilizie (al posto del mattatoio sono approdate la facoltà di architettura di Roma 3, una sezione del Macro, il museo d’arte contemporanea, e la Città dell’Altra economia), «la popolazione è divisa fra abitanti delle storiche case popolari e i nuovi arrivati, compreso l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, ma sono cambiati tanti negozi e si vanno imponendo i nuovi marchi globali», racconta Ranaldi. «Nel mondo anglosassone la gentrification è stata determinata da grandi operatori economici, da noi è partita da processi spontanei, ai quali poi si sovrappongono le valorizzazioni immobiliari e commerciali», spiega Cellamare. Al Pigneto si sono trasferiti molti giovani, poi si sono imposti simboli diversi, dall’isola pedonale alle memorie pasoliniane (quando di pasoliniano non restava nulla). I prezzi sono cresciuti e si è innescata la gentrification.

La gentrification italiana ha dunque tratti diversi. A Genova a ridosso del porto sono tornati molti figli della borghesia che aveva abbandonato quelle zone nel dopoguerra. Qui, spiega Semi, il fenomeno è bivalente: oltre alle ristrutturazioni e alla vitalità culturale i valori immobiliari sono cresciuti fino al 210 per cento e gli immigrati che abitavano le case lasciate vuote sono stati allontanati. A Milano, fra i quartieri Isola e Garibaldi, quartieri operai e artigiani, la gentrification ha invece mostrato i denti aguzzi dei fondi immobiliari, di Ligresti e dell’emiro del Qatar, impegnando grandi nomi dell’architettura che hanno disseminato l’area di grattacieli.

Conclusioni? È difficile trarne. Intanto prosegue la ricerca di modelli diversi da quelli che si sono affermati, variamente ispirati a una città dove si perdono dimensione pubblica e inclusione sociale. Semi ricorda la Bologna dei primi anni Settanta, dove Pier Luigi Cervellati avviò la riqualificazione di aree del centro storico destinandole, però, agli stessi abitanti di prima. Esperimento ripetuto a Brescia da Leonardo Benevolo e a Roma da Vittoria Calzolari. Altri tempi? Forse.

postilla
Una volta si chiamava tecnicamente sventramento, la pratica della riqualificazione urbana, con trasformazioni radicali del tessuto edilizio e infrastrutturale, a cui si accompagnavano quasi ovvie sostituzioni sociali per «ripagare i costi» della medesima trasformazione, scaricando chissà dove i sottoprodotti collaterali in termini di deportazione di famiglie, attività, aspirazioni. Ed era relativamente semplice leggere l'odioso meccanismo di rapina: c'erano dei pionieri che di fatto avevano costruito sulla propria pelle un valore, la città, nelle generazioni, e che ora venivano fatti sloggiare perché qualcuno potesse goderne adeguatamente i frutti. Poi la citata sociologa Ruth Glass a metà '900 evidenziò un nuovo strumento a bassa intensità di sventramento virtuale, che nascondeva meccanismi egualmente odiosi sotto il profilo sociale, sotto la patina della trasformazione edilizia minima o quasi inesistente: era nata la parola gentrification. Da allora in poi, pare che obiettivo centrale della cultura liberale sia spiegarci che la gentrification è buona, che è riqualificazione urbana tout court. Certo se la consideriamo solo dal punto di vista edilizio – come fa la propaganda immobiliarista - è facile confonderci, e quindi ben vengano gli studi sociologici a ricordarci, se non altro, che sempre del vecchio sventramento si tratta, sotto mentite spoglie (f.b.)

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