. la Repubblica, 3 marzo 2017 (c.m.c.)
Fin dal mito fondativo della sua storia, l’attività matematica si è suddivisa tra la ricerca e la divulgazione. Nella “Vita di Pitagora”, infatti, Porfirio racconta che «il maestro impartiva il proprio insegnamento a due categorie di persone: matematici e acusmatici. I matematici studiavano la parte più importante e approfondita della dottrina, mentre gli acusmatici si accontentavano dei fatti senza le spiegazioni».
Il “matematico” era in greco un letterale “apprendista”, che imparava attivamente il mestiere: l’analogo dell’odierno laureando, dottorando, ricercatore o assistente. L’“acusmatico” era invece un letterale “uditore”, che ascoltava passivamente l’insegnamento: l’analogo dell’odierno fruitore delle conferenze, degli articoli e dei libri di divulgazione. Una distinzione che Aristotele espresse concisamente nella dicotomia tra chi si preoccupa di “capire perché”, e chi si accontenta di “sapere che”.
Le prime testimonianze scritte di questa doppia attività di insegnamento ce le hanno lasciate Platone e Aristotele. Il primo ha scritto solo opere divulgative per una diffidenza nei confronti della scrittura, che gli faceva relegare l’insegnamento profondo all’oralità. Il secondo ha invece scritto sia opere divulgative che testi di ricerca, ma le prime sono andate perdute e ci sono rimasti soltanto i secondi. È interessante che entrambi i filosofi abbiano ritenuto di dover adottare, nella loro attività divulgativa, la forma dialogica.
Anche se spesso il dialogo platonico è fittizio, e l’interlocutore di Socrate è più una spalla che un comprimario: come l’ignaro schiavo al quale viene impartita, nel Menone, quella che è la prima testimonianza storica di una dimostrazione matematica che ci sia pervenuta. Non sappiamo invece come fossero i perduti dialoghi aristotelici, ma possiamo immaginare cosa ci siamo persi dal fatto che fu la lettura del Protrettico a convincere Cicerone a diventare un filosofo.
Anche la scienza, fin dal suo avvento, adottò la forma dialogica per la propria divulgazione.
Il Dialogo scientifico più famoso e importante è probabilmente l’omonima opera che Galileo Galilei pubblicò nel 1632, «dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l’una, quanto per l’altra parte». Come già i dialoghi platonici, però, anche quelli galileiani non sono affatto discussioni fra interlocutori alla pari: al contrario, uno dei due contendenti (Filippo Salviati) è il ventriloquo dell’autore, mentre l’altro (Simplicio) rivela fin dal nome il suo ruolo di utile idiota. Galileo incautamente mise in bocca a Simplicio alcune idee del papa Urbano VIII, che ovviamente si infuriò e gli diede il benservito con il processo del 1633, tra le accuse del quale c’era anche quella di «haver scritto in dialogo», oltre che in volgare, affinché tutti potessero capire.
All’epoca il Dialogo fu dunque letto e percepito non soltanto come una disputa scientifica, ma anche e soprattutto come uno scontro fra la scienza e la religione. La stessa cosa successe nell’Ottocento a proposito del dibattito su evoluzionismo e creazionismo, anch’esso passato alla storia per un dialogo: questa volta reale. Lo scontro si tenne in pubblico a Oxford il 30 giugno 1860, tra il biologo Thomas Huxley e il vescovo anglicano Samuel Wilberforce.
Oggi i religiosi meno ottusi di Wilberforce preferiscono saggiamente dirottare i dibattiti fra scienza e religione su livelli più astratti, e mantenerli su toni più amichevoli. Il campione di questi dialoghi è il Dalai Lama, che incontra regolarmente scienziati delle discipline più disparate, a Dharamsala in privato e altrove in pubblico, per discutere di possibili punti di convergenza tra il buddhismo tibetano e la scienza occidentale. Alcuni sono stati trascritti in libri che spaziano dalla cosmologia alle neuroscienze, con titoli che vanno da Il sonno, il sogno e la morte (Neri Pozza, 2000) a Emozioni che distruggono (Mondadori, 2003).
A volte il dibattito fra fede e scienza può avvenire direttamente tra scienziati, credenti e non. Un esempio di questo tipo di incontro è La variabile Dio. In cosa credono gli scienziati? (Longanesi, 2008), che registra il dialogo fra l’astronomo gesuita George Coyne, per venticinque anni direttore dell’Osservatorio Vaticano di Castelgandolfo, e Arno Penzias, premio Nobel per la fisica nel 1978 per la scoperta della radiazione di fondo.
Altre volte il dibattito si sposta sul confronto fra le “due culture”: scientifica, da un lato, e umanistica, dall’altro. Uno stimolante esempio è il Dialogo tra Primo Levi e Tullio Regge, tenuto nel 1984 e ripubblicato da Einaudi nel 2005. Anche se in questo caso sarebbe difficile confinare i due interlocutori nei ruoli di letterato l’uno, e scienziato l’altro: Levi lavorò infatti per tutta la vita da chimico, come testimoniano i racconti del suo famoso Sistema periodico, e Regge si divertì per decenni a produrre opere di arte computerizzata. Semmai, il loro Dialogo serve a sfatare il luogo comune che esistano appunto “due culture”, e che la scienza sia contrapposta, invece che complementare, all’umanesimo.
Il massimo esempio contemporaneo di scienziato-umanista è forse Werner Heisenberg, premio Nobel per la fisica nel 1932, che divenne uno dei padri della meccanica quantistica solo perché dovette decidersi a scegliere fra la musica, la filosofia e la fisica, tre discipline in cui brillò per tutta la vita. Per quarant’anni egli ha avuto dialoghi con molte menti brillanti come la sua, a partire da Einstein, e ne ha raccontati alcuni in Fisica e oltre. Incontri e protagonisti (Boringhieri, 1984). Il loro interesse anche umanistico è sottolineato dall’attenzione che ha dedicato al libro un teologo come Joseph Ratzinger in Fede, verità, tolleranza (Cantagalli, 2003).
Chi non desidererebbe esser “sesto fra cotanto senno”, quando si svolgono incontri di questo genere? A volte le manifestazioni culturali regalano al pubblico qualche rara occasione. Ma la rete permette ormai di osservare da vicino addirittura i dialoghi che si tengono fra i ricercatori, nel momento stesso in cui producono i loro risultati: medaglie Fields come Terence Tao e Timothy Gowers, ad esempio, gestiscono da anni dei blog nei quali discutono in chiaro problemi aperti, che a volte vengono risolti collettivamente con la partecipazione attiva del pubblico. O, almeno, di quella parte che non si accontenta di “sapere che”, e pretende anche di “capire perché”.