». il manifesto, 27 maggio 2017 (c.m.c.)
L’ottava edizione dei Dialoghi sull’uomo, il festival di antropologia diretto da Giulia Cogoli (Pistoia 26-28 maggio 2017), ha un titolo lungo: La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi. Ma va bene così: a costo di sembrare noiosi, vale la pena di insistere su quanto abbiano pesato nella nostra storia gli scambi e i contatti fra popoli diversi. Siamo tutti bastardi, tanto biologicamente quanto culturalmente, ma rischiamo di dimenticarcene a furia di sentir parlare, in televisione, sui giornali e a cena con gli amici, di linee di confine fra chi è (o ci sembra), come noi e chi invece non lo è.
È una storia vecchia: abbiamo bisogno di parole per definire le cose. Ma queste parole, a prenderle troppo sul serio, tracciano linee divisorie nette: fra bianchi e neri, romani e barbari, nord e sud; oppure (ma è lo stesso) fra vegetariani e onnivori, fra credenti e altri credenti, e fra tutti i credenti e atei o agnostici. Ovviamente, le differenze ci sono, sia biologiche sia culturali: e meno male, se no sai che noia. Però ci sono tantissime sfumature, e il linguaggio corrente le trascura; se ce ne dimentichiamo, se le cancelliamo dal nostro mondo mentale, ecco che tutto si appiattisce intorno a noi.
L’operazione comporta dei rischi, e ce l’ha spiegato il premio Nobel Amartya Sen, nel suo Identità e violenza. Un manovale Hutu di Kigali può vedere se stesso solo come Hutu e arrivare a uccidere il suo collega Tutsi, scrive Sen, ma facendolo perde di vista tutto quello che li unisce: essere entrambi abitanti di Kigali, manovali, ruandesi, africani e esseri umani.
L’idea del Festival, allora, è di portare alla luce la ricchissima rete di contaminazioni che hanno fornito tanti elementi in comune sia alle nostre culture, sia (e qui si spiega cosa c’entri la genetica) alla nostra natura biologica: un compito più semplice di quanto si possa immaginare, perché la ricerca ha fatto grandi passi avanti, e oggi comprendiamo bene differenze e somiglianze su cui l’umanità si interroga da sempre. Abbiamo visto, per esempio, che la nostra tendenza a classificare i nostri simili, ad attribuire loro un’etichetta razziale, ci ha impedito per secoli di capire quanto siano piccole le nostre differenze biologiche e come si siano formate.
E così, da quando ci siamo tolti gli appannatissimi occhiali della razza, siamo riusciti a leggere nel nostro DNA un sacco di cose sulla nostra preistoria. Oggi sappiamo molto meglio chi siamo (una specie straordinariamente mescolata, in cui ognuno porta pezzi di DNA di provenienza diversissima) e da dove veniamo (dall’Africa), mentre su dove andiamo, purtroppo, siamo incerti e confusi come sempre. Sappiamo che le differenze fra le varie popolazioni umane sono sfumature, reali ma minuscole, in una tavolozza genetica in cui ognuno è identico al 99,9% a qualunque sconosciuto.
Stiamo studiando come in quell’uno per mille di differenze ci siano i fattori che spiegano le nostre diverse tendenze ad ammalarci e a rispondere al trattamento farmacologico, il che apre grandi prospettive in medicina preventiva. E abbiamo capito che il nostro carattere, le nostre scelte e i nostri gusti c’entrano pochissimo con i nostri geni, e molto invece col complesso di situazioni ed esperienze individuali che riassumiamo nella parola cultura.
C’è un paradosso: mentre la biologia abbandona la visione razziale perché ha capito che ogni gruppo umano comprende individui molto diversi, con caratteristiche che si sono evolute attraverso scambi e commistioni, una visione simile sta affiorando in ambito culturale. E così nascono forme di razzismo più sottili, secondo cui quello che ci separerebbe dagli altri non starebbe magari nei geni, ma nei nostri schemi culturali, che però sarebbero profondamente radicati e sostanzialmente immutabili.
Scontro fra culture, chi non l’ha sentita questa espressione? Col corollario: Non sono razzista, ma santo cielo! questi musulmani sono proprio diversi da noi. Per generare un ampio catalogo dei nuovi razzismi, basta sostituire di volta in volta alla parola “musulmani” l’etichetta di quelli che vorremmo discriminare. Le tre parole-chiave di questa edizione del festival ci ricordano, invece, come le nostre identità siano tutt’altro che immutabili e tutt’altro che impermeabili. Noi speriamo che ragionare insieme sulle nostre migrazioni, sulle nostre differenze e scambi che sempre ci sono stati fra popoli e culture diversi ci aiuti ad affrontare a mente fredda questa difficile fase, in cui nubi di intolleranza sempre più cupe si addensano sul cielo d’Europa.