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Cronache del disastro di Haiti
17 Gennaio 2010
Articoli del 2010
Gli articoli che il manifesto (17 gennaio 2010) dedica al dopoterremoto ad Haiti: crolli e morti non solo nella terra più povera dell’Occidente

In viaggio con Lilianh, da Ground zero alle macerie di Haiti, di Stefano Liberti

ONU «Mai un disastro così grande nella nostra storia»,di Fausto Della Porta

Quando i morti saranno stati sepolti, di Leonardo Padura Fuentes

Bush e Clinton, la strana coppia in soccorso del paese caraibico, di Matteo Bosco Bortolaso

Nelle bidonville nessuno scava. Un formicaio di ombre disperate, di Federico Mastrogiovanni

Hanno zero. La «radio loyalty» di Little Haiti, di Tiziana Rinaldi Castro

Soccorsi armati. Obama e l'imperialismo degli aiuti, di Tommaso Di Francesco

In viaggio con Lilianh, da Ground zero alle macerie di Haiti

di Stefano Liberti

«Quando la tragedia bussa alla tua porta, devi reagire». Lilianh ha un volto paffuto, un fisico gigantesco e un sorriso tirato che nasconde appena una preoccupazione palpabile. Lilianh è una haitiana-americana e si è precipitata in questo inferno direttamente da New York. Quando ha saputo che il terremoto che aveva devastato e sconvolto la sua isola, quando ha pensato che anche la zia Susanne - quello che restava della sua famiglia - poteva essere finito sotto le macerie, ha avuto un groppo al cuore. Ha capito che la tragedia bussa alla tua porta quando meno te lo aspetti, come era successo in quel giorno di settembre del 2001 in cui lei, paramedica, si era trovata a scavare sotto le macerie di Ground Zero alla ricerca di superstiti. Ha quindi deciso che il destino andava affrontato di petto: bisognava andare a vedere che ne era di sua zia e cosa era rimasto della sua isola in mezzo ai Caraibi.

Non è partita subito, in modo impulsivo. Prima ha provato a procurarsi le informazioni per affrontare al meglio il viaggio, chiamando amici e conoscenti ad Haiti. Ma i telefoni rimanevano muti e, quando suonavano, lo facevano a vuoto. A quel punto ha pensato di comporre il numero di emergenza pubblicizzato in bella mostra dalla rete televisiva Cnn, ma una signora con voce gentile ma ferma le ha detto che loro si occupavano soltanto degli scomparsi di nazionalità americana. «Una cosa assurda. Ho guardato in modo ossessivo tutti i servizi televisivi, cercando notizie. Ma dicevano tutti la stessa cosa: Terremoto a Port-au-Prince. Migliaia di morti. Crollata la casa bianca (il palazzo presidenziale ndr). Nessuno che desse indicazioni più dettagliate su quali parti della città fossero state colpite».

Così ha preso Adam, il figlio diciottenne, e si è imbarcata su un aereo per Miami, poi su un altro volo con destinazione Santo Domingo. Arrivata nella capitale della Repubblica dominicana, per portare a termine la sua missione ha affittato una macchina. Quando incontriamo Lilianh e Adam all'aeroporto di Santo Domingo, sono ancora lontani centinaia di chilometri dalla loro meta finale: il quartiere popolare di Canapé vert, su un collina di Port-au-Prince, dove vive da una vita la zia Suzanne.

Il tragitto è stato lungo e penoso; attraverso una frontiera intasata di camion d'aiuti e affollata dei feriti che andavano a cercare conforto e cure nel più ricco paese vicino. Poi, man mano che ci si avvicinava a Port-au-Prince, sempre più vistosi sono comparsi i segni del cataclisma. Prima qualche muro crepato. Poi case crollate, pezzi d'asfalto saltato. Lilianh, che ha fatto la soldatessa nell'esercito americano, non è persona da lasciarsi andare a facili emozioni: mantenendo il sangue freddo continua a dirsi che «quando ti aspetti il peggio, se poi arriva il meglio è una notizia doppiamente bella».

Port-au-Prince la accoglie come una città ferita, mutilata. L'effetto sembra quello di un massiccio bombardamento: edifici accartocciati su se stessi, cadaveri rigonfi abbandonati per strada e che cominciano ad annerirsi per il sole battente. Uomini e donne feriti. Lei si guarda intorno e ripete una sola frase: «My god, che disastro». E poi un sospiro: «Che ne sarà della zia Suzanne?».

La città distrutta sfila lenta dietro il nostro sguardo. Folle di persone senza più una casa si aggirano come stordite, apparentemente senza meta. Un gruppo di ragazzi s'è spalmato il dentifricio sotto gli occhi: così pensano di potersi proteggere da eventuali epidemie. Altri scavano a mani nude tra i detriti. Ogni tanto, sopra le macerie, spunta un casco di qualche squadra di soccorso, che continua a cercare nonostante le flebili speranze. Davanti a un palazzo, un cartello fornisce un'indicazione ai soldati americani che cominciano a vedersi per la città (molti altri sono in arrivo): «Benvenuti soldati americani. Cadaveri all'interno».

Insieme a Lilianh ricostruiamo la topografia di una città che non c'è più e che non sarà mai più la stessa. «Lì c'era una scuola» dice indicando il cumulo di mattoni e resti di un palazzo raso al suolo. Attraversiamo la capitale. Vediamo al Casa bianca, il palazzo del presidente della Repubblica, collassata. Saliamo sulle colline verso Canapé vert. I nomi dei vari quartieri vengono declinati in modo quasi automatico da Lilianh, sempre più inquieta. Sembra quasi che ci stiamo avvicinando all'epicentro dell'ecatombe.

Entriamo a Canapé vert e siamo accolti da un tanfo insopportabile. Fermiamo la macchina e cominciano una lunga camminata tra palazzi crollati, macerie accatastate, cadaveri abbandonati. «Quella è la casa della zia Suzanne», indica in lontananza Lilianh. Nel punto che lei segnala si vedono solo resti di case crollate.

Ma la donna non sembra perdersi d'animo. Nonostante la fatica, scavalca tre o quattro edifici, trascina passi malfermi tra le rovine, altri minuti di angoscia. Quando arriviamo al punto in cui c'era l'appartamento della zia, Lilianh riconosce un uomo. Lo saluta. Gli fa una domanda in creolo. Lui risponde. Lei scoppia in un pianto dirotto. Un secondo dopo anche Adam, che il creolo non lo capisce, si scioglie in lacrime. Poi si lanciano tutti e due in una precisa direzione.

In mezzo a uno spiazzo, sdraiata su un materassino, giace incolume la zia Suzanne. L'abbraccio è immenso. Le lacrime sgorgano a fiumi. L'emozione è fortissima e coinvolge tutti. La zia racconta come è scampata al cataclisma. «Ero in camera da letto, quando ho sentito il botto. La casa è crollata, eccetto il soffitto sopra la stanza in cui stavo. Sono riuscita a uscire dalla finestrella e mi sono arrampicata tra i pezzi della casa del vicino». A vedere questa donna di ottantaquattro anni dal fisico esile, si fa difficoltà a immaginare tutte quelle acrobazie. Eppure è accaduto: la signora è viva, sorride e dice che vuole restare lì, vicino alle sue cose, e non vuole andare in hotel.

«Questa è la mia casa, questa è la mia città, per quello che rimane» dice alla nipote che la invita invece a seguirla negli Stati Uniti, a New York. Intorno i suoi vicini approvano. La salutano come una miracolata. Lilianh quasi non riesce a parlare dalla gioia che le esplode dentro: «L'avevo detto. Quando ti aspetti il peggio e arriva il meglio, la felicità è doppia». Poi si guarda intorno e soffoca il suo sorriso. Vede le case che conosceva bene. Vede quello che ne resta. Chiede notizie delle persone che vivevano lì dentro. Molti sono morti, alcuni si sono salvati. Tutti, senza eccezione, hanno perso la casa e sono ormai alla quinta notte all'addiaccio. Tutta Port-au-Prince si prepara a un'altra notte di paura. Un altra notte di abbandono, tra le macerie, i cadaveri e il tanfo pestilenziale che sembra avvolgere tutto e tutti.

ONU «Mai un disastro così grande

nella nostra storia»

di Fausto Della Porta

Il più grande disastro dalla fondazione, nel 1945, delle Nazioni Unite (Onu). Così ieri Elisabeth Byrs, portavoce dell'Organizzazione internazionale, ha definito il terremoto di Haiti, mentre gli aiuti continuano ad arrivare col contagocce a una popolazione ormai stremata. «I palazzi di governo sono collassati, ci manca il supporto delle infrastrutture locali» si è giustificata Byrs da Ginevra. Secondo la funzionaria, i danni prodotti dal sisma scatenatosi martedì sono peggiori di quelli causati, nel 2004, dallo tsunami nella provincia indonesiana di Aceh.

Ieri è stato il governo haitiano a fornire altre, approssimative, stime di questa catastrofe che si aggrava di ora in ora: il ministro dell'interno Antoine Bien-Aime ha detto che 50.000 cadaveri sono già stati recuperati, ma che alla fine delle operazioni di soccorso i morti potrebbero essere tra 100.000 e 200.000, mentre 3/4 della capitale, Port-au-Prince, sarebbero interamente distrutti. Gli haitiani in possesso di passaporto straniero si stanno accalcando nei pressi dell'aeroporto della capitale - dove l'esercito statunitense ha messo su un ufficio mobile d'immigrazione - nel tentativo d'imbarcarsi sui voli in arrivo coi primi aiuti umanitari.

Secondo testimoni e fonti giornalistiche sul posto, molte persone con pacchi e bagagli sulla testa o sulle spalle, altre ammassate su automobili o camion si stanno dirigendo verso le campagne, contando sull'ospitalità di amici o parenti. Nelle campagne la situazione sarebbe migliore, per l'assenza di grandi edifici di cemento. «Ho aspettato per due giorni, ma non è arrivato nulla, neanche una bottiglia d'acqua» ha raccontato Yves Manes, incamminato lentamente sulla strada con la moglie.

Il segretario generale dell'Onu Ban Ki Moon dovrebbe arrivare oggi ad Haiti per portare la sua solidarietà alle vittime del terremoto di martedì e allo staff dell'Onu sull'isola caraibica. Ban ha annunciato che intende anche valutare la situazione e degli sforzi internazionali di assistenza. Ma è chiaro ormai che il comando delle operazioni è stato assunto dagli Stati Uniti e sarà Washington, quando già domani dovrebbe aver dispiegato sull'isola 10.000 soldati, a dettare tempi e modi delle operazioni umanitarie.

«Alla radio ci hanno detto che Obama ci sta inviando aiuti. Ma dove sono? Spiegatelo a tutta questa gente. Quanto ancora dobbiamo aspettare?» ha dichiarato alla Reuters Donade Mars, che ha improvvisato un campo di rifugiati sul prato antistante la residenza del primo ministro. Nella notte tra venerdì e ieri è arrivata - riferisce la France presse - la prima nave carica d'aiuti, banane e carbone.

È sceso a 13 il numero degli italiani che al momento risultano dispersi ad Haiti, per tre connazionali «si teme fondatamente il decesso», due funzionari delle Nazioni Unite e una persona rimasta sotto le macerie di un supermercato crollato. A fornire l'aggiornamento è stato il portavoce della Farnesina Maurizio Massari da Tunisi dove ieri pomeriggio è arrivata la delegazione italiana a seguito del ministro degli Esteri Franco Frattini. Al momento continuano le ricerche dei nostri connazionali in ospedali, obitori e in tutti i punti dove è stata segnalata la presenza di italiani.

Quando i morti saranno stati sepolti

di Leonardo Padura Fuentes*

Haiti è stato il primo paese indipendente dell'America latina. La colonia francese di Saint Domingue, che occupava la metà occidentale dell'isola di Hispaniola, negli ultimi anni del secolo XVIII vide bruciare le piantagioni di caffè e di canna da zucchero che tanta ricchezza avevano dato alla metropoli europea. Il fuoco lo appiccarono gli schiavi neri, portati dall'Africa o già nati nella colonia, che ebbero l'ardire di pensare che il sogno illuminista di libertà, uguaglianza e fraternità fra gli uomini riguardasse anche loro, i più sfruttati e diseguali. Tuttavia uomini, in fin dei conti.

La sfida lanciata al mondo e alla storia dai neri e dagli ex-schiavi hatiani, sembrò troppo audace e presto si sarebbe rivoltata in una sorta di maledizione secolare. Da allora Haiti divenne un teatro di invasioni e occupazioni, di dittature e violenza, di miseria, dolore e ignoranza, di paura e fanatismo. Sconfitti i sogni e l'utopia, Haiti si convertì in una finestra dell'inferno sulla faccia della terra.

Haiti è il paese più povero dell'emisfero occidentale, il più analfabeta, il più colpito dalla violenza e dalle malattie, il più affamato e insalubre. Dieci milioni uomini, donne e bambini, quasi tutti neri, vivono su un pezzo di terra dove periodicamente affiora la violenza nel modo in cui si esprime fra i più poveri, incolti e spossessati: in forme radicali e senza limiti. A Haiti, ogni giorno, muoiono di fame, denutrizione, malattie curabili e desolazione centinaia di bambini, vecchi e donne.

Fino a quando la furia della natura ha sconvolto la capitale haitiana, il 12 gennaio, e l'ha devastata, lasciando una numero di morti e feriti ancora non precisabile, chi parlava di Haiti? Chi si ricordava di Haiti e della sua eterna agonia?

Oggi i governi di molti paesi esprimono il loro dolore e offrono la loro solidarietà umanitaria a un paese desolato. Grazia a un terremoto uscito dalle maledizioni dell'Apocalisse (anche se un'ira così non può essere divina), si parla di Haiti, si aiuta, ci si ricorda di Haiti. Gli aiuti che stanno arrivando e arriveranno al paese sicuramente salveranno vite, daranno da mangiare ad affamati e un rifugio a chi ha perso tutto. Ma quando sarà passata l'onda chi continuerà ad aiutare Haiti?

Le decine di migliaia di morti che oggi giacciono sotto le macerie di una città poverissima, nelle fosse aperte alla meglio e perfino per strada, inducono una straordinaria commozione. Però quelli che morivano di fame e disperazione un giorno prima, chi commuovevano?

Ora, quando si parla di Haiti, si dovrebbero usare parole che non siano solo di condoglianze ma anche, e soprattutto, di speranza: Haiti ha bisogno dell'aiuto che sta arrivando oggi ma anche di quello che reclamava da molto tempo prima, l'aiuto che le permetterebbe di uscire dalla sua ancestrale miseria, dalla sua ignoranza spessa, dalla sua povertà, che sono altrettanto e più devastanti del più devastante dei terremoti.

La furia della natura ha ricordato a tutti noi che Haiti esiste. Speriamo che domani, quando la tragedia sarà scomparsa dai titoli dei giornali e dagli appelli degli organismi internazionali, quando questi morti di oggi saranno stati sepolti, non ci dimentichiamo che Haiti continua a esistere, povera e miserrima, e che gli haitiani continueranno a morire se non si cambia il destino tragico che un mondo ingiusto ha riservato agli eredi di quegli schiavi che due secoli fa lottarono per la libertà, l'uguaglianza e la fraternità fra gli uomini. Come se fossero possibili.

* Scrittore e giornalista cubano

Bush e Clinton, la strana coppia in soccorso del paese caraibico

di Matteo Bosco Bortolaso

A volte ritornano. E stavolta il parterre è notevole. Il terremoto ad Haiti ha riportato sul palcoscenico globale George W. Bush e Bill Clinton, due ex presidenti, chiamati da Barack Obama per coordinare l'impegno degli Stati uniti per aiutare e, si spera, far rinascere il paese caraibico. Una strana coppia. I due leader vengono da schieramenti opposti, ma «in queste ore difficili, l'America rimane unita», ha sottolineato Obama.

Ieri il giardino delle rose della Casa Bianca ha ospitato un inedito menage à trois, con il più recente inquilino ad aprire le danze. «Vi voglio ringraziare, a nome del popolo americano, per aver deciso di tornare al servizio del paese», ha detto Obama rivolto ai suoi predecessori dopo un mini-vertice nell'ufficio ovale, un luogo «che entrambi conoscono bene», ha ricordato il presidente. I due dovranno guidare «una tra le maggiori operazioni di soccorso nella storia degli Stati uniti» e «un massiccio impegno per raccogliere fondi» tra privati ed enti pubblici, coordinando gli aiuti a stelle e strisce. Si tratta, secondo l'attuale presidente Usa, di una missione il cui successo non potrà essere misurato «in giorni e settimane, ma mesi ed anni». Bush e Clinton, insomma, non dovranno occuparsi solo delle risorse necessarie alla popolazione terremotata nell'immediato, ma mettere in cantiere la rinascita del fragile paese.

Obama ha quindi passato la parola a Bush, di cui ha ricordato l'impegno per lo tsunami in Asia nel 2004 ma non quello per salvare New Orleans dall'uragano Katrina nel 2005. Immediatamente dopo lo tsunami asiatico, in maniera molto simile, vennero ancora convocati due ex presidenti: lo stesso Clinton e il padre di Bush.

L'ex presidente repubblicano, arrivato dal Texas dopo un anno esatto di assenza da Washington, si è detto felice di poter aiutare, ed ha rispolverano il lessico religioso che avevano caratterizzato i suoi otto anni di Casa Bianca: lui si impegnerà per mettere in moto la «compassione» degli americani, i quali si sono già mostrati «devoti» nel contribuire alla ricostruzione del paese. «Il modo più effice per aiutare è con il denaro - ha ricordato Bush - molte persone vogliono mandare coperte ed acqua...just send cash, mandate soldi». Quindi la parola è passata a Clinton, che ha ripercorso con aria sobria e compassata gli ultimi mesi da inviato speciale delle Nazioni unite proprio ad Haiti, «in contatto costante» con leader e popolazione locali.

Il triplice appello, lanciato pure sul web (ClintonBushHaitiFund.org) si affianca ad altre iniziative umanitarie portate avanti dai vip americani: dalla first lady Michelle Obama, che è riuscita a raccogliere 6 milioni di dollari, all'attore impegnato George Clooney, che la settimana prossima sarà su Mtv per convincere i più giovani ad aprire il portafoglio. E c'è poi l'impegno ufficiale degli Stati uniti a stanziare 100 milioni di dollari.

Ieri ad Haiti è arrivata il segretario di Stato Usa - e moglie di Bill - Hillary Clinton, con l'obiettivo di discutere la situazione direttamente con il presidente haitiano René Préval. All'andata, il suo aereo ha portato risorse di prima necessità, e al ritorno ha caricato diversi americani che volevano lasciare Port-au-Prince.

«Aiuteremo direttamente e personalmente il popolo di Haiti con il nostro continuo appoggio, con la nostra solidarietà e con la nostra simpatia», ha detto il capo della diplomazia di Washington prima di partire. Hillary Clinton, in particolare, ha sottolineato che per il momento gli Stati uniti si concentreranno sul «recupero fisico di strade e edifici» per poi continuare quel piano di ricostruzione del paese già in atto negli anni passati, che la responsabile degli esteri ha definito «positivo».

Gli americani hanno preso ufficialmente il controllo dell'aeroporto di Port-au-Prince, che dopo il sisma di martedì era diventato «una giungla», secondo il responsabile degli aiuti umanitari dell'Onu, John Holmes. La gestione americana dell'aerostazione ha suscitato però le critiche della Francia, che si è vista negare temporaneamente l'atterraggio di un aero-ospedale. I voli verso la capitale haitiana sono talmente tanti che la congestione è inevitabile. Per di più il porto della città rimane ancora inutilizzabile.

Nelle bidonville nessuno scava

Un formicaio di ombre disperate

di Federico Mastrogiovanni

Port-au-Prince è un cumulo di macerie e di corpi. La puzza di morte si appiccica addosso. Per le strade, all'improvviso compaiono decine di accampamenti improvvisati, delimitati da pietre e pezzi di calcinaccio: la gente che ha perso la casa e non sa dove andare si sistema in mezzo alle carreggiate, anche per paura di nuovi crolli, dovuti al peso degli edifici, a scosse di assestamento o conseguenza del sisma di martedì scorso, il più forte degli ultimi 200 anni.

Passando da Rue Dalmas, una delle arterie della capitale haitiana maggiormente colpite dal sisma, si stagliano le gru al lavoro tra le macerie della prigione. Qui sotto sono sepolti molti detenuti e guardiani, ma molti altri prigionieri sono riusciti a salvarsi e a scappare. Secondo testimoni e agenzie stampa, il violento incendio divampato al palazzo di Giustizia sarebbe opera di questi fuggitivi, intenzionati a distruggere i loro fascicoli. La fuga ha generato una violenta caccia all'uomo da parte delle forze dell'ordine e della Minustah, la missione Onu che dal 2004 ha il compito di stabilizzare il paese dopo la cacciata di Aristide.

Ma le ricerche sono concentrate soltanto in alcuni punti della città, come l'hotel Montana, in centro, mentre nella gran parte di Port-au-Prince, soprattutto nelle bidonville, nessuno scava. Non si è nemmeno iniziato, perché non ci sono mezzi per farlo.

Si aprono fosse comuni per raccogliere le decine, forse centinaia di migliaia di morti senza un volto né un nome, semplicemente spazzati via da un terremoto che non ha scalfito le case dei ricchi, costruite con criterio e materiali resistenti.

«Questo disastro non sarebbe successo se queste case fossero state costruite seguendo le elementari norme antisismiche», sostiene Fiammetta Cappellini, capo missione ad Haiti della Ong Avsi. «Dopo tre giorni stiamo ancora contando i morti e i dispersi, ma non si riesce a calcolare con precisione. Sono troppi».

Nel centro città, in Rue Nasone, i morti sono accatastati sulla strada, coperti, nel migliore dei casi, da striminziti lenzuoli, ma vengono anche trasportati a braccia, dai parenti, su carretti trainati da animali. I più fortunati, hanno una bara.

Port-au-Prince è un formicaio di gente che vaga per le strade cercando superstiti, trasportando feriti, oppure sotto shock, assediando i pochi ospedali che danno soccorso e le tendopoli allestite alla meglio da volontari e istituzioni delle Nazioni unite.

«Il problema vero qui è che tutti questi cooperanti e le forze internazionali non hanno un buon coordinamento», sostiene Philippe, cooperante francese aspettando una riunione nel centro logistico delle Nazioni unite allestito all'aeroporto. «La funzione di coordinamento la dovrebbe svolgere la Ocha, l'agenzia Onu che si occupa di gestire tutte le forze sul campo in casi di emergenza umanitaria, ma finora non sembra che siano stati in grado di coordinarsi in modo efficace. Poi le comunicazioni sono precarie. Fino a due giorni fa nemmeno gli integranti della Minustah erano in grado di comunicare adeguatamente tra loro».

Gli aiuti arrivano, ma ancora non si è iniziato a distribuirli sistematicamente alla popolazione.

Di fronte al centro logistico di Medici senza frontiere Belgio, nel «ricco» quartiere di Petionville, si ammassano feriti bisognosi di cure. «Qui ci occupiamo dei casi meno gravi - racconta Nadine, una giovane infermiera haitiana - abbiamo comunque poche risorse e poco posto». E infatti i corpi si ammucchiano negli spazi comuni, uno sull'altro in discesa sulle rampe dei garage, buttati su teloni, cartoni, lenzuoli.

Le ossa vengono aggiustate con steccature di cartone e garza, si fa come si può.

Uno scenario dantesco in cui, col passare dei giorni, la mancanza di cibo, acqua e carburante si fa sempre più drammatica. Le poche pompe di benzina disponibili sono presidiate dai caschi blu nel caos di traffico e gente, per impedire disordini e sommosse.

Nel quartiere di Cité du Soleil, uno dei più poveri della città, si fa la fila per fare rifornimento di acqua da alcuni pozzi. Ma l'acqua non è potabile. È acqua di scolo di una città che non ha un sistema fognario, le cui strade sono una fogna a cielo aperto che si pulisce quando piove, portando tutto a valle.

Cala il buio su Port-au-Prince, la città del buio, dove la corrente - se va bene - c'è per 4 o 6 ore al giorno, in tempi di normalità.

Un predicatore col megafono gira per le strade del centro, seguito da un gruppetto di persone. «La fine del mondo è vicina, preparatevi a ricevere la fine del mondo. Non si sa quando arriverà ma sarà molto presto».

Col buio, l'atmosfera diventa più irreale. Ombre ammucchiate, sdraiate, vaganti. Qualcuno balla, canta e prega davanti a ciò che rimane della sua casa disintegrata, affinché Dio lo aiuti a superare un nuovo giorno all'inferno.

HANNO ZERO

La «radio loyalty» di Little Haiti

di Tiziana Rinaldi Castro*

NEW YORK - La comunità haitiana a New York è forte e ben radicata e a Brooklyn, su Nostrand Avenue, dai ristoranti lungo la strada mi raggiungono come un'onda gli odori irresistibili del Mais Moulu con sauce pois, una sorta di polenta accompagnata da una salsa a base di legumi, e delle frittelle di dentice. Mi imbarazza la forza degli odori: questa nozione, appresa con la fame, con il sonno e con la sete, che la vita continua, anche quando si ferma il cuore di un'intera nazione, anche quando la morte sembra la più forte. Ma non c'è musica: né Kompa né Meringue si odono dai negozi lungo la strada.

All'altezza di Beverly Road mi fermo davanti alla stazione di Radio Soleil. Si è formato un pannello di persone dinanzi alle porte a vetro che danno sulla strada. Ci sono cronisti: una ragazza italiana con una videocamera, della Rai; una reporter dal quotidiano madrilegno Publico e una ragazzina del New York Times. Una giovane donna, con lunghe e folte trecce, si alza e si avvicina.

«Puoi aiutarmi?» mi chiede «sto cercando mia madre. È ad Haiti, il suo paese d'origine, in visita con amici. Si chiama Marie Angie Barthilemy, ha 52 anni, io sono Sandra».

«No, non posso aiutarti, ma posso scriverne».

«Mia sorella Beatris, in California, è un soldato della Marina; è riuscita a parlarle un attimo ieri, prima che la comunicazione si interrompesse; poi più niente».

«Era certa che la voce fosse la sua?»

«Sì, sia ringraziato Dio».

Ora si avvicina un signore, elegante, come vestono qui, attenti al dettaglio: la cravatta, le scarpe a punta, il cappotto, il cappello sopra i capelli corti.

«Sono Mikel Faostin, ho una sorella lì, non sono riuscito a parlarle. Ma Dio è grande e ci aiuta, Dio ci guarisce. Qualsiasi cosa accada».

Non così speranzosa Margareth Petithomme che, occhi gonfi sul volto stravolto dall'ansia e dalla fatica, mi guarda angosciata. In una mano tortura un fazzoletto, nell'altra tiene stretto un mucchio di fotografie.

«Signora» le chiedo contrita «da quando non dorme?».

«Da martedì, se ci provo ho gli incubi».

«Chi ha lì?»

«Mia madre, mia sorella, mio nipote. Abitano a tre, quattro isolati dai corpi» risponde prima di contorcere il volto in una maschera di disperazione. Mi mostra le foto: donne sorridenti, bambini, un cielo blu all'orizzonte.

«Abita qui vicino?»

«No, a Canarsie».

Ma è venuta qui, a Flatbush, nella sede di Radio Soleil che vanta 500.000 ascoltatori tra il milione e mezzo di haitiani che vivono negli Stati Uniti. È parte del fenomeno qui chiamato Radio Loyalty, una forma di lealtà alla madrepatria tipica della popolazione haitiano-americana, una patria povera ma dove anche gli shoeless - gli scalzi - hanno una radio a transistor per ascoltare le notizie.

Cerco il presidente della radio, Ricot Dupuy. È al telefono, nell'ultima stanza della radio, un telefono per ogni orecchio. Quando mi vede sulla porta mi comunica bruscamente che non ha tempo per me.

«Vorrei solo sapere cos'è stato fatto finora qui».

Mi guarda svuotato, come a dire: cosa vuole che possiamo fare noi, da qui? Affretta tuttavia la conclusione di entrambe le telefonate.

«Da martedì i nostri ascoltatori ci portano liste di nomi dei loro cari e noi le mandiamo in onda. Siamo in diretta con Radio Signal Fm a Port Au Prince. C'è un sito internet, www.yele.org, che sta organizzando la raccolta dei fondi da mandare ad Haiti. Per il resto ancora niente. Vada alla chiesa St. Therese de Lisieux, le sapranno dire di più». È esausto Ricot e spesso si ferma guardando il computer o gli cade l'occhio su di una lista di nomi e mi chiede di ricordargli cos'è che stava dicendo. E no, non trova l'indirizzo della Chiesa.

Torno in anticamera, su cui, attraverso una parete a vetri, si apre una sala trasmissioni. C'è una ragazza piena d'energia, vibrante, fattiva: Augla. Mi avvicino per parlarle ma mi precede un giovane uomo, gli occhi gonfi, il volto mangiato dalla paura.

«Per favore aiutatemi, non ce la faccio più» esclama tendendole un foglio pieno di nomi e indirizzi «sono giorni che chiamo, nessuno risponde». Augla scorre la lista con gli occhi e anch'io. Più volte, accanto ai nomi dei parenti, le parole Delmas 65 e Delmas 41. Augla lo rassicura che trasmetterà subito i nomi.

«Per favore» continua a implorare l'uomo.

«Come ti chiami?» gli chiedo commossa.

«Gilbert Racine, vengo da Pelham, nel Bronx. Mio padre e mio zio sono partiti domenica. Io non ce la faccio più». Le braccia penzoloni, il corpo appoggiato al muro, gli occhi supplici, come se questa radio oppure io potessimo ridargli sani e salvi i suoi parenti. Ho paura che svenga.

«Si sieda, per favore, Gilbert» lo prego ma qualcuno gli fa altre domande e io seguo Augla fuori dalla sala trasmissioni. Mi racconta: «Sono una volontaria, non faccio parte della radio. Studio all'università, qui a Brooklyn. Ma non potrei andare a scuola, ora. Voglio aiutare la mia comunità».

Guarda in direzione di Gilbert Racine e dice a voce bassa:

«Come faccio a dirgli che Delmas è la zona più colpita, che a Delmas non c'è rimasto niente?»

«E tu, chi hai lì?» le chiedo, sperando di scordarmi quel che mi ha appena detto.

«La famiglia di mia madre: povera donna, è distrutta. E a mia nonna si è alzato il diabete; sono 12 anni che non vede i suoi figli. È convinta che ora, se anche li rivedrà, saranno morti».

'Se anche li rivedrà'. Si riferisce alle fosse comuni che ora dopo ora si riempiono nei cimiteri di Port Au Prince: corpi senza un nome, senza una preghiera, senza un addio.

Esco e attraverso la strada. Dal barbiere "Impeccable", è contento Guy Bonny, che ha parlato con suo fratello proprio stamattina.

«La casa forse è pericolante, ma lui no», mi annuncia. In chiesa, invece, non c'è nessuno: «Domani sera», mi consiglia la ragazzina che ha aperto la porta della sagrestia. Mi dirigo verso la stazione di Radio Po Nou, anch'essa su Nostrand Avenue, non lontana.

«È con la melàs, il gas che ci fornisce Chavez, che funzionano i generatori della nostra radio gemella a Cap Haitien, nel nord di Haiti» mi spiega il signor Jude Joseph, direttore della radio. «Lo Stato non ci fornisce elettricità». È stanco Jude, «sono due notti che non dormo, il cellulare squilla in continuazione»» spiega, alzando le spalle.

«Sono venuto qui per aiutare la mia famiglia» racconta invece il signor Gaspard «lavoro in questa radio 24 ore al giorno ma è così che sono riuscito a costruire il Club Sportif a Port Au Prince: un campo sportivo, un campo da tennis, ristorante, studio di registrazione, parrucchiere. E ho dato lavoro a tanti nella mia terra. Oggi mi hanno chiamato: "Stiamo tutti bene, boss, ma del club non è rimasto niente" hanno detto». Scuote la testa, «Tutti seduti nel campo sportivo, a guardare le stelle. Vivi, almeno» conclude. Di fronte alla notizia della sua colossale perdita è stoico il signor Lynch Gaspard. È una cosa - lo stoicismo - che noti spesso nella comunità haitiana. E allo stoicismo si accompagna l'orgoglio e la fierezza di un popolo piegato - ma non spezzato - dalla povertà e dall'inefficienza di governi dittatoriali o debolissimi, divorati dalla corruzione e da un vergognoso militarismo. Eppure è del glorioso passato di Haiti che si fa forte questo popolo laborioso e intraprendente. E leale sia ad Haiti che agli Stati Uniti, con cui il legame è forte da ben due secoli e mezzo: Haiti è stata la prima repubblica afrocentrica nelle Indie occidentali, dopo una rivolta che, prima sotto il comando dell'eroico Toussaint L'Ouverture, ex schiavo della colonia francese, e poi del suo alleato Jean-Jacques Dessalines, costò alla Francia post-rivoluzionaria ma ancora schiavista 50.000 soldati. Durante la rivoluzione americana Haiti mandò un contingente di ben 6000 soldati per combattere gli inglesi in Georgia e nella Carolina del Sud. Sempre al fianco degli Stati Uniti, ha combattuto in entrambe le guerre mondiali. E, come scordare Jean Baptist Pointe Du Sable, fondatore della città di Chicago? Tornando verso la metro, penso ad una storia che mi ha raccontato Augla Pierre: «Una donna ha portato una lista di nomi dei suoi fratelli, che erano partiti proprio martedì perché era morta la madre. Lei sarebbe partita oggi, ora non sa più per quanti funerali».

Penso al terremoto dell'Irpinia che inghiottì tremila persone della mia terra, la notte in cui tutti noi ragazzi crescemmo di botto. E penso che la terra trema da sempre, senza né amarci né odiarci, perché nulla è sacro agli Dei. E allora, testarda, cerco di figurarmi il numero di morti a Port Au Prince, che supera forse i centomila, ma con fatica - come quando si guardano le stelle nel cielo d'estate e si perde contatto con il presente. Mi immagino anche che, fra due settimane, come succede sempre quando la morte visita le terre dei poveri, non se ne parlerà più.

* Autrice dei romanzi Il lungo ritorno e Due cose amare e una dolce (E/O), vive a Brooklyn

Soccorsi armati

Obama e l'imperialismo degli aiuti

di Tommaso Di Francesco

«Che fa Obama, il primo presidente nero degli Stati uniti?» chiede davanti a una telecamera un giovane tra i disperati superstiti che si aggirano per l'inferno di Port-au-Prince devastata da una catastrofe che non ha pari. Viene fatto di rispondere che quel giovane non sa ancora quel che ha deciso Obama, non può saperlo. Oppure lo sa fin troppo bene, e s'interroga sui limiti di questo intervento.

Perché Obama ha fatto tantissimo, forse troppo: ha parlato due-tre volte dalla Casa bianca, l'ultima volta è comparso dalla massima tribuna americana preceduto dai suoi ministri, schierati al lato della tribuna, non era accaduto nemmeno per la decisione di escalation della guerra afghana. E ha preso la decisione d'inviare seimila marine, e subito dopo di aggiungercene altri diecimila, quasi la metà di quelli che stanno partendo in guerra per Kabul. Là c'è il terrorismo - senza nominarlo - di al Qaeda da combattere, qui c'è il terremoto, vale a dire il terrore della natura aiutata dalle devastazioni ambientali dell'uomo, il terrore della morte da disastro, della fame, della disperazione. E, nel più perfetto stile presidenziale Usa, ha nominato responsabili della task force per Haiti i due ex presidenti, Bill Clinton - protagonista delle sconfitte politiche dell'America nella gestione della crisi haitiana dal 1994 in poi - e addirittura George W. Bush, che tutti ricordano come «grande esperto» di disastri naturali nel caso dell'uragano Katrina e degli effetti mortali a New Orleans.

Così, in questa che qualcuno vorrebbe come grande eterogenesi dei fini dove un gigantesco apparato di guerra sarebbe ora a disposizione delle forze del bene, stanno arrivando ad Haiti già le prime migliaia di militari. Quando servirebbero sedici mila medici e personale infermieristico, ingegneri, psicologi, panettieri e cuochi. Hanno invece tute mimetiche i marines, quelle delle guerre, sui vistosi elmetti ancora portano la luce dei puntamenti laser di armi sofisticatissime, imbracciando mitra voluminosi. Se ne arriveranno sedici mila, vorrà dire montagne di spedizioni solo per sostenere la vita dei soldati americani (quattro pasti al giorno, acqua, viveri, sanità, vettovaglie, tende per dormire). L'assetto di guerra, si dirà, alla fine servirà ai civili e intanto serve subito a fugare i malintenzionati col machete che assaltano gli aiuti che devono essere protetti - e alle rivolte dei poveri contro i quartieri dei ricchi intatti nonostante il terremoto come risponderanno i soldati Usa, con i bombardamenti?

È un doppio - una doppiezza? - quello tra militare e civile che non serve e non ha pagato nemmeno nelle zone della guerra afghana e irachena. Tanto meno ad Haiti, dove più che di un corpo di spedizione militare servirebbe una polizia internazionale abituata allo scopo. Ma nessuno mette in evidenza che ci troviamo di fronte all'ennesima occasione persa: quella di restituire potere politico, centralità, ruolo e intervento alle Nazioni unite, peraltro colpite ad Haiti dai crolli anche perché presenti con le proprie strutture e, in queste ore, nonostante tutto quasi le uniche con il Pam e i medici dell'Oms a soccorrere davvero la popolazione.

Esiste, purtroppo, una geopolitica dei disastri. Valse per l'ormai più che dimenticato tsunami che sconvolse il sud est asiatico solo cinque anni fa. E vale tuttora, con gli Stati uniti che hanno deciso un «intervento militare contro il terremoto»: non è un paradosso, le cose stanno proprio così. Non sarà che tra un anno, quando della tragedia di Haiti si parlerà molto meno, avremo in più, insieme a decine di migliaia di fosse comuni, qualche base militare americana strategicamente posizionata ad Haiti - quasi fosse la 51 stella dell'Unione - tra Venezuela e Cuba a ridosso di Guantanamo, e impegnata da subito a controllare la pericolosa immigrazione dei disperati in fuga dalle macerie del terremoto?

Non facciamoci illusioni: senza la centralità di una organizzazione umanitaria internazionale con cui costruire un vero potere d'intervento civile, quale solo l'Onu può essere - e che è l'unico che infatti abbia stanziato 550milioni di aiuti civili - il bisogno di soccorsi per sopravvivere crea solo subalternità e ad Haiti è destinato solo a riprodurre sudditanza all'imperialismo degli aiuti e alle politiche economiche shock e di chi li comanda.

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31 Dicembre 2010

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