Dieci anni fa Bettino Craxi morì, non in esilio, ma, condannato in via definitiva, latitante. Non risultano richieste di revisione dei suoi processi in base a nuovi elementi sopravvenuti. Sarebbe davvero sorprendente se si giungesse ad una sua “riabilitazione” (sulla base di quali elementi e di quali considerazioni?) attraverso un elogio dell’agire politico di Craxi. Anzitutto, non è affatto possibile sostenere con dati convincenti che Craxi abbia dato un impulso decisivo alla modernizzazione del paese e della politica. Ad ogni buon conto, i suoi meriti di improbabile modernizzatore andrebbero condivisi con la Democrazia Cristiana di Andreotti e di Forlani, non proprio notissimi modernizzatori. Il debito pubblico ebbe un’impennata irrefrenabile negli anni del pentapartito, proprio quelli nei quali Craxi esercitò il suo potere di interdizione sulla formazione e sulle attività dei governi, ma evidentemente non applicandolo alla spesa pubblica mentre il livello di corruzione politica cresceva enormemente.
Che Craxi abbia chiamato a correo tutti i segretari degli altri partiti, probabilmente beneficiari di buona parte di quella corruzione, non costituisce una attenuante. Piuttosto è una confessione. E Craxi non fu il solo a pagare poiché tutti segretari del pentapartito furono indagati e variamente condannati. Che Craxi meriti il titolo di statista è molto dubbio se con statista ci si riferisce a chi antepone il bene del sistema politico, ovvero della Repubblica, alle fortune del suo partito. Al contrario, il filo conduttore di tutta l’attività politica di Craxi è costituito dal suo sforzo ossessivo di accrescere il peso elettorale e il potere politico del Partito Socialista. Il peso elettorale del PSI aumentò, ma non di molto; il potere politico di troppi socialisti crebbe al di là di ogni previsione, molto oltre il loro peso elettorale. Vennero rovesciate parecchie giunte, non solo con i comunisti, e giunsero al governo di città, provincie e regioni dirigenti accuratamente lottizzati, con casi talmente clamorosi che finirono per diventare il detonatore dalla riforma elettorale.
Da lui duramente osteggiata, la riforma elettorale è la cartina di tornasole del Craxi definito riformatore. L’invito nel giugno 1991 ad “andare al mare” per fare fallire il referendum elettorale sulla preferenza unica suggellò un decennio di ostruzionismo sordo e cieco a qualsiasi proposta di riforma. L’uomo che aveva lanciato, in maniera già allora facilmente valutabile come propagandistica, la Grande Riforma (1979), fece deliberatamente fallire la Commissione per le Riforme Istituzionali (1983-1985) definita Bozzi dal nome del suo Presidente, il liberale Aldo Bozzi. Il suo più grande merito fu quello di avere combattuto e vinto, da giocatore d’azzardo, il referendum chiesto dai comunisti contro il taglio di due punti della scala mobile. Mi limito a constatare che la battaglia fu ingaggiata soprattutto con, peraltro legittimi, obiettivi politici: dimostrare l’esistenza di divisioni dentro la CGIL e evidenziare l’irrilevanza del PCI.
I suoi estimatori sostengono che Craxi mirava in modo speciale a “social democratizzare” il PCI e a sostegno della loro tesi portano l’atteggiamento non pregiudizialmente ostile della corrente migliorista guidata da Giorgio Napolitano il cui stile politico era e rimase agli antipodi di quello del segretario socialista. In quanto appartenente alla sottocorrente dei perfezionisti, ieri come oggi, quindi ultraminoritario, credo di potere sostenere che Craxi mirava non all’unità delle sinistre, ma alla subordinazione del PCI al PSI. Dopo il crollo del muro di Berlino non lanciò nessuna iniziativa politica nei confronti del PCI preferendo attendere l’eventuale sorpasso in occasione delle elezioni dell’aprile 1992.
L’opera di un dirigente politico si misura anche in base alle sue conseguenze. Chi ha imparato l’impareggiabile lezione di Max Weber, sa che gli intellettuali possono anche, purché siano disposti a pagarne il prezzo personale, ispirarsi all’etica della convinzione, che impegna soltanto loro e la loro coscienza. Invece, i politici hanno il dovere morale di utilizzare l’etica della responsabilità ovvero di agire tenendo presente, nella misura del possibile, e cercando di prevedere, che cosa succederà.
Craxi uscì di scena e poi fuggì nel bel mezzo di una crisi di regime che distrusse tutti i partiti suoi alleati unitamente al partito che lui stesso aveva guidato e plasmato per quindici anni. Tutta la sinistra italiana ne risultò fortemente ridimensionata, scendendo per la prima volta al disotto del trenta per cento dei voti. Non soltanto il sistema politico italiano apparve peggiorato con riferimento a tutti gli indicatori, ma si aprì al buio una transizione politico-istituzionale che ha fatto emergere il peggio (che, abbiamo scoperto, essere tantissimo e diffusissimo) della società e della politica italiana. Sarebbe fare troppo onore a Craxi sostenere che tutto questo fu opera sua, ma certamente gran parte di questo è la conseguenza di un nefasto “duello a sinistra” che non modernizzò né il paese né il PCI né la sinistra italiana. Stiamo, noi di sinistra, ma anche il PD, che, a sua volta, ne porta non poche responsabilità, ancora pagando il prezzo della mancata modernizzazione politica ed etica. Se non risponde soltanto ad una deteriore strumentalizzazione politica, la riabilitazione di Craxi è l’ennesimo segnale che la politica e l’etica di questo paese continuano a rimanere a livelli bassissimi.
Ricordando la Milano di Bettino
Giorgio Bocca – la Repubblica, 5 gennaio 2010
Nella Milano craxiana «dei nani e delle ballerine» come la chiamava il socialista di Bari Rino Formica chiesi a un dirigente socialista: «Ma perché i capi del partito credono che i principi, le idee contino zero e il denaro tutto?». Mi rispose: «Perché il partito craxiano è nato come un clan di giovani rampanti, convinti che la politica è questo, che la politica si fa così, con i soldi necessari al commercio delle tessere, con gli assessorati con cui si fanno gli affari. C’è anche il desiderio di autonomia, il forte anticomunismo, ma come modo per aver mano libera nel fare la politica degli affari. Ogni fine settimana Craxi lascia a Roma le cure di governo e viene a Milano per la riunione in un ristorante dove si parla unicamente di affari».
Nella Milano degli anni ‘80 Craxi è il capo, ma il padrino del gruppo è Antonio Natali, il vero maestro del nuovo corso, della politica come affare per mezzo degli affari. La sua lezione ai giovani dirigenti è: «Fan tutti così. Cerchiamo di farlo meglio degli altri».
Gli affari trasformati in ideologia, come via naturale al potere, che prima rispondono ai desideri dei funzionari di partito poveri che hanno fatto sin lì una vita di stenti e poi diventano assuefazione. Il craxismo milanese è una combinazione paradossale ma realista e aggressiva dei nuovi ceti borghesi emergenti nella Milano del miracolo economico, la nuova borghesia del terziario, della moda, dei pubblicitari, degli imprenditori edili che troverà in Silvio Berlusconi il gemello naturale di Bettino, che vorrà Bettino come testimone di nozze, che si consulterà con Bettino nel camper durante i congressi del partito.
Un gemellaggio che continuerà dopo la fine di Craxi, anche con il passaggio nel partito berlusconiano dei più influenti quadri socialisti. L’aspetto paradossale del socialismo milanese è che si dice figlio di Pietro Nenni e sempre più lontano dal suo idealismo romantico e sempre più simile alla borghesia mercadora di Milano, che continua a dire di avere «il cuore in mano» ma come il giovane Berlusconi è pronta a lanciarsi nei nuovi promettenti pascoli della pubblicità e dell’edilizia. E questo spiega come un sindaco della borghesia miliardaria come la Moratti pensa oggi di intestare a Craxi una via o un giardino milanesi perché sa che buona parte dei craxiani hanno trovato rifugio nel partito di Silvio.
Un’altra affinità elettiva fra il socialismo craxiano e il liberismo berlusconiano, entrambi con il cuore in mano, è di procedere subito alla eliminazione di quanti si oppongono al nuovo corso. Il compagno Giulio Polotti, un sindacalista vecchio stampo dice: «Mi hanno tolto le preferenze perché come assessore facevo fare le scuole e non le discoteche, perché dicevo che la retorica socialdemocratica era superata ma sempre meglio della spocchia e dei lussi, sempre meglio dei milioni spesi in fiori e in banchetti ai congressi». Viene silurato anche Emanuele Tortoreto, già assessore al decentramento: «Vada a fare il professore a Bari che è meglio per tutti». E all’architetto Costantino che è alla direzione delle Case Popolari: «Bravo Costantino, in una intervista al "Corriere", hai detto che il tuo istituto non ha mai truccato un appalto. Sei un compagno simpatico, ma sei anche un gran pirla». E quando l’assessore all’Urbanistica Armanini viene denunciato per aver preso delle tangenti per i posti al cimitero lo festeggiano: finalmente anche tu hai capito come si fa politica.
L’assuefazione al furto è tale che non ci si accontentava di rubare in grande con le grandi dazioni, le grandi tangenti, ma si arriva fino all’argent de poche, alle spese correnti. Craxi occupa un ufficio in piazza Duomo, il sito più caro di Milano, 300 metri quadrati, senza contare gli uffici sottostanti della moglie e del cognato, pagando in affitto al Comune, che non è proprietà del partito, 40 milioni l’anno, quanto a dire che ritiene normale uno sconto di decine di milioni.
Per anni la fedele segretaria Vincenza Tomaselli viene pagata dall’ufficio di presidenza del Comune. La casa editrice Sugarco, sovvenzionata dal partito, pubblica i saggi politici e ideologici del segretario che vendono poche centinaia di copie. La benzina della sua auto è pagata dal Comune. Gli abiti dei grandi stilisti sono regalati. In questo clima l’amministrazione della città spende e spande: a Milano i sacchetti per le immondizie sono i più cari del mondo, per una celebrazione del primo volo dalla Malpensa si spende una follia, i dirigenti del partito se arrivano a Ginevra alloggiano all’Hotel Richmond, e a Zurigo al Suisse, alberghi di lusso. Hanno trovato la famosa terza via dei naviganti, il passaggio a Nord Ovest.
I procacciatori di tangenti hanno case di lusso, hanno scoperto che la lotta contro il perfido comunismo può rendere fortune. Un assessore di Brescia, vittima del giustizialismo, per tornare a casa da Roma, affitta un aereo privato. «Non si rendevano più conto di rubare», ha osservato il repubblicano De Angelis: «Vivevano in un loro mondo fatato dove le tangenti funzionavano come un orologio di precisione, la direzione fingeva di non vedere i piccoli furti della base per non guastare il consenso generale. Nessuno si interrogava sul futuro, tutti si rassicuravano a vicenda». «È dal congresso di Palermo nel 1981 - ricorda un socialista - che si è passati all’acquisto massiccio delle tessere e che la selezione dei dirigenti è cambiata radicalmente».
In questa selezione alla rovescia brilla il caso dell’ingegnere Mario Chiesa, direttore socialista del Pio Albergo Trivulzio, arrestato mentre cerca di gettare nel water dell’ufficio fasci di banconote dell’ultima dazione incassata. «Io ero esitante a accettare la direzione del Trivulzio - dirà - ma il segretario regionale Loris Zaffra mi disse: "Mario, mai dimettersi e mai rinunciare a un posto, prendi il Trivulzio e poi ce lo vendiamo bene magari lo barattiamo con qualcosa di meglio"». Chiesa capisce di aver trovato la fortuna la sera in cui i Craxi lo invitano a cena al Saint Andrew’s a Milano. C’è Bettino e c’è Mike Bongiorno, c’è la signora Craxi che ha bisogno di una sede per una sua associazione benefica.
Mario Chiesa è pronto: «Chiamo il contadino che ha un regolare contratto di affitto con una delle cascine del Trivulzio e lo convinco a cederne la metà». Per Chiesa la politica vuol dire arricchirsi, che cosa sia il socialismo non lo sa, ma cosa sia essere un assessore potente, questo lo sa benissimo.
Ricorda uno dei fornitori del Trivulzio: «I vecchi dell’ospizio venivano trattati bene perché la direzione doveva rubare sulle forniture. Noi fornitori venivamo trattati come dei servi, insultati e ricattati». Il socialismo craxiano, la «Milano da bere», sono stati anche questo. Ma in politica si dimentica presto.
Craxi, i conti che non tornano
Ida Dominijanni – il manifesto, 5 gennaio 2010
«Gli italiani allora non credettero a Craxi, ma a Berlusconi oggi credono». La rivendicazione firmata da Stefania Craxi della perfetta identità fra la persecuzione politico-giudiziaria di cui sarebbe stato vittima suo padre nel '93 e quella di cui sarebbe vittima oggi Silvio Berlusconi sigla il teorema della perfetta continuità politica fra il leader socialista morto latitante a Hammamet il 19 gennaio 2000 e il Cavaliere che dal 1994 tiene in scacco la politica italiana. E' un teorema che merita di essere valutato attentamente. Non tanto per l'equazione su cui si basa e che è contestabile punto per punto - uguali le vittime, uguali i magistrati persecutori, uguali i mandanti, uguale il diritto dei due leader di sfuggire al processo -, quanto per la genealogia politica che costruisce. Se c'è un tratto che accomuna Craxi e Berlusconi è precisamente l'assenza, in entrambi, di una genealogia di riferimento: i due «uomini nuovi» - il socialista eccentrico emerso oltre e contro la tradizione socialista, che per primo propose una frattura nella continuità costituzionale, e il Cavaliere venuto dal nulla, che da quindici anni combatte per fratturarla definitivamente - diventano ora i capostipiti di una tradizione politica a venire, di un culto da onorare, di una storia da proseguire?
Ovviamente non si tratta di un'invenzione di Stefania Craxi. Delle continuità politiche fra Craxi e Berlusconi, al di là del loro noto legame di amicizia e di sostegno, è fatta la storia dell'ultimo ventennio, ed è piena la saggistica relativa. E fu lo stesso Berlusconi, in occasione del secondo anniversario della morte di Craxi, a farsene dichiaratamente erede e continuatore, celebrando nel leader socialista «l'uomo forte d'Europa», il premier «che sfidò il sindacato classista» e «vide per primo la crisi dell'Urss», il modernizzatore che buttò a mare «le nefandezze del marxismo» , lanciò il made in Italy e fiutò le magnifiche sorti della tv commerciale, il «figlio del sistema di regole della Costituzione» che per primo ebbe l'ardire di proporne la Grande Riforma. Già allora Berlusconi provò a chiudere il cerchio della transizione italiana mettendo in primo piano il genio politico di Craxi e derubricando a peccato veniale «di tutto il sistema» i suoi reati di corruzione. Oggi la strategia si ribalta: in primo piano torna il protagonista della vicenda giudiziaria, ma come vittima.
I due lati della figura di Craxi, il leader politico e il politico corrotto, continuano del resto a non trovare una sistemazione convincente neanche altrove, e in primis fra quegli eredi del P.C.I. indicati a tutt'oggi come i mandanti e i profittatori della «persecuzione giudiziaria» del leader socialista nel '93 e di Berlusconi oggi. Piero Fassino ha ribadito in questi giorni la sua rivalutazione del «politico della sinistra», del «rivitalizzatore del Psi», del primo leader ad aver intuito «il bisogno di modernizzazione economica e istituzionale» dell'Italia, dell'uomo di stato che seppe decidere su Sigonella e sulla scala mobile; una mole di meriti che rende davvero imperscrutabile perché, come lo stesso Fassino ammette, il Pci-Pds-Ds-Pd abbia reso possibile farne il «capro espiatorio» di quel sistema di finanziamento illecito dei partiti sul quale «mancò allora una seria riflessione».
Dal famoso discorso del 29 aprile '93 in parlamento, quando Craxi sfidò tutti, governo e opposizione, a chiamarsi fuori da un meccanismo che coinvolgeva tutti, a oggi, la linea del principale partito della sinistra è rimasta oscillante fra la criminalizzazione giudiziaria e la rivalutazione politica. In morte di Craxi, lo ammise esplicitamente l'allora presidente della Camera Violante: non c'è pace per lui, disse, «e neanche per noi, che l'abbiamo visto trionfatore prima e sconfitto poi, senza essere ancora riusciti a esaminare con spirito di verità né le ragioni del successo né le cause della disfatta», né «ad affrontare con spirito di verità il rapporto fra legalità, corruzione e democrazia». Due motivi di scacco di non poco conto, che dieci anni dopo rischiano di ripresentarsi pari pari in un Pd che se da un lato non ha risolto il nodo del rapporto fra politica e giustizia, anzi ne è sempre più intrappolato, dall'altro lato non ha risolto il nodo della sua identità politica e programmatica, ed è sempre più intrappolato in una visione mitica della «modernizzazione» craxiana, nel senso di colpa per non averla fatta propria o nell'illusione che bastasse e basti farla propria depurandola dalla corruzione perché funzionasse negli anni Ottanta e funzioni ora.
Perché i due lati della medaglia di Craxi, il leader politico e il politico corrotto, trovassero finalmente una sistemazione coerente è proprio quel mito della modernizzazione che bisognerebbe smontare, procedendo finalmente a un'analisi veritiera del decennio craxiano che nel '93 non si fece consegnandone alla magistratura il seppellimento e dopo non si è fatta consegnandone a Berlusconi il proseguimento. Su Repubblica di domenica, Guido Crainz ha messo sull'argomento alcuni punti fermi: non si può definire modernizzazione politica quella di un decennio che ha segnato piuttosto l'inizio della crisi della politica, della partecipazione, della vitalità dei partiti, né si possono scindere questi fenomeni dal dilagare della corruzione. Non si può spacciare per modernizzazione economica una politica inflattiva e di indebitamento pubblico. Non si può spacciare per modernizzazione culturale della sinistra un processo di disfacimento del Psi e di chiusura al P.C.I. che furono ben più decisive dell'apertura a Prudono o della felice stagione della rivista Mondoperaio. Tutto vero; ma c'è ancora dell'altro.
Sempre più schiacciato sul momento della fine - i mesi drammatici che vanno dalla scoperta di Tangentopoli al lancio delle monetine contro Craxi all'uscita dall'hotel Raphael -, e dunque sul nodo del rapporto fra politica, controllo di legalità e giustizialismo, il lungo decennio craxiano attende ancora un ripensamento e una riconsiderazione complessivi, che renda conto della sua presa di lungo periodo sulla storia italiana e del suo allungarsi nel ventennio successivo, a onta delle volontà di rottura proclamate, all'inizio degli anni Novanta, dai fautori della rivoluzione giudiziaria (fra i quali, giova ricordarlo, c'erano molti di quelli che oggi militano nel campo berlusconiano, a cominciare dall'allora Msi di Gianfranco Fini e dalla Lega: diversamente da quello che sostiene Stefania Craxi, le parti in campo non sono sempre le stesse).
Quel lungo decennio fu in realtà più di un quindicennio, cominciò al Midas nel 1976 con l'elezione imprevista di Craxi a segretario di un Psi in declino e si concluse con il suo «esilio» a Hammamet nel '93: in mezzo, c'è una trasformazione sociale, politica e antropologica dell'Italia, che è una molto impropria scorciatoia definire solo «modernizzazione», sia politica sia economica, e che è contrassegnata da una lunga sequenza di ambivalenze, dello stesso craxismo. Per il suo partito, Craxi non fu un innovatore: fu, finita la breve stagione di Mondoperaio, il passaggio da un partito ancora strutturato, malgrado l'esperienza del primo centrosinistra, sulla militanza e il radicamento sociale a una macchina elettorale, diretta da un capo che fu il primo a sperimentare e volere l'elezione diretta in congresso. Il «partito corsaro», che avrebbe meritoriamente voluto spezzare l'egemonia - e la cappa - Dc-Pci strettasi durante la disgraziata stagione dell'unità nazionale, si trasformò in pochi anni nel partito della governabilità che siglò con la Dc la conventio ad excludendum del P.C.I. e si identificò poi nel Caf.
La forza libertaria e garantista, che coraggiosamente si oppose al «fronte della fermezza» durante il sequestro di Aldo Moro, si capovolse rapidamente in una forza d'ordine animata da una rigida ideologia che recitava efficienza e decisione. L'innovazione culturale - l'unica che meriti di essere ricordata - che alla conferenza di Rimini dell'82, protagonista Claudio Martelli, propose di sostituire allo schema di analisi classista e lavorista tradizionale della sinistra quello incentrato sulla coppia meriti-bisogni, ovvero sull'analisi dei ceti emergenti di intellettualità diffusa da un lato e della nuova emarginazione sociale dall'altro, si piegò rapidamente alla logica antioperaia che trionfò nel taglio della scala mobile e alla religione del rampantismo e dell'individualismo competitivo. Il mito della modernità si ridusse all'anticipazione dei luccichii berlusconiani, dalle roboanti scenografie congressuali alla Milano da bere. La rottura del monopolio della tv pubblica, giustamente salutata come una boccata d'aria da quanti - non il Pci - avevano intuito quello che la rivoluzione dei media e dell'informazione stava preparando per la società di massa, si risolse nei provvedimenti a favore di Silvio Berlusconi, delle sue tv e del suo modello culturale.
Questa parabola parla ancora di noi, di quello che è venuto dopo Craxi, in mancanza di una elaborazione del craxismo. E annuncia quello che potrà accadere in futuro, dopo Berlusconi, in mancanza di una elaborazione del berlusconismo. Il che dice non solo e non tanto delle continuità fra Craxi e Berlusconi, ma di coloro che avrebbero dovuto contrastarli.