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Ida Dominijanni
Craxi e Berlinguer, ancora loro
9 Dicembre 2008
Articoli del 2008
Un commento all’intervista a Enrico Berlinguer sulla questione morale: era il 28 luglio 1981. Da il manifesto, 9 agosto 2008 (m.p.g.)

Apri «Il Riformista» di ieri a pagina 23 e ci trovi la storica intervista di Eugenio Scalfari a Enrico Berlinguer, 28 luglio 1981, in cui l'allora segretario del Pci metteva la «questione morale» al centro della già montante crisi della politica e rivendicava la «diversità» del Pci rispetto ai partiti di governo - Dc e Psi craxiano - che avevano «occupato lo stato». Apri tutti i giornali e ci trovi Bettino Craxi in tutte le versioni, maledetto (da Achille Occhetto: è perché si è messo sulla strada di Craxi invece che di Berlinguer che il Pds-Ds-Pd si è perduto), rivalutato (dai più: in fondo è stato un pioniere della a-moralità della politica, e l'unico a pagare), santificato (dal Pdl: «ora il Pd chieda scusa a Craxi). Siamo a fine 2008, ed è come se il tempo si fosse inchiodato. Dal 1981 sono passati la bellezza di ventisette anni, un rapido sondaggio in redazione mi fa realizzare che la maggior parte dei presenti di Berlinguer e Craxi ha una memoria sì e no indiretta ma della politica italiana ha conosciuto solo questa lunga scia quasi trentennale fatta di questione morale, conflitto fra politica e giustizia, giornalismo al seguito: questo e ancora questo, né un prima né un poi. Prima domanda: chi può stupirsi se in queste condizioni non c'è all'orizzonte della politica nessun ricambio generazionale?

Seconda domanda. Rileggendo l'intervista di Berlinguer, balza agli occhi - lo nota infatti, a commento, Antonio Polito - che fra «questione morale» e «soluzione giudiziaria» non c'era (e non c'è) affatto un nesso immediato. Dice Berlinguer: «La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oogi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati». Tradotto: la «questione morale» riguarda l'etica politica, il modo di intendere la politica e di farla, la funzione dei partiti, la concezione della sfera pubblica e del bene pubblico; è una questione più larga della corruzione, che è una questione criminale, e mentre a risolvere la questione criminale ci devono pensare i giudici, a risolvere la questione morale ci deve pensare la politica. Ecco la domanda: perché questa basilare distinzione è andata perduta nel dibattito politico e mediatico? E a chi è giovato lasciarla cadere? Il «moralismo» di Berlinguer non era giustizialismo; non era un appello ai magistrati, era un appello ai politici. Schiacciare progressivamente la questione morale (se vogliamo chiamarla ancora così) sulla questione criminale e sulla azione giudiziaria è servito solo a esentare la politica dal dovere di autoripulirsi e autoriformarsi. Da non confondersi, per cortesia, con il presunto diritto della politica di fare quello che vuole, esentandosi dal controllo di legalità.

Dall'epoca di quell'intervista - ben prima di Tangentopoli, a ben guardare - il rapporto fra politica e giustizia attende di essere rimesso su questi binari. Che dunque passano per una riforma - a questo punto: una rivoluzione - della politica, prima che per una riforma - o una controriforma - della giustizia. Terza domanda: che cosa è intervenuto di nuovo, in questi giorni, perché si riapra l'agognato «dialogo» fra Pd e Pdl sulla riforma della giustizia? Che il caso De Magistris rivelasse pesanti linee di scontro interne alla giurisdizione era chiaro dall'inizio, non ci volevano i sequestri incrociati fra Salerno e Catanzaro per capirlo e non è questo - ha ragione Carlo Federico Grosso sulla "Stampa" di ieri - che può legittimare l'affondo politico finale contro l'indipendenza del sistema giudiziario, che dovrebbe trovare al suo interno gli anticorpi necessari. Nemmeno ci sono segni di cambiamento da parte del Pdl nell'impostazione revanchista del problema: e allora perché riaprire il dialogo da posizioni che si sanno incompatibili?

Quarta domanda. Sempre in quella intervista, Berlinguer dice che cosa i partiti dovrebbero fare - «concorrere alla volontà politica della nazione, interpretare grandi correnti d'opinione, controllare democraticamente l'operato delle istituzioni» - e che cosa non dovrebbero essere: «macchine di potere e di clientela», con «scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società; idee, ideali programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile zero». Ora, lungi dalla sottoscritta voler fare di quell'intervista la bibbia; ma i molti eredi di Berlinguer, da Occhetto in poi calamitati dalle riforme elettorali, istituzionali e costituzionali, non potrebbero recuperarne almeno questa salutare distinzione di piani fra partiti, governo, istituzioni?

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