». Pochi decenni dopo comincia la lunga discesa: Craxi, Berlusconi, Renzi. La Repubblica, 21 febbraio 2016
Quel giorno le donne si svegliarono allegre. Qualcuna la notte prima non aveva chiuso occhio, perché si trattava di una prima volta, e chi può sapere cosa si prova davanti a una scheda bianca. Alba de Céspedes uscì di casa con il passo leggero, come di chi «si sente i capelli ben ravviati sulla fronte». Maria Bellonci provò anche una sorta di smarrimen-to, in fondo era il suo battesimo da cittadina, ma bastò riconoscerlo per riprendere la rotta. E Anna Banti fu la più spietata con se stessa, in un modo che solo le donne conoscono: e se sbaglio tra il segno della repubblica e quello della monarchia? Così settant’anni fa le italiane andarono al loro primo voto, quello che avrebbe segnato l’inizio della democrazia repubblicana.
Ecco, forse la domanda che corre lungo settant’anni è come sia stato possibile passare dalla “necessità dei partiti”, da una politica onnipresente con un tasso altissimo di partecipazione al voto, al trionfo del suo esatto contrario, tra astensionismo e trionfo dell’antipolitica. Domanda che potrebbe essere estesa a molti altri paesi ma che in Italia ha una sua particolare urgenza. E secondo Crainz vi si può rispondere solo risalendo ad alcuni vizi di origine del sistema politico, ossia la continuità con il fascismo che aveva segnato la presenza invasiva del partito-Stato dentro le vite degli italiani. E anche il concetto di democrazia, puntualizza lo storico, non appariva del tutto chiaro e scontato, «né per il partito comunista né per il mondo cattolico». Oggi possono sembrare fogli ingialliti d’un album rimosso, eppure colpiscono le ferite dell’amputazione democratica negli anni della guerra fredda: un centinaio di lavoratori uccisi dalle forze dell’ordine tra il 1947 e il 1950, schedature per centinaia di migliaia di cittadini sospetti di militanza comunista, ripetuti controlli sugli insegnanti con interrogatori ai colleghi e ai genitori degli alunni. Nella “democrazia congelata” di quella stagione i diritti esistono, ma non per tutti.
Un altro filo rosso che attraversa questi decenni è l’incapacità della politica di guidare i grandi cambiamenti del paese. La società appare sempre un passo avanti, dietro una classe politica perennemente in affanno. Accade in questi giorni con le unioni civili ma è un tratto costante, ripetitivo, che si manifesta sin dai tempi dell’«inattesa Belle époque» – come la chiama Italo Calvino – ossia il grande salto del miracolo economico, quando l’Italia conosce «un nuovo modo di produrre e consumare, di pensare e di sognare, di vivere il presente e progettare il futuro». A fronte di colossali rivolgimenti, continua a operare per tutti gli anni Cinquanta un sistema arcaico, «apparati, uomini e culture portati a considerare il mutamento come una minaccia mortale».
Il sistema partitocratico sarebbe arrivato al capolinea negli anni Novanta, travolto dalla “grande slavina” di Tangentopoli. E ancora una volta è uno scrittore come Claudio Magris a dare voce al timore «che il paese si dissolva e tra breve l’Italia – nell’attuale forma politico statuale e dunque anche culturale – possa non esistere più». In questo clima da camposanto avanza con “il sorriso alla Fernandel” (copyright Cesare Garboli) un nuovo protagonista che riuscirà più volte a vincere le elezioni ma non a governare il paese. E suona profetico l’editoriale scritto da Norberto Bobbio nel 1991 per La Stampa, poi ritirato per eccesso di pessimismo: «La gestione della seconda Repubblica se dovesse nascere sarà lunga. Ma poiché se dovesse nascere... nascerebbe con gli stessi uomini che non solo sono falliti ma sono inconsapevoli del loro fallimento, non potrà che nascere male, malissimo, come male, malissimo è finita la prima». La seconda Repubblica non è mai nata, sancisce Crainz. Al suo posto un “lungo regno” berlusconiano su cui la sentenza degli storici appare unanime e inappellabile. E ancora si fanno i conti con la sua pesante eredità.