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Costo del lavoro, precariato, donne e Mezzogiorno
10 Febbraio 2007
Articoli del 2006
Gad Lerner da la Repubblica e tre articoli di Francesco Piccioni, R.T. e Franco Carra e da il manifesto (22 marzo 2006).

la Repubblica

L’uomo flessibile

di Gad Lerner

Da qualche giorno una malaugurata illusione ottica ha posto al centro del dibattito pubblico italiano lo scontro fra due opposti Paperon de’ Paperoni: il miliardario Silvio Berlusconi e il miliardario Diego Della Valle.

La realtà sociale pare quasi indietreggiare cedendo spazio ai due campioni rappresentativi di affascinanti storie di successo. Certo, permane evidente la distanza fra i comportamenti dell’uno e dell’altro patron. Ma la caricatura alla fine ci costringe a semplificare, a scegliere fra due primattori del capitalismo eletti a simbolo di opzioni politiche alternative. Ormai assuefatti come siamo alla crescita esponenziale delle disuguaglianze di reddito, si sono modificate anche le nostre nozioni di giustizia sociale e di rappresentanza dei conflitti.

Al contrario, in Francia sembra tornata la lotta di classe. Con un protagonista nuovo, impossibile da mortificare in una mera dimensione identitaria etnico-religiosa: è scoppiata infatti a Parigi la rivolta dell’uomo flessibile. Che può essere anche bianco, battezzato, insomma figlio nostro.

L’uomo flessibile è quello che più di ogni altro subisce l’apartheid che separa i lavori protetti da quelli che non lo sono, come scriveva ieri Barbara Spinelli su la Stampa. Segnalando la collera di chi vede spezzarsi uno dopo l’altro i fili che dovrebbero tener stretta la società.

In Francia come in Italia, l’uomo flessibile è innanzitutto il giovane condannato a una dimensione esistenziale precaria. Una condizione che secondo i dati resi noti dalla Banca d’Italia riguarda addirittura la metà dei nuovi entrati nel mondo del lavoro nel 2005. Rovesciando le aspettative fino al punto che i giovani laureati, almeno inizialmente, percepirebbero secondo l’Ires Cgil un reddito inferiore ai giovani lavoratori non laureati.

Sono anni che predichiamo a questi giovani la fine del posto fisso. Li incoraggiamo all’autoimprenditorialità. Spieghiamo loro che senza propensione al rischio, senza disponibilità al cambiamento – insomma senza flessibilità – non c’è futuro.

Alla metamorfosi dei sistemi produttivi, all’economia dei downsizing e delle ristrutturazioni, si è infine sommato il nuovo tempo di guerra che è per sua natura il tempo dell’incertezza.

Così il messaggio si fa ancor più confuso. Perché nella morale bellica e nel linguaggio comune un uomo inflessibile resta assai più ammirevole dell’uomo flessibile. Ma è invece dell’uomo flessibile che il sistema mostra di avere bisogno. Senza alcuna garanzia che l’incertezza si traduca in miglioramento. Al contrario.

La flessibilità come virtù è il contenuto prevalente di tutte le modifiche legislative introdotte nel diritto del lavoro e, ancor più, nell’esperienza quotidiana di chi è in cerca di primo impiego. La pretesa ideologica che accompagna tale innovazione è ambiziosissima: si tratterebbe di realizzare una rivoluzione antropologica vincendo un bisogno di sicurezza liquidato come retrogrado. Quasi che l’economia di mercato si incaricasse di realizzare il sogno totalitario in cui prima di lei aveva fallito il marxismo: plasmare finalmente l’uomo nuovo, cioè, appunto, l’uomo flessibile. Prima nel mondo povero, ma adesso pure in casa nostra.

Non voglio qui discutere le stringenti necessità che sospingono l’economia europea a riformare i meccanismi d’accesso e di tutela del lavoro subordinato. Anche se sarebbe meglio verificarne per tempo gli esiti pratici nella mecca del pensiero unico, cioè all’interno del modello sociale statunitense: dovremo pur riconoscere che neanche il prolungato ciclo economico di crescita degli Usa ha invertito la tendenza al peggioramento delle condizioni di vita ai gradini bassi della scala sociale.

Ma senza troppo fantasticare su possibili modelli alternativi, mi limiterei a segnalare una ragione forte che già accomuna i giovani francesi in rivolta e gli ancora fin troppo sottomessi giovani italiani nel respingere come ingiusta la flessibilità prospettata loro.

Da che pulpito viene la predica?

Voltiamoci un attimo indietro e guardiamo come si sono comportati negli ultimi vent’anni i teorici della flessibilità, a cominciare dagli imprenditori italiani e francesi.

Troppo facile elogiare la propensione al rischio quando si tratta di intaccare le garanzie dei soggetti sociali più deboli, e poi rifugiarsi al riparo della concorrenza quando si tratta di proteggersi dal rischio d’impresa.

Perché mai a rischiare dovrebbero essere per primi i nuovi venuti e i poveracci?

Davvero, a cominciare dal nostro monopolista presidente del Consiglio, si è predicato bene e razzolato male. Quanta parte dei profitti industriali viene reinvestita in rendite finanziarie? A quante illegittime spartizioni di mercato abbiamo assistito? Quanti grandi imprenditori si sono rifugiati nella cuccia calda delle concessioni governative? Quanti fallimenti aziendali abbiamo visto corrispondere alle centinaia di migliaia, ai milioni di fallimenti lavorativi individuali? Come ha scritto Richard Sennett ne "L’uomo flessibile" (Feltrinelli): «La manualistica popolare è piena di ricette per il successo, ma non dice molto su come affrontare un fallimento».

Ho sempre saputo che quando si deve incentivare la propensione al rischio e la rinuncia a garanzie di comodo, le élites sono chiamate per prime a dare il buon esempio. Se si deve cambiare, comincino i più forti a indicare la strada difficile, legittimando così i sacrifici richiesti ai più deboli…

Risultato: né i campioni nazionali del modello statalista francese, né tanto meno i protagonisti nostrani dei patti di sindacato e dell’economia di relazione, hanno i requisiti minimi per chiedere ai giovani di trasformarsi in uomini flessibili.

Questo è l’handicap che grava su ogni politica riformista in materia di diritto del lavoro, spiace dirlo a Pietro Ichino e agli altri studiosi che denunciano la plateale ingiustizia dei due mercati del lavoro subordinato: quello di serie A tutelato dai sindacati, e quello di serie B in cui i precari sono abbandonati a se stessi.

La rivolta dei giovani francesi e la silenziosa disillusione dei giovani italiani sono entrambe alimentate dalla scandalosa assenza di credibilità evidenziata dai rispettivi establishment.

La parola "rischio", ricorda Sennett, deriva dall’italiano rinascimentale risicare, cioè "osare". Ma quelle erano società giovani e aperte. I politici europei contemporanei misurano i loro consensi di fronte a un elettorato sempre più anziano, e dunque se non interverranno modifiche radicali nello stesso suffragio universale (per esempio l’assegnazione di più voti alle famiglie con figli minorenni) sarà ingenuo fare affidamento sulla loro lungimiranza.

Ecco allora puntuale riesplodere la tradizionale collera francese, anticipatrice di un moto destinato a spaccare anche la nostra società. I giovani sono David che fronteggiano il Golia della flessibilità, scrive ancora Sennett. Ma la rottura di solidarietà intergenerazionali rischia di avere effetti di lungo periodo non riducibili a un, per quanto biblico, duello. Perché, attenzione: «Un regime che non fornisce agli esseri umani ragioni profonde per interessarsi gli uni agli altri non può mantenere per molto tempo la propria legittimità». Si prospetta nella rivolta contro il precariato una vera e propria crisi di sistema. Il capitalismo flessibile emana un’indifferenza agli sforzi umani e al destino delle persone senza precedenti nelle esperienze comunitarie del passato.

La pretesa di forgiare l’uomo flessibile rischia di rivelarsi per lo meno altrettanto nefasta della clonazione umana.

il manifesto

Italia, il paese dove il lavoro costa meno

di Francesco Piccioni

Kpmg mette a confronto i paesi più industrializzati e scopre che siamo un paese dove converrebbe investire, se non fosse per i costi di immobili e trasporti

Ce n'era, nell'aria, la convinzione. Ma serviva qualche dato ufficiale per confermarla. Ora quel dato c'è e l'ha fornito un «insospettabile» come Kpmg, la società americana di revisione dei conti che ha pubblicato i risultati della sua ricerca sul paese - tra quelli già ampiamente industrializzati, in Asia, America ed Europa - in cui «è più conveniente avviare un'attività imprenditoriale». L'Italia si è classificata «solo» al quinto posto, preceduta da Singapore, Canada, Francia e Olanda. Ma bisogna dire che l'indagine prendeva in considerazione ben 27 fattori (come imposizione fiscale, costo dei terreni e degli immobili, tariffe di trasporti e utilities, ecc). Un'agenzia di destra ha commentato entusiastica che «il nostro paese si colloca al quinto posto tra le nazioni con i minori costi e addirittura al primo tra i partner europei per il costo del lavoro». Riportando il dato con i piedi per terra, siamo costretti a dire che «siamo il paese europeo con il costo del lavoro più basso». E non si vede proprio cosa ci sia da festeggiare. Tanto più che, come precisa il rapporto Kpmg, gli elementi maggiormente «dinamici» restano i rapporti di cambio tra le diverse monete (e gli Usa, per esempio, hanno «migliorato» la propria posizione solo grazie alla sostanziosa svalutazione del dollaro) e al costo del lavoro, che «rimane la principale variabile di costo per le imprese» (una dele poche su cui possono agire direttamente, ndr ), sia nel settore manifatturiero che nel terziario e nei servizi». E' chiaro perciò che quei 27 indicatori configurano l'«indice di competitività» capitalistica dell'Italia, su cui tanto si affannano i centri studi di Confindustria et similia , nonché le «fabbriche del programma» di entrambi gli schieramenti politici. Anche così, appare evidente che siamo «mediamente competitivi» per una lunga serie di ragioni, ma tra queste non c'è davvero il costo del lavoro; e che, quindi, proporsi di ridurlo ulteriormente - soprattutto se non dovessero venir modificati altri fattori, come ad esempio il costo dei trasporti, degli immobili o delle utilities - non può migliorare più di tanto la «nostra» classifica. Eppure Prodi si propone di abbattere il «cuneo fiscale» di cinque punti percentuali (ma non si comprende bene se parte di questa fiscalità verrà tradotta anche in quote di salario per i lavoratori oppure andrà tutta a beneficio delle imprese), mentre Confindustria vorrebbe un taglio addirittura di 10 punti. Siamo anche - ma non serve Kpmg per saperlo - il paese con il più alto tasso di precarietà contrattuale, e questo contribuisce molto a deprimere il valore del lavoro (il costo, detto con linguaggio «imprenditoriale»). Pensare di recuperare competitività lungo questa china è una follia palese: dietro di noi, su questa voce di bilancio, ci sono ormai solo i paesi dell'Est europeo; poi, ma si stanno avvicinando a passo di carica, indiani e cinesi. Paesi, bisogna pur dirlo, che non hanno ancora sviluppato un mercato interno. E' questo il «futuro radioso» dell'Italia «competitiva»?

il manifesto

Il Mezzogiorno disoccupato

di R. T

I dati Istat confermano nuove flessioni di occupazione. E in Italia aumenta la precarietà Brutti dati: a fine 2005 il 13,4% dei dipendenti era part-time e il 12,7% con un impiego a tempo determinato. E per le donne, soprattutto nel Mezzogiorno, va ancora peggio

Nel quarto trimestre del 2005 la dinamica dell'occupazione ha registrato un forte rallentamento: +56 mila gli occupati rispetto all'ultimo trimestre del 2004. Secondo i dati Istat, la creazione di nuovi posti di lavoro interessa solamente il Centro-Nord. Al Sud, invece, l'occupazione seguita a diminuire: 38 mila gli occupati in meno, ma soprattutto si segnala la scomparsa di 118 mila persone dal numero delle forze di lavoro. Per quest'ultimo dato negativo possono essere date varie interpretazioni: a) i lavoratori scoraggiati si ritirano dal mercato del lavoro; b) è ripreso alla grande il fenomeno del lavoro nero; c) prosegue la tendenza all'emigrazione. Anche rispetto al trimestre precedente, l'occupazione (i dati questa volta sono destagionalizzati) registra un incremento di 56 mila unità e in questo caso va un po' meglio per il mezzogiorno con un incremento di 19 mila posti di lavoro. Il recupero congiunturale dell'occupazione nel quarto trimestre dell'anno (+0,2%) «appare diffuso a livello territoriale e settoriale - spiega l'Isae - ma risente ancora della spinta proveniente dalle regolarizzazioni dei cittadini stranieri». La regolarizzazione dei cittadini stranieri, aggiunge l'Isae, è riflessa dall'anomalo andamento degli occupati uomini e dalla lieve contrazione del rapporto tra occupati e popolazione. L'immigrazione, anche per la Cgil, è uno dei motivi che spiegano l'aumento dell'occupazione. Al netto dell'immigrazione, l'occupazione, secondo l'analisi della segretaria confederale Marigia Maulucci, sarebbe «a crescita zero». Anzi, correlando i dati diffusi da Bankitalia (sulle unità di lavoro) la Cgil stima che nel 2005 si siano persi «ulteriori 90 mila posti di lavoro. Ulteriori vuol dire in aggiunta a quelli persi negli anni precedenti, per un totale che si aggira intorno alle 200 mila unità». Insomma, per la Cgil, l'aumento dell'occupazione è solo una «perversione statistica». Anche dalla Cisl arrivano osservazioni critiche sui dati Istat. Per il segretario confederale Raffaele Bonanni «i dati testimoniano che il tasso di occupazione è più che mai fermo. Il saldo rimane negativo, come dimostra peraltro il dato sul Mezzogiorno. In un paese che ha una crescita vicina allo zero, con una produzione industriale che si riduce sempre più, i consumi rimangono fermi, non c'è da farsi illusioni che ci siano segnali di dinamismo sul fronte occupazionale». Tornando ai dati Istat, a fine 2005 gli occupati ammontavano a 22,685 milioni, dei quali circa il 50% al Nord. Un po' meno di 2 milioni i disoccupati collocati per oltre il 54% al Sud. Il tasso di disoccupazione all'8% totale, oscilla tra il 4,7% del Nord e il 14,2% del Sud (dove «misteriosamente» è diminuito dello 0,8% su base annua pure in presenza di diminuzione degli occupati). Come al solito il Sud è anche penalizzato sul fronte dei tassi di attività maschili, ma soprattutto femminili. Un solo dato: nel Nord-Est il tasso femminile si colloca al 59,3%, nel Mezzogiorno precipita a 38,4%. Altro dato interessante, ma preoccupante per la qualità del lavoro, è quello che riguarda gli occupati dipendenti a tempo parziale: alla fine dello scorso anno erano 2,233 milioni, 149 mila in più (+7,1%) rispetto al 2004. In totale il 13,4% dei dipendenti lavora part-time e la percentuale sfiora il 26% per le donne. La conferma di questi dati si ha dalle ore lavorate: il 18,3% degli occupati lavora meno di 30 ore settimanali e il 2,1 meno di dieci ore. Per le statistiche basta un'ora di lavoro per essere considerati occupati. In crescita anche il numero dei dipendenti precari, cioè a termine. In totale sono 2,121 milioni (1,01 milioni maschi e 1,2 milioni donne) 159 mila (+8,1%) in più rispetto al 2004. Il 12,7% di chi lavora ha contratti a termine (58,1% in agricoltura) e come al solito sono le donne (15,6% sul totale) anche se è in forte crescita (+11,2% nell'anno) la componente maschile che lavora a termine.

il manifesto

Occupazione, che gran confusione

di Aldo Carra

Il comunicato Istat sulle forze di lavoro di ieri ci ha informati che gli occupati nell'intero anno 2005, rispetto al 2004, sono aumentati di 158.000 . Il primo Marzo, cioè venti giorni fa, l'Istat ci aveva detto che le unità di lavoro occupate , tra 2004 e 2005, erano diminuite di 102.000. Viene da chiedere: l'occupazione diminuisce o aumenta? Come orientarsi nel mare delle statistiche? Questa domanda non ce la poniamo solo noi in Italia. Se l'è posta, nel numero di Marzo, anche la rivista francese «Alternatives Economiques» dedicando con un bel dossier di 15 pagine dal titolo "I numeri sono affidabili?" La risposta che trapela nella lunga carrellata della rivista è: bisogna torturarli, farli parlare, ma non pretendere che ci possano dire quello che non sanno. Purtroppo gli utilizzatori di statistiche sono sempre più costretti a ricorrere a questa pratica, naturalmente innocua se applicata a numeri. Proviamo ad applicarla per capire se la verità è quella del 1° Marzo o quella del 21 e facciamolo spulciando nei successivi documenti dell'Istat. Sui dati delle unità di lavoro la lettura è netta: meno 102.000 senza discussione. Ma le unità di lavoro sono una entità di non facile comprensione. Sono, come spiega l'Istat, una misura standard di occupazione omogenea che equivale al lavoro prestato nell'anno da un occupato a tempo pieno. In soldoni due lavoratori a metà tempo fanno un lavoratore a tempo pieno e, quindi, una unità di lavoro. Le unità di lavoro, perciò, non sono «teste»: se viene licenziato un lavoratore a tempo pieno ed al suo posto ne vengono assunti due a part-time, le teste aumentano, le unità di lavoro no. E' a questo che si era attaccato il governo contestando, il primo Marzo, i dati delle unità di lavoro che davano una flessione. Adesso naturalmente il governo gongola ed esalta i dati delle forze di lavoro perché essi, invece, misurando le teste, cioè il numero di persone occupate indipendentemente da quanto lavorano, ci mostrano un aumento di 158.000 occupati. Ma sarà poi vero che gli occupati delle forze di lavoro, cioè le teste, aumentano? Ripercorriamo brevemente quello che l'Istat ha detto. Secondo trimestre 2004: le forze di lavoro aumentano di +40.000, ma questo dato «sconta il forte aumento della popolazione residente tra 2003 e 2004». Primo trimestre 2005 : occupati +308.000, ma «ancora una volta tale risultato incorpora il forte aumento della popolazione residente determinato dall'incremento dei cittadini stranieri registrati in anagrafe». Terzo trimestre 2005: occupati +57.000 «un aumento in marcato rallentamento rispetto al passato. Il risultato sconta l'attenuazione degli effetti dovuti alla regolarizzazione dei cittadini stranieri registrati in anagrafe». Quarto trimestre 2005: gli occupati sono aumentati di 56.000, ma «il risultato risente ancora degli effetti della regolarizzazione dei cittadini stranieri». Insomma, l'Istat continua a ripetere che la rilevazione da un risultato (aumento), ma lascia intendere che la verità è un'altra. Il problema vero è che nel 2004 e 2005 sono entrati nella rilevazione i lavoratori stranieri che si sono regolarizzati ed iscritti all'anagrafe, che non sono nuovi occupati, perché lavoravano anche prima, ma solo lavoratori sommersi che sono emersi.Purtroppo, però, l'Istat continua a non quantificare questo effetto, non depura i suoi dati da esso e continua a fornire, così, un dato che non ci da una buona rappresentazione della realtà. Sia l'Ires-Cgil che la Banca d'Italia, invece, producono stime ormai da diversi mesi arrivando a risultati simili. Aggiornando ad oggi le stime Ires, poiché l'effetto regolarizzazione tra 2004-2005 è stimabile in 250.000 occupati, se ne ricava che nel 2005 le forze di lavoro hanno registrato non un incremento di 158.000, ma un decremento di circa 90.000 occupati. Quindi non solo sono diminuite le unità di lavoro, ma sono diminuite anche le «teste». Come si vede torturando i numeri con gli stessi strumenti che l'Istat fornisce, le spiegazioni si trovano. Insomma, tra 102.000 unità di lavoro in meno e 158.000 occupati in più c'è uno scarto di 260.000. Se esso è dovuto agli stranieri regolarizzati ed ai cassintegrati che gonfiano artificialmente le forze lavoro il dato di oggi si spiega, anche se non si giustifica: la verità rimane quella del primo marzo e l'Istat farebbe bene a chiarirlo. Resta in ogni caso una amarezza: non potrebbe l'Istat stesso fornire il dato esatto dei lavoratori stranieri regolarizzati o almeno una stima evitando così agli utilizzatori di torturare i numeri per trovare la verità e, soprattutto, evitando di fornire, nello stesso mese, due dati che si prestano a due letture contrapposte?

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