«A Mantova ci si è spesso concentrati sulle letterature provenienti da zone decentrate. È uno dei vanti della rassegna che ancora la distingue dalle tante iniziative che si moltiplicano in Italia.». la Repubblica, 7 settembre 2017 (c.m.c)
Via dall’autismo corale, invoca il poeta e paesologo Franco Arminio. E chissà se l’invito a fare comunità come in una piazza di paese, seduti intorno alla statua del santo patrono o in un bar con i tavolini in formica può proporsi anche a Mantova, dove ieri si è aperta la ventunesima edizione del Festivaletteratura. Festival internazionale, che quest’anno insieme a tante stelle del firmamento globale dedica uno spazio corposo al locale, con un percorso sugli sguardi che vengono dai margini, dalle aree interne, dai borghi a rischio di abbandono. Quelli che Arminio racconta dalla sua Bisaccia, nell’Irpinia orientale, e che raduna a fine agosto ad Aliano, in Basilicata, dove organizza “La luna e i calanchi”.A Mantova ci si è spesso concentrati sulle letterature provenienti da zone decentrate. È uno dei vanti della rassegna che ancora la distingue dalle tante iniziative che si moltiplicano in Italia. Stavolta non sono le periferie il punto d’osservazione, quanto il non-urbano, i luoghi dove, nonostante lo spopolamento, è molto anche Quel che resta, come recita il titolo dell’ultimo saggio di Vito Teti (Donzelli), l’antropologo che da un decennio studia il fenomeno, strappandolo alle letture estetizzanti o di sfruttamento turistico.
Sono borghi come Tresigallo in provincia di Ferrara, dove Diego Marani è nato e ambienta diversi suoi romanzi, compreso l’ultimo, Vita di Nullo (La nave di Teseo). O come Tavanasa, nello svizzero cantone dei Grigioni, narrato nei libri di Arno Camenisch, frizzanti pastiche che mescolano il tedesco e il romancio, nella sua variante sursilvana, una delle cinque con le quali l’antica lingua neolatina sopravvive nei Grigioni ( Dietro la stazione, Ultima sera e La cura sono i titoli pubblicati da Keller, Sez Ner da Casagrande, tutti affidati alla meticolosa e gioiosa traduzione di Roberta Gado).
Percorsi diversi, ma assimilati non solo dalla marginalità dei luoghi, anche dal tessuto umano che quei luoghi anima. Il più estroverso è Arminio. La sua raccolta di poesie, Cedi la strada agli alberi (Chiarelettere), è uscita a febbraio, ha collezionato 6 edizioni e 15 mila copie, un successo travolgente per un libro in versi. Arminio ha partecipato a duecento incontri, dalla Puglia al Veneto. In piazza raduna cento, anche trecento persone. Non sono presentazioni, li chiama «riti collettivi».
Ad Agugliaro, provincia di Vicenza, sotto il portico di una villa veneta ha letto i suoi versi, poi, insofferente delle formalità, ha chiamato quattro persone del pubblico a tradurre le poesie ognuno nel proprio dialetto. Quindi ha proposto di cantare Azzurro di Adriano Celentano e ha chiuso con Bella ciao. «Raccolgo il bisogno di stare insieme, di stare bene, di stringersi la mano», dice facendo squillare le parole. «Da noi la politica non viene più nelle piazze, ci pensano i poeti a soddisfare la fame di esporre i drammi e le speranze. La poesia non funziona da sola, altrimenti è iperletteratura, né funziona da sola la politica. Fanno la spola l’una e l’altra». E l’abbandono? «C’è. Ma chi rimane manifesta un naturale senso di comunità che nelle città si è consumato, sostituito da un autismo corale».
A Mantova Arminio dialoga domani con il critico Antonio Prete e sabato terrà un monologo sui territori resilienti. Di luoghi marginali parla in fondo Paolo Cognetti, vincitore dello Strega con Le otto montagne e anche lui presente a Mantova (sabato). Come Donatella di Pietrantonio, che con L’Arminuta è finalista al Campiello e che è nata e vive a Penne, in provincia di Teramo (stasera è a confronto con Michela Murgia). A Mantova anche Claudio Morandini (stasera è insieme ad Arno Camenisch e Marco Malvaldi) e Davide Longo, che dialoga sabato con Marani. Marani è un funzionario europeo, vive a Bruxelles, ma i suoi materiali narrativi li recupera dai seimila abitanti di Tresigallo. «Erano seimila anche quando ero ragazzino, molti sono andati via e ne sono subentrati altrettanti che così si sono avvicinati al capoluogo. Per il resto tutto si va spegnendo», spiega. I suoi accenti sono più rassegnati: «Avevamo le fabbriche e i negozi. Ora si compra al centro commerciale, anche se il fine settimana in molti vanno al bar a vedere le partite ». Il bar, con la boiserie scheggiata e le muffe che tinteggiano le pareti, è anche il fulcro di Vita di Nullo, scritto in un italiano denso e colto, assai distante dal parlato che rimbalza fra quei tavolini. Marani è un cultore di lingue. Tempo fa allestì l’europanto, un idioma immaginario che ne metteva insieme tanti reali e ora si sente orgoglioso di «conservare nella sua purezza il dialetto di Tresigallo, ora parlato solo dai vecchi». Di un’altra cosa va fiero: della capacità di adattarsi che vigeva in paese, «di capire anche le persone più lontane da sé, con le quali, nel piccolo spazio dove le compagnie non si potevano scegliere, s’imparava a mediare ». Che cosa resta? «Poco, quel tessuto sociale si è sfaldato».
Non resta molto neanche a Tavanasa, in mezzo alle montagne dei Grigioni, dove, stando al computo dei ragazzini protagonisti di Dietro la stazione, gli abitanti sono quarantadue o quarantatré. L’Ultima sera raccontata da Camenisch è quella dell’Helvezia, il bar della zia, di nuovo un bar. Dal giorno dopo avrebbe chiuso per sempre. Ed è l’occasione per vedersi tutti e per Camenisch, classe 1978, di sfoggiare una scrittura diversa da quella di Marani, fluida, smagliante, niente virgolette, solo discorso indiretto libero. Tanta, vitale oralità. «È il sound del romancio », dice, una miscela che scompone e ricompone elementi. «Ora abito poco distante da Berna. Ho sempre vissuto sui bordi linguistici di francese e tedesco. E a Tavanasa c’è chi parla il romancio e chi l’italiano. È un microcosmo in cui la polifonia risalta ». Guai dunque, il piccolo luogo, a darlo per perso. Basta un ridente incrocio di lingue e non sarà ridotto a un reperto.