Sin dalla loro nascita ufficiale come componente integrante della Guerra Fredda, nel 1946 a opera del presidente Usa Truman, gli aiuti allo sviluppo sono sempre stati in qualche modo condizionati e condizionanti. Allora, parlando al Congresso, Truman disse che il ruolo americano era quello di portare ogni paese che avesse seguito il suo modello economico allo stesso livello di vita degli statunitensi. Un sogno che si è poi rivelato un incubo per molti.
Nella storia degli aiuti allo sviluppo i periodi più significativi partono dalla cosiddetta «cooperazione tecnica» degli anni ’60, l’idea cioè che una sufficiente infrastrutturazione di quello che allora veniva definito Terzo Mondo, avrebbe portato le nazioni appena indipendenti a un livello di accumulazione del capitale tale da consentire l’avvio di un ciclo positivo, di ricchezza per tutti.
In realtà gli ingenti prestiti forniti a governi, perlopiù dittatoriali, essendo stati eliminati tutti i leader democratici che rimettevano in discussione il modello di sviluppo post coloniale – vedi Lumumba, portarono a due evidenti risultati: costruire infrastrutture funzionali all’esportazione delle materie prime a basso costo, e un indebitamento il cui servizio sarebbe esploso vent’anni dopo consentendo ai donatori di gettare una seria ipoteca sulla sovranità economica e politica di quei Paesi.
Negli anni ‘70 la competizione Est-Ovest fa propendere invece per un approccio più «di base», a causa delle rivoluzioni in Nicaragua, dell’indipendenza di ispirazione socialista delle ex colonie portoghesi e della sconfitta Usa in Viet Nam, nonché dell’inimmaginabile rivoluzione iraniana.
Nascono allora le politiche di cooperazione basate sui «basic needs»: acqua potabile, cibo, prevenzione sanitaria e una attenzione alle zone rurali, allora ancora prevalenti. Tutto questo, funzionale ad «asciugare l’acqua» in cui nuotava il potenziale pesce rivoluzionario, tramonta bruscamente dopo la caduta del muro di Berlino per essere sostituito dagli aiuti condizionati al rispetto dei diritti umani e della democrazia; in concreto un assist ai nuovi governi multi-partitici che in quegli anni scalzavano i residui del socialismo africano e si adeguavano al nuovo corso liberista.
Molte volte i Governi africani si sono lamentati di queste condizionalità che, sotto l’egida dei diritti umani tendevano a profilare forme di gestione privatistica della cosa pubblica che mantenessero inalterate le relazioni tra paesi produttori e consumatori. Prova di questo strumento sono anche le varie «rivoluzioni arancioni» in Europa o la situazione di alcune democrazie popolari in America latina.
Adesso, ultimo ma non per importanza, arriva nel Migration Compact, ove risulta centrale la condizionalità inerente alla gestione dei flussi migratori.
È una ennesima evoluzione, o involuzione, dunque, di prassi molto ben consolidate nel tempo, e che ha mostrato la sua indubbia efficacia nel condizionare le politiche estere e interne di interi continenti.
In particolare la sottolineatura sul ruolo del settore privato la dice lunga su cosa rischiano di essere queste politiche di aiuto alla gestione dei flussi migratori: un’ulteriore messa a punto delle divisione internazionale del lavoro, operata dalle stesse multinazionali che hanno deciso che i «veri» diritti umani non sono quelli universali ma solo quelli di chi se li può comperare.
Dunque bisognerà vigilare su cosa realmente sarà proposto e soprattutto riproporre come criterio di valutazione e di efficacia quello dell’equità e della democrazia economica nei Paesi di emigrazione, onde evitare che la crisi dei migranti diventi, ancor di più, un’occasione per restringere le libertà su scala planetaria in nome della sicurezza delle frontiere europee.