«COSÌ ABBIAMO AIUTATO
I MIGRANTI IN MARCIA»
di Gian Guido Vecchi
«Venezia, il patriarca Moraglia: evitata l’emergenza umanitaria. Già ricollocate 150 persone»
Che effetto le ha fatto vedere questi esseri umani in marcia?
«Era un’immagine quasi biblica. Procedevano lungo l’argine, i volti provati. Non esprimevano rabbia. Piuttosto, avevano l’aspetto di persone che domandano essenzialmente dignità, il riconoscimento della loro condizione umana. Un popolo in marcia che chiede di essere considerato per ciò che ci accomuna e unisce come esseri umani».
Francesco Moraglia, patriarca di Venezia, l’altra notte ha salvato una situazione che stava diventando disperata. Più di duecento migranti in cammino da giorni, via dal cosiddetto «centro di accoglienza» ricavato nell’ex base missilistica di Conetta, nella campagna veneziana, una frazione di 190 anime dove sopravvivono ammassati milletrecento «richiedenti asilo» o forse di più, nessuno sa il numero reale. Una marcia verso Venezia per i diritti e la dignità che rischiava di finire male. Il freddo, la fame, nessun posto dove stare. Ieri pomeriggio la prefettura ha infine annunciato una soluzione, 151 sono partiti in pullman per altri alloggi «sparsi nel territorio regionale», per altri 90 «si sta lavorando». Ma la sera prima, lungo il Brenta, c’è stato un momento in cui non si sapeva che fare. Finché in prefettura è arrivata la telefonata del patriarca.
Che cosa è successo, eccellenza?
«Nel pomeriggio ho sentito che la situazione cominciava a diventare preoccupante. Si annunciavano ore di tensione e qui, di notte, inizia a fare molto freddo. Ho sentito i parroci della zona di Mira uno ad uno, ho chiesto loro se potevano individuare degli spazi dove accogliere queste persone, almeno in questa fase di emergenza. Tutti mi hanno dato la piena disponibilità. Così ho mandato il mio vicario sul posto, si è mossa la Caritas e la “macchina” diocesana. E ho chiamato il prefetto: cosa possiamo fare per evitare che la situazione esploda e diventi un’emergenza umanitaria e sociale?».
Come si è riusciti a risolvere la faccenda in poche ore?
«Grazie alle nostre strutture diocesane e ai volontari, non soltanto ma soprattutto giovani: scout, associazioni. Alla fine abbiamo ospitato 212 persone: 55 a San Nicolò di Mira, 45 a Gambarare, 45 a Borbiago, 47 a San Pietro di Oriago e altri 20 a Mira Porte. Si sono recuperate le coperte, serviti i pasti. Dalla Protezione civile sono arrivati i bagni chimici. Abbiamo chiamato anche un medico. La notte è stata serena, hanno potuto mangiare e riposare».
Li avete accolti in vari luoghi. Com’è possibile che a Cona siamo ammassate più di mille persone?
«L’impegno delle istituzioni è indiscutibile, ma è chiaro che situazioni simili esasperano gli animi. Proprio pochi giorni fa, in vista della giornata mondiale dei poveri voluta da papa Francesco, avevo scritto una lettera alla Chiesa di Venezia che parlava di questi problemi: c’è bisogno che ognuno faccia la sua parte, non eliminando o accantonando difficoltà e problemi ormai “strutturali” per il nostro vivere, ma aiutando concretamente a risolverli».
E quindi?
«Nessuno - istituzioni, enti locali, politica, società civile, realtà ecclesiali - deve sottrarsi al senso profondo del proprio impegno e delle proprie responsabilità».
Bisogna trovare soluzioni diverse?
«Sì. In queste ore si è affrontata l’emergenza. Ma bisogna stare attenti a gestire i rapporti con il territorio. La nostra è una terra generosa che conosce i disagi e le speranze di chi migra. Possiamo vincere la sfida dell’accoglienza: creare una società inclusiva, capace d’incontrare gli altri anche davanti a diritti che configgono».
Che cosa intende?
«Intendo mettere in chiaro che i nostri diritti esistono come esistono quelli degli altri. C’è qualcuno che guarda ai migranti con aria di chiedere: perché venite da noi?».
Cosa direbbe a chi dice «tornate a casa vostra»?
«Che se queste persone hanno lasciato casa loro, lo hanno fatto con dolore e sofferenza, perché non c’erano le condizioni per vivere. Chi dice così dà una risposta che non corrisponde ad una realtà percorribile. Sono passati 50 anni dalla Populorum progressio di Paolo VI, dobbiamo anche domandarci come abbiamo trattato questi popoli».
E qual è la via percorribile?