La prima legge speciale per Venezia ebbe una storia. La storia della nuova legge speciale, ammesso che serva, rischia di diventare una farsa. Quella volta, quando impiegarono sette anni, dal 1966 al 1973, per fare la prima legge speciale, servì tanto tempo perché il lavoro da fare per stenderne il testo fu titanico. Interminabili riunioni a ogni livello, incontri e scontri, polemiche e baruffe, trattative e mediazioni. Il risultato fu un compromesso. Ma dignitoso. Quella legge, comunque la si giudichi, fu costruita con l’apporto positivo di tutte le forze politiche, con il consenso dei tre maggiori partiti di allora di maggioranza e di opposizione, la Dc, il Psi, il Pci, e con un grande lavoro di squadra dei parlamentari veneziani. Sarà che a quell’epoca erano all’opera, nei vari schieramenti, intelligenze tali da far impallidire i molti sprovveduti di oggidì, fatto sta che di questi tempi sembra proprio impossibile si possa ripetere, intorno alla nuova legge, un percorso virtuoso come quello di allora.
Il grande dibattito pubblico di quarant’anni fa si è ridotto a un chiacchiericcio da osteria. Nei casi migliori, da salotto. La gran parte dei veneziani sembra indifferente quando non anche rassegnata. Comunque sempre incazzata. Con tutti. E le proposte che vengono fuori, pure lodevoli nelle intenzioni, sembrano più iniziative isolate, partorite da conventicole ristrette, orfane di un vero confronto cittadino. E nessun accordo politico si intravede all’orizzonte. Anche perché non è obiettivamente facile dialogare con questa maggioranza di governo.
Così accade che un ministrino fantuttone si scrive la sua leggina da solo, un compitino modesto che non accontenta nessuno. Un altro partito di governo tenta di farsi la sua chiedendo consigli al popolo di Internet. E il maggiore partito di opposizione non solo non riesce a predisporre un testo alternativo condiviso, ma si mette a litigare con alcuni dei suoi che almeno ci hanno provato, e una leggina, buona o cattiva, per conto loro l’hanno scritta. Poi un altro gruppetto di parlamentari dello stesso partito si scrive la sua di leggina. E altri, nella gran confusione mentale, faranno lo stesso.
Si capisce, da queste incoraggianti premesse, che sarà molto problematico, quasi chimerico, il varo di una nuova legge speciale, anche qualunque. Sempre ammesso, come si diceva, che una nuova legge speciale sia davvero utile. Ammesso, e non concesso, che sia stata davvero utile la prima, quella che definiva il caso-Venezia «di preminente interesse nazionale», e che fissava due obiettivi strategici: la salvaguardia fisica dal pericolo di nuove alluvioni, e la rivitalizzazione del tessuto socio-economico della città. Il primo obiettivo non è stato ancora raggiunto, il secondo è fallito. Peggio: al posto della «rivitalizzazione» è subentrata la «devitalizzazione».
Chissà di quale bacchetta magica avrà bisogno la nuova legge speciale per fare meglio della prima. Ma forse bastano i soldi. Forse conta più avere i soldi che raggiungere degli obiettivi. Dove vadano poi a finire, i soldi, e per fare che cosa, è un altro discorso. Intanto dateci i soldi, chiedono tutti, dateci leggi e poteri speciali.
Una legge speciale la chiede anche Firenze, lei non l’aveva avuta dopo l’alluvione, poverina, adesso gliel’ha promessa anche il premier. E i soldini speciali li ha chiesti e ottenuti anche Roma, perché è Capitale, s’intende. Ma ne avrà bisogno anche Milano, che ha l’Expo, Napoli che ha i rifiuti, Torino che ha la Fiat, Bologna che ha i tortellini e Palermo che ha il mare. Nessuno, da Nord a Sud, vuole rinunciare alla sua pretesa di essere «speciale». Come non vogliono rinunciarci le regioni a statuto speciale, anche se sarebbe il tempo di chiedersi se hanno ancora un senso, invece di incoraggiare le spinte di quei paesi e città, adesso anche intere province, che per nobili motivi economici chiedono di traslocare dalle regioni «normali» a quelle «speciali». Non sarebbe male finirla con queste specialità più presunte che vere. False, in buona parte. False come le «specialità veneziane» fabbricate a Taiwan che si vendono sui banchetti della città che fu Serenissima.
Forse sarebbe meglio concentrarsi nel fare vecchie cose «normali» anziché sognare nuove leggi speciali. Anche perché l’unica «specialità» rimasta a Venezia sono quei ventidue milioni di girovaghi che ingrassano osti e locandiere.