Il punto da chiarire è questo: il reintegro dei lavoratori licenziati a Melfi da parte di un giudice del lavoro era del tutto prevedibile. Forse non la rapidità della pronuncia, ma il suo esito certamente sì. Allora, posto che non si può credere che l’ad di Fiat Auto si sia circondato di sprovveduti, bisogna chiedersi per quali motivi i suoi esperti gli hanno suggerito d’imboccare una strada che portava dritto contro un muro. Il quesito è d’obbligo, perché rispetto alla questione dei licenziati di Melfi i rischi cui Fiat va incontro sul piano giuridico ed economico con il piano di Pomigliano e ciò che vi ruota attorno sono molto più grandi. Il piano presentato ai sindacati nel maggio scorso ha fatto sorgere seri dubbi circa la possibilità che limiti il diritto di sciopero, e perfino il diritto di ammalarsi, giacché nel caso che la percentuale di assenteismo «sia significativamente superiore alla media» l’azienda - la sola a decidere quanti punti o decimi di punto siano significativi - si considera libera dall’obbligo di pagare le quote di malattia. Nelle discussioni seguite alla presentazione del piano l’ad Fiat si è poi più volte riferito alla possibilità che l’azienda fuoriesca dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Infine è spuntato il progetto di costituire una nuova società, la quale rileva gli impianti di Pomigliano e assume soltanto i lavoratori che accettano l’organizzazione del lavoro e i vincoli comportamentali del piano di maggio. Quanto basta per mobilitare folle di giudici del lavoro, avvocati, e lavoratori che per anni faranno causa all’azienda.
A fronte di tale scenario maxi, assai probabile, e certo costoso in termini legali, economici, industriali, perché la Fiat si è imbarcata in una minicausa persa prima di cominciare, come i licenziamenti di Melfi? È stato un ballon d’essai, si dirà. Vediamo come va a finire, han pensato al Lingotto, e se le acque non si agitano troppo faremo un altro passo per portare in Italia condizioni di lavoro polacche. Oppure si è trattato dell’inizio d’una politica del carciofo. Tre o quattro licenziati oggi, pochi per scuotere l’indifferenza generale; cento o più domani, magari con la scusa che non volevano accettare i dettami della Manifattura di Classe Mondiale, come si richiederà a tutti i dipendenti della nuova Pomigliano, filiazione Fiat ma tenuta a distanza di braccio dalla genitrice.
Ma la realtà potrebbe essere un’altra. Potrebbe darsi che la Fiat, a conti fatti, non abbia molta voglia di produrre la Panda in Italia. È una vettura piccola e semplice, che permette di guadagnare, quando tutto va bene, poche centinaia di euro per unità prodotta. È la vettura da produrre giusto in Polonia, in Turchia, o magari in Cina, cioè in paesi dove il costo complessivo del lavoro è da due a cinque volte più basso, e i sindacati di fatto non esistono. Ma per fare un passo indietro di notevole risonanza economica e politica la Fiat ha bisogno di buoni motivi. Pensava forse di trovarli nella resistenza dei sindacati, questi residui ottocenteschi di un mondo industriale che non c’è più, come tanti politici, oltre all’ad Fiat, li hanno definiti. Purtroppo per essa - ammesso che questo fosse il disegno - la resistenza dei sindacati quasi non c’è stata, visto che tre sindacati e mezzo hanno prontamente sottoscritto il lodo Pomigliano, né hanno battuto ciglio dinanzi alla prospettiva di una nuova società palesemente costituita allo scopo di poter scegliere i lavoratori che ci stanno.
Se alla fine il disegno Fiat fosse proprio quello di un ritiro motivato dalle difficoltà che si incontrano in Italia per produrre vetturette in modo competitivo a paragone di polacchi e serbi, e prima o poi di cinesi e indiani, quale miglior appiglio della sentenza di un giudice del lavoro che reintegra al loro posto tre operai accusati nientemeno che di sabotaggio? Il costo di questo singolo insuccesso legale è minimo. Ma può essere il punto di appoggio atto a sollevare la Fiat da un impegno che appare ogni giorno più scomodo. In un paese dove i giudici del lavoro si mobilitano in poche settimane per salvare dalla disoccupazione un gruppetto di operai, ci si deve dare atto - potrebbe aver ragionato l’azienda - che non si può andare avanti con la prospettiva di dover affrontare per un lungo futuro complicate vertenze con buon numero degli uni e degli altri. I licenziamenti di Melfi, apparentemente così incauti, cadrebbero allora al loro posto nella strategia della Fiat.