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Giorgio Ruffolo
Cosa mette a rischio l’unità nazionale
4 Dicembre 2009
Articoli del 2009
Una parte dell’introduzione del libro di Giorgio Ruffolo "Un paese troppo lungo" (Einaudi). La Repubblica, 4 dicembre 2009

Guardo la carta d’Europa, e sento lo sforzo di quell’appendice geografica di staccarsi dal "corpaccione" asiatico protendendosi vero l’Atlantico e il Mediterraneo.

Un corpo centrale compatto, dalla Polonia alla Francia, lancia al Nord la penisola scandinava (un’Italia malriuscita) e un’esile punta danese; al Sud, una Spagna tozza e una Grecia che va in frantumi.

Al Nordovest si è distaccata la forma piumata dell’Inghilterra, e al centro del Mediterraneo quella di un’Italia chiomata, che si distende restringendosi alla vita e articolandosi alle estremità. A quella figura elegante non si addice l’immagine sgraziata dello Stivale, ma piuttosto quella di una signora, leggiadramente fluttuante sul mare. Una penisola lunga, un po’ troppo lunga, dissero gli Arabi, che la tormentarono per tanto tempo senza riuscire a possederla tutta intera, come del resto tante altre nazioni dominatrici, tranne Roma, che però la immerse in un grande impero.

Di questa un po’ eccessiva lunghezza si tratta qui, e delle vicende che hanno reso, attraverso la storia, tanto problematica e che tuttora, a distanza di centocinquant’anni, insidiano la sua definitiva unificazione.

* * *

Il 1861, anno dell’unificazione del regno, è l’anno in cui si compie il grande moto del Risorgimento. Ma è anche quello in cui esso comincia a invischiarsi nella grande palude dell’"Antirisorgimento".

L’Antirisorgimento si sviluppa, successivamente, in tre forme storiche.

La prima è la corruzione del patriottismo risorgimentale nel nazionalismo aggressivo, che nasce dal gigantesco complesso d’inferiorità di una piccola borghesia frustrata da secoli di servitù. Cavalcando la denuncia delle fragili istituzioni democratiche create dal nuovo Stato, esso precipiterà il paese nel massacro di una guerra mondiale e nell’avventura retorica e populista del fascismo. La nazione mussoliniana è l’antitesi della patria mazziniana.

Là dove quella era concepita come parte di un generale affratellamento dei popoli europei e di un grande moto di solidarietà sociale, questa è l’espressione del primato militarmente aggressivo, e socialmente oppressivo, di un’élite violenta e dissennata.

La seconda consiste nel condizionamento dello Stato italiano da parte della Chiesa cattolica e della sua massiccia presenza a Roma. Che lo si voglia riconoscere o no, in Italia esistono due sovranità, non una: la sovranità nazionale è limitata da quella ecclesiastica. Si può fingere di non vedere. Nondimeno questa è la realtà che si esprime nei Concordati, e che tutti i discorsi sull’armonia tra le due istituzioni non riescono a dissimulare.

La terza è la questione meridionale. Il carattere antirisorgimentale di conquista del Sud da parte della monarchia sabauda si rivela immediatamente dopo che le camicie rosse sono scomparse, sostituite dalle uniformi blu dei soldati del re, nella cosiddetta «guerra del brigantaggio»: in realtà, una repressione violenta delle plebi contadine, schiacciate con la connivenza dei baroni.

È proprio nella fase più avventurosa del Risorgimento, quella rappresentata dall’unificazione con il Sud, che un’impresa nata sotto l’insegna della liberazione si corrompe in mera conquista, segnando tra le due parti del paese un solco fatale, che i tanti sforzi successivi non riusciranno a colmare.

Se, con un nuovo salto storico, approdiamo ai giorni nostri, dobbiamo domandarci quanta parte di queste tre minacce insidi ancora il nostro paese, a centocinquant’anni dal compimento della sua unità.

Certo, la minaccia fascista è scomparsa; anche se non ne è affatto scomparsa la nostalgia, che si manifesta attraverso una continua campagna di denigrazione di quel secondo Risorgimento che è stato rappresentato dalla Resistenza. Al posto del fascismo, tuttavia, si è installata nel popolo italiano un’altra forma di ripugnanza per le istituzioni della democrazia, un "anti-antifascismo" che non fa appello alla retorica nazionalista, ma a un’altra forma di populismo privatistico, non più trascendente nel sentimento patriottico, ma nel tifo calcistico.

Tutt’altro che scomparsa è la seconda insidia, quella del protettorato cattolico, che trae dal neoguelfismo una tradizione illustre.

E infine, l’insidia più grave, conseguenza del fallito compimento dell’unità, è quella costituita dalla decomposizione, presente al Nord in forme tutto sommato pacifiche, anche se bizzarramente provocatorie, e incombente al Sud nella secessione criminale delle mafie, che sequestrano zone intere della Repubblica.

Questa è la vendetta suprema dell’Antirisorgimento che il paese, a centocinquant’anni dall’unificazione, deve fronteggiare. Sarebbe triste se le sue speranze di superarla fossero tutte affidate a un’Unione Europea cui, anziché offrire l’esperienza di una ricca tradizione di diversità, si fosse costretti a chiedere di tirare la carretta di una penisola troppo lunga e sconquassata.

Ma una speranza, per quanto controversa, c’è.

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