Il Fatto Quotidiano online e il manifesto, 25 settembre 2016 (p.d.)
Il Fatto Quotidiano online
RIFUGIATI AMBIENTALI,
VIOLENZE E INQUINAMENTO.
MA SENZA ALCUN DIRITTO
Se ne è parlato in un convegno internazionale che si è svolto a Milano, intitolato ‘Il secolo dei rifugiati ambientali?’ e organizzato dall’eurodeputata Barbara Spinelli e dal gruppo Gue/Ngl, nel corso del quale scienziati, politici, medici, attivisti hanno confrontato analisi, proposte e politiche. Tra le cause che portano a conflitti e disastri ambientali, però, ci sono anche i fenomeni del land grabbing e del water grabbing (accaparramento di terra e acqua), i processi di ‘villaggizzazione’ forzata (che negli anni Ottanta hanno causato in Etiopia un milione di morti per carestia), e poi inquinamento, smaltimento intensivo di rifiuti tossici, scorie radioattive da bombardamenti.
Anche l’Italia fa la sua parte “contribuendo a sottrarre terre e risorse ai popoli più poveri del mondo, proprio mentre il presidente del Consiglio Matteo Renzi parla di un piano per l’Africa, la stessa che multinazionali ed Europa continuano a sfruttare” sottolinea Vittorio Agnoletto, membro del consiglio internazionale del Forum Sociale Mondiale e fondatore della Lega italiana per la lotta contro l’Aids. L’Italia come tanti Paesi europei, complici delle multinazionali dello sfruttamento delle terre, tutt’altro che tutelate da governi locali spesso corrotti.
È possibile fare marcia indietro? Grammenos Mastrojeni, coordinatore per l’eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo, diplomatico e autore del libro L’Arca di Noè edito da Chiare Lettere è sicuro di sì, se si utilizzerà un approccio di cooperazione allo sviluppo ecostostenibile e di tutela dell’ambiente. “Le soluzioni ci sono – spiega Mastrojeni – e noi abbiamo iniziato a metterle in pratica con progetti in Senegal e Burkina Faso. Oggi si perdono 12 milioni di ettari di terreno all’anno “ma recuperare un ettaro di terreno nelle zone di emergenza costa 120 dollari”. Secondo il diplomatico sono diversi i vantaggi del recupero dei terreni, soprattutto se consegnati alla piccola agricoltura familiare. “Si crea un pozzo di carbonio – commenta – si protegge la biodiversità, si mantengono le capacità produttive di quella terra, oltre a creare reddito e lavoro per quelli che oggi sono costretti a migrare”.
Secondo l'Onu, entro il 2050 ci saranno più di 200 milioni di rifugiati costretti a fuggire non per un conflitto ma per disastri che non si possono più definire naturali. Tra gli obiettivi della giornata di lavori, una campagna a livello europeo per definire lo status giuridico del rifugiato ambientale nel diritto internazionale.
In Europa, e nel mondo, non sono previsti cambi di strategia per gestire il fenomeno delle migrazioni che sta destabilizzando economie e società di un pianeta violentato da uno sviluppo insostenibile.
Dove la guerra è il corollario dell’ideologia dominante. Per restare alla cronaca, lo dice il fallimento dei due summit sui rifugiati di Bratislava e New York (Onu). Tra gli indicatori del disastro, con la retorica di capi o capetti di Stato, c’è uno scandalo: in un anno l’Europa, 500 milioni di abitanti, ha ricollocato 5.290 rifugiati sui 160 mila previsti. Solo profughi di guerra, gli unici ad aver diritto all’asilo in virtù della distinzione tra chi fugge da un conflitto e chi emigra per motivi economici. Viste le premesse, sono ancora più urgenti le analisi fornite dai relatori del convegno Il secolo dei rifugiati ambientali? che si è tenuto ieri a Milano su iniziativa di Barbara Spinelli, parlamentare del Gruppo della Sinistra Europea (troppi gli interventi, moderati da Guido Viale, per poterne dare conto diffusamente).
Secondo l’Onu (Unhcr), entro il 2050 ci saranno circa 200-250 milioni di rifugiati ambientali, una media di 6 milioni di persone all’anno costrette ad emigrare non a causa di un conflitto. Il fenomeno è in corso ma interessa poco i media poiché, per ora, si tratta di “sfollati interni”: nel 2015 sono stati 27,8 milioni (in Siria 6 milioni e mezzo di persone sono profughi interni). Altri numeri danno un’idea più precisa del profilo di un profugo climatico e ambientale.
Negli ultimi venti anni, «il 90% delle catastrofi sono causate da fenomeni legate al clima, quali inondazioni, tempeste e siccità» (Onu). I morti sono stati 600 mila, le case distrutte 87 milioni: l’anno scorso gli sfollati per calamità sono stati 19,2 milioni, e nel periodo 2008-2014 157 milioni di profughi hanno abbandonato le loro abitazioni.
Se risulta evidente il legame tra devastazione ambientale e migrazioni, è logico che la politica continui a tacere sui fattori di “origine antropica”. La sua vocazione predatoria è il problema. François Gemenne, docente all’università di Versaille-Saint Quentin, ha scosso la sala dicendo «tutti noi siamo responsabili» (abbiamo un conto in banca e i nostri soldi servono a finanziare energie fossili).
Siamo entrati nell’era geologica dell’Antropocene, questa la tesi. «Gli uomini sono diventati la principale forza di trasformazione del pianeta, significa che la terra è diventata soggetto politico. Non tutta l’umanità è responsabile, la verità è che questa è l’età in cui pochi uomini trasformano l’ambiente». Significa ammettere che i disastri non sono opera del fato e che, considerate le conseguenze – le migrazioni – non ha senso la «dicotomia tra rifugiati e migranti». Non è una differenza giuridica ma eminentemente politica, «il rifugiato ambientale viene screditato perché altrimenti dovremmo riconoscere le persecuzioni che esercitiamo verso quelle popolazioni».
Depoliticizzare la questione significa essere complici: «I ricercatori lo sono perché hanno creduto di poter influenzare la politica, siamo stati degli idioti». Emilio Molinari, nel suo intervento su diritto all’acqua e profughi idrici, ha chiesto alla sinistra “libertaria e laica” se davvero tutto ciò è in cima ai “nostri” pensieri. Ha ricordato un rapporto del Pentagono del 2004 (era Bush), la pianificazione di un disastro: «Diceva che Usa e Europa diventeranno fortezze virtuali per respingere i profughi ambientali e che chi non saprà difendersi verrà travolto…». E l’acqua. Ne vengono imbottigliati 50 miliardi di litri ogni giorno, un campo da golf in Africa ne consuma come una città di 6 mila abitanti, un residence in Kenia ne fornisce 3 mila litri a stanza e agli abitanti 60 a famiglia, la coltivazione di rose in Kenia e in Etiopia per il mercato europeo – milioni di tonnellate – sta prosciugando i laghi e riduce le lavoratrici in condizione di schiavitù. Poi l’affondo: «Qui un sindaco non ripubblicizza l’acqua e poi apre uno sportello per le unioni civili e noi siamo tutti contenti». La sala applaude.
Jens Holm, deputato svedese, ha messo in relazione il consumo di carne e l’uso sconsiderato della terra. Per un chilo di proteine animali servono 5 mila litri di acqua, la produzione di carne su scala globale produce le stesse emissioni del traffico automobilistico – «ma nessuno lo dice» – e l’aumento vertiginoso della produzione di soia serve unicamente per la mangimistica animali, laddove la produzione costringe le popolazioni che ci abitano ad abbandonare le terre. Succede in Brasile. Di terra ha parlato anche Vittorio Agnoletto per dire che gli accordi commerciali (nella fattispecie Epa) e il fenomeno del land grabbing (l’acquisizione di terreni da parte di governi e società straniere) producono immigrazione. «Con questi accordi i paesi africani non possono imporre dazi per proteggere i loro prodotti e così le multinazionali vendono sottocosto distruggendo intere economie».
Il Burundi ha perso 20 milioni di dollari, il Kenia 24: «La Ue sta cercando di ottenere sproporzionati vantaggi da una delle zone più povere del mondo». Quanto al land grabbing, «sono già stati acquistati 44 milioni di ettari e in Africa quasi la metà del terreno comprato non produce più cibo».
L’Italia fa la sua parte (un milione di ettari acquistati). «Noi milanesi – ha concluso – riempiamoci di vergogna: ricordiamoci la carta di Milano dell’Expo, avrebbe dovuto cambiare il mondo…». Francesca Casella (Survival International) e Luca Manes (Re:Common) hanno sottolineato il caso emblematico della valle del fiume Omo (Etiopia) dove la costruzione di una diga sta generando una “catastrofe umanitaria” che coinvolge una popolazione di 500 mila persone.
Si è parlato anche di “approccio hotspot” bocciando senza appello la politica europea dei rimpatri. E di un aspetto giuridico di fondamentale importanza, visto che la Convenzione di Ginevra non riconosce lo status di chi scappa da catastrofi ambientali (unica eccezione: Svezia e Finlandia). Oltre agli aspetti di denuncia e informazione, questo è l’obiettivo del convegno: promuovere un’azione parlamentare a livello europeo per il riconoscimento della figura del rifugiato ambientale. Un cambio di prospettiva necessario per una missione che oggi sembra disperata.